
La Bce ha imposto agli istituti un'accelerata nella cessione degli Npl ad altri soggetti. Da una parte c'è il danno ai bilanci delle banche, con relativi interventi di Stato, dall'altra imprese e famiglie che si ritrovano di fronte a nuovi (e famelici) creditori.La gestione dei crediti bancari deteriorati è uscita dai ristretti cenacoli degli addetti ai lavori per finire - da tempo - su tutti i media, anche quelli non specializzati. Il recente clamore suscitato dalle difficoltà di Banca Carige è servito a ricordare al grande pubblico che l'onda lunga degli effetti di una recessione di dimensione epocale (calo del Pil del 10% e della produzione industriale del 25%, numeri mai visti in tempi di pace nel nostro Paese) è ancora lontana dall'esaurirsi. Il caso Carige è servito anche a ricordarci che si tratta dell'ottava banca in circa 3 anni ad andare in difficoltà, dopo le quattro banche andate in risoluzione nel novembre 2015, le due venete liquidate nel 2017 e Mps che è stata ricapitalizzata precauzionalmente dallo Stato a inizio 2017. Queste ultime con sacrificio di azionisti e obbligazionisti subordinati, spesso piccoli risparmiatori. Ma questo è solo l'ultimo, ma non il più lieve, danno collaterale dei 12 trimestri quasi ininterrotti di calo del Pil tra fine 2011 e inizio 2014. Il vero macigno è ora costituito dagli effetti delle cessioni dei crediti deteriorati (quindi la somma di sofferenze, incagli e scaduti). A fine 2015 ammontavano a 360 miliardi, scesi a 324 a fine 2016. Circa il 20% del Pil o 10 volte la legge di bilancio.La vigilanza Bce, insediatasi a fine 2014, ha avuto praticamente un solo obiettivo: la riduzione di tali somme nei bilanci bancari, costi quel che costi. Gli effetti di questa azione non si sono fatti attendere. Tra 2017 e 2018 ben 164 miliardi di crediti deteriorati sono stati ceduti a un ristretto gruppo di operatori, soprattutto internazionali. In pochi mesi, centinaia di migliaia di famiglie e imprese italiane si sono ritrovate a essere debitrici non più della loro banca ma di altri soggetti che hanno l'unico obiettivo di recuperare nella massima misura possibile, e soprattutto maledettamente in fretta, il credito che hanno acquistato. Il fenomeno era di entità tale che il direttore generale di Banca d'Italia, Fabio Panetta, a giugno 2017 dichiarava che «politiche generalizzate di vendita Npl trasferirebbero risorse a danno di banche italiane in favore di operatori specializzati».Questo trasferimento di risorse, oltre a mettere in ginocchio i bilanci di tante banche italiane, costringendole a ingenti ricapitalizzazioni e portando al dissesto quelle più esposte, ha inciso nella carne viva di famiglie e imprese, trovatesi improvvisamente esposte all'azione di un creditore meno paziente della banca e con sfidanti obiettivi di redditività, infatti i tassi interni di rendimento di questi investimenti oscillano fra 10 e 12%.Ora, delle due, l'una. O non c'è valore in questi crediti deteriorati e allora non si capisce perché gli investitori specializzati continuino ad acquistarli a quei prezzi con interessanti prospettive di profitto, oppure (come probabile) c'è valore e allora non ha senso la pressione della Bce per la svalutazione e cessione degli stessi.Beninteso, lungi dal demonizzare gli operatori specializzati, qui si vuole evidenziare la manifesta asimmetria di un mercato in cui la «merce» in vendita è tanta, il venditore è costretto a vendere in tempi rapidi e i compratori sono pochi. Il risultato non può che essere un'epocale distruzione di valore a danno del sistema produttivo italiano. Uno studio di Banca d'Italia del dicembre scorso è un interessante squarcio di luce su questo trasferimento di risorse. Nel 2017, il tasso di recupero delle sofferenze non cedute (quindi recuperate direttamente dalle banche) è stato pari al 44%, per quelle cedute il tasso è stato invece pari al 26%. In particolare - da un'analisi campionaria specifica per il 2017 - risulta che il tasso di recupero per le posizioni cedute è stato del 17% (26% per quelle assistite da garanzie reali, 10% per quelle non assistite). In aggiunta, tre posizioni su quattro vengono cedute, quando prima della crisi le cessioni non superavano il 10% delle posizioni. Un'impressionante forbice separa quanto recuperato direttamente e più lentamente dalle banche rispetto a quanto recuperato con affrettate cessioni.Le posizioni entrate in sofferenza hanno raggiunto il picco nel 2015, aumentando del 50% circa rispetto al livello pre crisi. È l'onda lunga della recessione iniziata tre anni prima. Come autorevoli ricerche hanno dimostrato, gli specifici episodi di mala gestio e commistione tra politica e affari, costituiscono solo eccezioni numericamente modeste rispetto all'evidenza della causa principale, costituita dalle peggiori condizioni macroeconomiche mai viste nel dopoguerra.Il tasso di recupero per sofferenze non oggetto di cessione, con anzianità maggiore di 6 anni è del 34% circa. Questo per rispondere ai dogmi della Vigilanza Bce che, proprio qualche giorno fa, ha «raccomandato» a Mps di svalutare automaticamente le sofferenze in 7 anni.Dietro questi numeri ci sono capannoni, case, aziende, famiglie di italiani che sono stati travolti dalla crisi e che ora si ritrovano l'ufficiale giudiziario sotto casa. «Plus», il supplemento settimanale del Sole 24 Ore, è divenuto un cahiers de doleance di chi si ritrova a fronteggiare creditori impazienti ed estremamente determinati.Non si può continuare così, attendendo che le banche continuino a svalutare o cedere crediti, anche se gran parte del danno sembra ormai fatto, in ossequio a regole dissennate che non tengono conto dell'eccezionalità della situazione italiana, in una spirale negativa che rischia d'intaccare anche banche relativamente sane. Non si può nemmeno attendere che la selvaggia legge del mercato faccia scempio del patrimonio immobiliare e aziendale italiano. Non si possono tenere in ostaggio famiglie e aziende che potrebbero reinserirsi nel circuito produttivo, se ne avessero l'opportunità. È necessario voltare pagina rispetto a un evento di portata storica, quale la recessione che ha investito il nostro Paese.Ne scrive da tempo Dino Crivellari, uno dei più grandi esperti del settore, e già nella passata legislatura da più parti politiche si avanzò la proposta di una sorta di «giubileo bancario». In estrema sintesi, la facoltà per il debitore di pagare la banca al valore netto residuo di bilancio o al valore di eventuale cessione aumentato di una percentuale. Tutto questo per sofferenze già accertate alla data dal 31/12/2017 o altra data anteriore opportunamente scelta per prevenire comportamenti opportunistici o eccessive discriminazioni.Sul fronte delle banche si sta giocando la partita più importante per consentire al nostro Paese di ripartire e di risanare le profonde ferite del passato. Su questo terreno si misurerà la capacità di questo governo di sapersi efficacemente confrontare con l'Europa e di correggere o disapplicare regole accettate troppo supinamente in passato al grido di «ce lo chiede l'Europa». Hic Rhodus, hic salta.
Imagoeconomica
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Sanae Takaichi (Ansa)
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(Guardia di Finanza)
Sequestrate dalla Guardia di Finanza e dai Carabinieri oltre 250 tonnellate di tabacchi e 538 milioni di pezzi contraffatti.
I Comandi Provinciali della Guardia di finanza e dell’Arma dei Carabinieri di Torino hanno sviluppato, con il coordinamento della Procura della Repubblica, una vasta e articolata operazione congiunta, chiamata «Chain smoking», nel settore del contrasto al contrabbando dei tabacchi lavorati e della contraffazione, della riduzione in schiavitù, della tratta di persone e dell’intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.
Le sinergie operative hanno consentito al Nucleo di polizia economico-finanziaria Torino e alla Compagnia Carabinieri di Venaria Reale di individuare sul territorio della città di Torino ed hinterland 5 opifici nascosti, dediti alla produzione illegale di sigarette, e 2 depositi per lo stoccaggio del materiale illecito.
La grande capacità produttiva degli stabilimenti clandestini è dimostrata dai quantitativi di materiali di contrabbando rinvenuti e sottoposti a sequestro: nel complesso più di 230 tonnellate di tabacco lavorato di provenienza extra Ue e circa 22 tonnellate di sigarette, in gran parte già confezionate in pacchetti con i marchi contraffatti di noti brand del settore.
In particolare, i siti produttivi (completi di linee con costosi macchinari, apparati e strumenti tecnologici) e i depositi sequestrati sono stati localizzati nell’area settentrionale del territorio del capoluogo piemontese, nei quartieri di Madonna di Campagna, Barca e Rebaudengo, olre che nei comuni di Caselle Torinese e Venaria Reale.
I siti erano mimetizzati in aree industriali per dissimulare una normale attività d’impresa, ma con l’adozione di molti accorgimenti per svolgere nel massimo riserbo l’illecita produzione di sigarette che avveniva al loro interno.
I militari hanno rilevato la presenza di sofisticate linee produttive, perfettamente funzionanti, con processi automatizzati ad alta velocità per l’assemblaggio delle sigarette e il confezionamento finale dei pacchetti, partendo dal tabacco trinciato e dal materiale accessorio necessario (filtri, cartine, cartoncini per il packaging, ecc.), anch’esso riportante il marchio contraffatto di noti produttori internazionali autorizzati e presente in grandissime quantità presso i siti (sono stati infatti rinvenuti circa 538 milioni di componenti per la realizzazione e il confezionamento delle sigarette recanti marchi contraffatti).
Gli impianti venivano alimentati con gruppi elettrogeni, allo scopo di non rendere rilevabile, dai picchi di consumo dell’energia elettrica, la presenza di macchinari funzionanti a pieno ritmo.
Le finestre che davano verso l’esterno erano state oscurate mentre negli ambienti più interni, illuminati solo artificialmente, erano stati allestiti alloggiamenti per il personale addetto, proveniente da Paesi dell’Est europeo e impiegato in condizioni di sfruttamento e in spregio alle norme di sicurezza.
Si trattava, in tutta evidenza, di un ambiente lavorativo degradante e vessatorio: i lavoratori venivano di fatto rinchiusi nelle fabbriche senza poter avere alcun contatto con l’esterno e costretti a turni massacranti, senza possibilità di riposo e deprivati di ogni forma di tutela.
Dalle perizie disposte su alcune delle linee di assemblaggio e confezionamento dei pacchetti di sigarette è emersa l’intensa attività produttiva realizzata durante il periodo di operatività clandestina. È stato stimato, infatti, che ognuna di esse abbia potuto agevolmente produrre 48 mila pacchetti di sigarette al giorno, da cui un volume immesso sul mercato illegale valutabile (in via del tutto prudenziale) in almeno 35 milioni di pacchetti (corrispondenti a 700 tonnellate di prodotto). Un quantitativo, questo, che può aver fruttato agli organizzatori dell’illecito traffico guadagni stimati in non meno di € 175 milioni. Ciò con una correlativa evasione di accisa sui tabacchi quantificabile in € 112 milioni circa, oltre a IVA per € 28 milioni.
Va inoltre sottolineato come la sinergia istituzionale, dopo l’effettuazione dei sequestri, si sia estesa all’Agenzia delle dogane e dei monopoli (Ufficio dei Monopoli di Torino) nonché al Comando Provinciale del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco di Torino nella fase della gestione del materiale cautelato che, anche grazie alla collaborazione della Città Metropolitana di Torino, è stato già avviato a completa distruzione.
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