Unimpresa: il reale beneficiario sarebbe lo Stato che incasserebbe 1,5 miliardi in più.
Unimpresa: il reale beneficiario sarebbe lo Stato che incasserebbe 1,5 miliardi in più.Anche Unimpresa punta il dito contro l’utilità del salario minimo. Secondo l’Unione nazionale delle imprese solo l’1% della forza lavoro prende meno di 8 euro l’ora, mentre il 18% riceve tra 8 e 9 euro l’ora. Per questo motivo, l’idea di una retribuzione oraria minima di 9 euro l’ora per i lavoratori italiani non rappresenterebbe un reale beneficio per le loro tasche. Come fa sapere Unimpresa, «in Italia i minimi retributivi sono garantiti da un sistema vasto e capillare di contrattazione collettiva, che, a fine 2022, vede 946 contratti collettivi nazionali di lavoro depositati al Cnel e copre, su un totale di circa 13,2 milioni di lavoratori dipendenti privati, 12,8 milioni di persone ovvero il 97% degli addetti».Ecco perché, «l’introduzione del cosiddetto salario minimo a nove euro, pertanto, significherebbe portare un incremento mensile per questo potenziale 1% dei lavoratori in media poco più di 50 euro netti mensili, mentre il vero ed unico beneficiario sarebbe lo Stato che tra incremento del gettito Irpef e di quello contributivo porterebbe nelle sue casse 1,5 miliardi di euro».«È chiaro allora che il tema del salario minimo è utilizzato solo come strumento di campagna elettorale giocando come sempre sulla pelle di lavoratori e delle imprese, poiché così facendo si produrrebbe solo un aumento del costo del lavoro stimato in oltre 6,7 miliardi che avrebbe un impatto negativo principalmente sulle piccole e medie imprese, riducendone drasticamente la competitività soprattutto nei mercati internazionali con conseguenze che non è difficile immaginare: riduzione di manodopera ed ulteriore ricorso al sommerso, vera piaga sociale», osserva il consigliere nazionale di Unimpresa, Giovanni Assi.Unimpresa, spiega poi che il tema del salario minimo a poco servirebbe per combattere il vero problema degli italiani: la perdita di potere d’acquisto dei salari. Per questo motivo, sarebbe bene portare avanti politiche governative che incidano in maniera strutturale sul cuneo fiscale.L’associazione evidenzia che per risolvere questo problema si deve prima di tutto puntare sullo «strumento del welfare aziendale, innalzando la soglia di fringe benefit a 3.000 euro per tutti i lavoratori dipendenti e ai lavoratori con un reddito assimilato a quello del lavoro dipendente, a prescindere dalla presenza di figlia o coniuge a carico, come, invece, inspiegabilmente stabilito nell’ultimo decreto lavoro convertito in legge. Al fine di aumentare il potere di acquisto dei lavoratori dipendenti e, al tempo stesso di stimolare la produttività, è necessario azzerare le imposte, sia a carico dei lavoratori sia a carico delle aziende, sui premi di produttività fino all’importo annuo di 6.000 euro». Non solo. «Allo scopo, poi, di stimolare la contrattazione di secondo livello e di consentire alle realtà aziendali di integrare istituti economici e normativi disciplinati dai contratti collettivi nazionali», continua lo studio, «sarebbe indispensabile detassare totalmente gli aumenti salariali che derivano dalla contrattazione di secondo livello». Così, a esempio, se un contratto nazionale stabilisce un minimo salariale per un determinato livello di 10 euro l’ora e l’azienda, per effetto di una contrattazione di secondo livello definita con le organizzazioni sindacali, corrisponde a quel lavoratore un salario di 12 euro all’ora, quei due euro aggiuntivi andrebbero considerati totalmente esenti da contribuzione e tassazioni. «Ciò», conclude l’analisi, «con l’obiettivo di portare effettivamente nelle tasche del lavoratore due euro in più nette e all’azienda di costare effettivamente due euro senza ulteriori aggravi».
Leone XIV (Ansa)
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