2019-05-09
Klopp profeta del Liverpool: «Non camminerai mai solo? Ok, ma serve una direzione»
Il 4-0 con cui ha rovesciato il Barça e Messi è il manifesto del suo calcio da manicomio. Adesso punta alla coppa, già sfiorata due volte, con la forza di chi non bada al risultato«Il Barcellona è una sinfonia, ma io preferisco l'heavy metal». Era tutto in questa frase, sulle Ramblas avrebbero dovuto ascoltarla. Invece si sono concentrati sulla risata finale, irriverente e contagiosa, di quelle che Jürgen Klopp butta lì come a dire: «Tranquilli, stavo scherzando». Invece niente di più vero, niente di più eroico per l'ultimo You'll never walk alone del Liverpool, la rock band che suonando metallo pesante ad Anfield Road ha ribaltato un 3-0, ha conquistato la seconda finale di Champions consecutiva, ha spazzato via in un colpo solo Leo Messi, Luis Suarez, Ernesto Valverde, l'orgoglio catalano e anche Antoni Gaudì. Una cultura ha vinto sull'altra, il tiki taka va definitivamente in soffitta. E la rivoluzione ha il volto di questo dentone tedesco di 52 anni con occhiale da nerd e capello trapiantato (come Wayne Rooney, come Antonio Conte), capace di sconvolgere il mondo con le sue idee basiche dall'Inghilterra, proprio come fece 150 anni fa un certo suo connazionale di nome Karl Marx. Quello partì da Treviri e si rintanò a Londra a scrivere Il Capitale, questo comincia a stravolgere le regole del gioco (del pallone) a Magonza, la città di Johannes Gutenberg, a 34 anni. È un dignitoso calciatore di categoria («Testa da Bundesliga, piedi da quarta serie» l'autoscatto tecnico), partito centravanti e arrivato terzino destro come tanti. Finisce in panchina dalla sera alla mattina dopo un blitz notturno del presidente del Mainz sull'orlo della retrocessione, il quale caccia l'allenatore e chiede al consiglio: «Chi capisce qualcosa di tattica in squadra?». Risposta all'unisono: «Kloppo». È il suo vezzeggiativo. Salva il Mainz, ci rimane sette anni, lo porta in coppa Uefa. E comincia a crearsi un personaggio quando decide di condurre in ritiro la squadra su un lago in Svezia, in tenda canadese, senza elettricità e senza provviste. «Volevo dimostrare loro che si può sopravvivere a qualsiasi cosa, quindi anche alla fatica».AscesaNel 2008 arriva la chiamata del Borussia Dortmund, con il quale vince due campionati, tre supercoppe tedesche, una coppa di Germania e conquista una finale di Champions persa contro il Bayern Monaco. Non si può non notare Jürgen Klopp. È totalmente diverso dall'immagine dell'allenatore tedesco classico, compassato nell'impermeabile da tenente Colombo, imperturbabile davanti a un gol in rovesciata come a un rigore rubato. Lui invece è tarantolato, casinista, ironico con i giornalisti, incita i tifosi a cantare e canta con loro, apostrofa il quarto uomo criticandogli il colore dei calzini. E quando un suo giocatore segna fa l'aeroplanino davanti alla panchina. Ma sul campo d'allenamento è un dittatore come il suo maestro di tattica Arrigo Sacchi: ordini secchi, asticella sempre più alta, parossismo atletico. «Pretendo intensità, massimo impegno. Tutti siamo pagati anche nei giorni feriali, non solo la domenica». Tsunami rosso Klopp vuole difensori che attacchino e attaccanti che tornino in difesa sempre. Tutto a velocità supersonica. Pretende un calcio verticale che punti alla porta avversaria come una calamita. Un'onda, uno tsunami, preciso a quello che ha travolto una macchina perfetta come il Barcellona arrivato a Liverpool per espletare una formalità, quindi pronto a fare il vitello grasso nella nota parabola. Perché il trionfo di Klopp è la disfatta di Valverde, che non ha tenuto l'urto, che ha preteso di giocare in 10 contro 11 ad Anfield Road (Philippe Coutinho, un fantasma). E che si è ritrovato dopo un'ora sotto di tre gol e con un problemino da niente: la solita crisi depressiva di Leo Messi quando le cose si mettono male. Giocatore divino ma fragile, l'argentino tende a scomparire durante le tempeste, quando i grandi (Diego Maradona lo faceva, Cristiano Ronaldo lo fa) dovrebbero aggrapparsi al timone. Succede regolarmente con la maglia della Nazionale. E con un Messi che somiglia a Dybala è dura sopravvivere a Liverpool. È qui che Klopp arriva nell'autunno 2015, è qui che da allenatore folle diventerà messia. Non conosce una parola d'inglese e prima di firmare il contratto da 7 milioni l'anno confida le sue perplessità a Christian Heidel, un vecchio amico oggi dirigente dello Schalke 04. «Gli dissi che il suo punto di forza è la comunicazione, l'empatia che crea. Se altri avessero dovuto parlare al posto suo, tanto valeva rifiutare. Ci vide la sfida, imparò la lingua in due mesi, accettò». In spregio a Josè Mourinho (lo Special One che peraltro stima), si fa chiamare Normal One. Lo precedono un paio di note eccentriche. Ama spostarsi in metropolitana e scende alla fermata prima perché «camminare mi aiuta a mettere a posto i pensieri»; del resto è laureato in Scienze dello Sport con una tesi dal titolo Walk. Tende a piangere (e Shinji Kagawa ne è testimone) quando il club gli vende calciatori ai quali è affezionato. Nel 2014, a Londra col Borussia per giocare contro l'Arsenal, diserta l'allenamento all'Emirates per portare la squadra a sgambare in Regent Park fra la curiosità dei passanti. A Liverpool è subito empatia con il club, con la sua storia, con i suoi tifosi, con quel senso di amicizia e solidarietà («Avanti incontro al vento, avanti incontro alla pioggia anche sei i tuoi sogni venissero svuotati e dispersi. Tieni la speranza nel cuore, non camminerai mai da solo») che sale dalle note dell'inno sportivo più famoso del mondo. Merseyside è ai piedi del mago tedesco, un Menschenfänger, un tipo che cattura le persone. «Ogni giocatore corre per lui a dà il massimo sul campo per non deluderlo», spiega un mito vivente del luogo come Kenny Dalglish. È quello che è avvenuto martedì sera, è quello che avviene quasi sempre anche se il suo Liverpool è specialista in finali perse: una di Europa League contro il Siviglia, una di Fa Cup contro il Manchester City, una di Champions lo scorso anno contro il Real Madrid per le papere del portiere Loris Karius. Dopo il ko ai rigori contro Pep Guardiola in Fa Cup entra in sala stampa e dice: «Ci sentiamo uomini spazzatura». Pausa di riflessione: «No, ci sentiamo proprio uomini di merda». Per questo su di lui, nei periodi grigi, aleggia lo spettro del perdente di successo.Senso dell'impresa Niente di più sbagliato perché Klopp porta con sé nella valigia qualcosa che conta come la vittoria: il senso dell'impresa, l'ardore della conquista, la felicità di chi dà spettacolo senza cinismo e senza indicare la via del circo equestre. Never walk alone. Aggiunge lui: «Camminare è fondamentale, ma devi avere una direzione», e indica ai suoi ogni volta la finale. Poi partecipa, soffre, prende Manè sulle spalle, si stira un polpaccio festeggiando una vittoria sotto la curva, perde dieci volte gli occhiali nella tonnara dell'abbraccio collettivo. Ma quando Christian Benteke glieli rompe per sbaglio, lo fa cedere al Crystal Palace. Relax? Quasi mai. Solo all'isola di Sylt (mare del Nord) in un cottage dal tetto di paglia con la sua amata Ulla, ex cameriera del bar di Mainz dove andava a farsi una birra con la squadra.Dopo l'impresa sul Barcellona si è limitato a dire, quasi in estasi davanti al mondo in delirio: «Really strong, really direct, really clear, really together». Veramente forti, determinati, trasparenti. Veramente insieme. In attesa di un'altra finale di Champions e di una Premier che potrebbe diventare magica (il Liverpool è secondo a un punto dal City a una giornata dalla fine) è interessante conoscere le parole pronunciate davanti alla squadra prima di scendere in campo. E scoprire - via Dejan Lovren - che ha tenuto un discorso come quello di Al Pacino in Ogni maledetta domenica. «Ragazzi credete, possiamo farlo. Uno o due gol, anche se non segnate nei primi 20 minuti. Credete al 65°, al 66°, al 67° perché possiamo segnare. E allora con Anfield alle nostre spalle ce la faremo». Un centimetro dopo l'altro verso la luce, perfetto Sturm und Drang. Da chi ha intitolato la biografia Mi piace quando tuona non ci si poteva aspettare di meglio.
John Elkann (Getty Images)
Francois Bayrou (Getty Images)