
Controlli sui nuovi sieri più accurati, ma gli alfieri dei colossi farmaceutici protestano.È bastato che il segretario alla Salute Usa, Robert F. Kennedy, annunciasse controlli più accurati nelle autorizzazioni ai vaccini per far insorgere la scatenata comunità di cheerleader dell’industria farmaceutica mondiale. Kennedy, mantenendo le promesse fatte da lui e dal presidente Donald Trump in campagna elettorale per «rendere l’America di nuovo sana» (Maha), ha comunicato che tutti i nuovi vaccini dovranno sottoporsi a test placebo. La procedura consiste nell’applicare i principi scientifici «gold standard» alla valutazione della sicurezza dei vaccini, dividendo i volontari che si sottopongono alla sperimentazione in due gruppi: uno riceve il nuovo preparato da testare, l’altro un prodotto placebo a base di soluzione fisiologica. Gli studi controllati con placebo sono il gold standard scientifico: costituiscono il metodo più affidabile che abbiamo per determinare la causalità degli eventi avversi e sono essenziali per sapere se un effetto collaterale è causato dal vaccino o si sarebbe verificato a prescindere. Qualcuno forse dava per scontato che i vaccini fossero già testati in questo modo. Purtroppo, no: fino ad ora molti preparati, in particolare quelli inclusi nel vasto programma di immunizzazione infantile dei Cdc (l’agenzia federale Usa per il controllo della sanità pubblica), sono stati autorizzati senza essere testati contro un placebo, bensì contro un altro vaccino o principio attivo, rendendo quasi impossibile isolare segnali di sicurezza. La lista è lunga: si va dal vaccino anti epatite B a quello contro difterite, tetano e pertosse, dal Pcv contro lo pneumococco a quelli contro il rotavirus, la varicella, il papilloma virus, il meningococco, lo streptococco e molti altri, regolarmente somministrati anche ai bambini italiani ed europei. La vera notizia, però, non è l’annuncio di Kennedy ma la risposta isterica che ha suscitato: incredibilmente, l’idea che d’ora in poi i vaccini siano sottoposti a test più rigorosi, anziché rassicurare la comunità scientifica, ha fatto infuriare alcune delle figure più importanti dell’establishment vaccinale. La preoccupazione principale di alcuni «esperti» consultati dal Washington Post è che i test per la sicurezza richiesti da Kennedy possano «limitare l’accesso ai vaccini e minare la fiducia della popolazione nell’immunizzazione». No, non è uno scherzo: secondo i sostenitori del sistema, a cominciare dal pediatra Paul Offit, membro della commissione vaccinale dell’Fda, «l’obiettivo è rendere i vaccini meno disponibili e meno accessibili». Una dichiarazione che, palesemente, non vuole difendere la scienza o la salute pubblica ma il sistema vaccinale che, come lo stesso Offit ammette, rischia di soccombere sotto la scure dei controlli decisi da Kennedy. La pretesa dell’establishment è che i vaccini debbano continuare ad essere esentati dai test di controllo per poter rimanere commercialmente vitali, con l’obiettivo sfacciatamente dichiarato di tutelare l’industria farmaceutica anziché la popolazione. Altri esperti hanno invocato il principio cosiddetto etico: «È accettabile che il gruppo placebo rischi di contrarre la malattia?». Si tratta della stessa, agghiacciante inversione logica che ha furoreggiato in pandemia, quando anche al gruppo placebo nella fascia dai 16 anni in su fu quasi subito somministrato il vaccino anti Covid, compromettendo qualsiasi tipo di rigore scientifico nella sperimentazione. Nessuno, all’epoca, obiettò che ciò che non è etico è distribuire un prodotto a miliardi di persone, la maggioranza delle quali in buona salute, senza prove solide della sua sicurezza, violando il principio del consenso informato: non è possibile accettare un rischio mai adeguatamente misurato. Se i vaccini sono «sicuri ed efficaci», maggiori studi e più dati dovrebbero essere accolti con favore: l’opposizione alle nuove politiche di Kennedy sembra andare non in difesa della scienza, ma a tutela di un sistema fatto di scorciatoie normative e convenienza commerciale.
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Fu il primo azzurro a conquistare uno Slam, al Roland Garros del 1959. Poi nel 1976, da capitano non giocatore, guidò il team con Bertolucci e Panatta che ci regalò la Davis. Il babbo era in prigionia a Tunisi, ma aveva un campo: da bimbo scoprì così il gioco.
La leggenda dei gesti bianchi. Il patriarca del tennis. Il primo italiano a vincere uno slam, il Roland Garros di Parigi nel 1959, bissato l’anno dopo. Se n’è andato con il suo carisma, la sua ironia e la sua autostima Nicola Pietrangeli: aveva 92 anni. Da capitano non giocatore guidò la spedizione in Cile di Adriano Panatta, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci e Tonino Zugarelli che nel 1976 ci regalò la prima storica Coppa Davis. Oltre a Parigi, vinse due volte gli Internazionali di Roma e tre volte il torneo di Montecarlo. In totale, conquistò 67 titoli, issandosi al terzo posto della classifica mondiale (all’epoca i calcoli erano piuttosto artigianali). Nessuno potrà togliergli il record di partecipazioni (164, tra singolo e doppio) e vittorie (120) in Coppa Davis perché oggi si disputano molti meno match.
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Il presidente Gianni Tessari: «Abbiamo creato una nuova Doc per valorizzare meglio il territorio. Avremo due etichette, una per i vini rifermentati in autoclave e l’altra per quelli prodotti con metodo classico».
Si è tenuto la settimana scorsa all’Hotel Crowne Plaza di Verona Durello & Friends, la manifestazione, giunta alla sua 23esima edizione, organizzata dal Consorzio di Tutela Vini Lessini Durello, nato giusto 25 anni fa, nel novembre del 2000, per valorizzare le denominazioni da esso gestite insieme con altri vini amici. L’area di pertinenza del Consorzio è di circa 600 ettari, vitati a uva Durella, distribuiti sulla fascia pedemontana dei suggestivi monti della Lessinia, tra Verona e Vicenza, in Veneto; attualmente, le aziende associate al Consorzio di tutela sono 34.
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)
Un mio profilo è stato cancellato quando ho pubblicato dati sanitari sulle pratiche omoerotiche. Un altro è stato bloccato in pandemia e poi eliminato su richiesta dei pro Pal. Ne ho aperto un terzo: parlerò dei miei libri. E, tramite loro, dell’attualità.
Se qualcosa è gratis, il prodotto siamo noi. Facebook è gratis, come Greta è pro Lgbt, pro vax, anzi anti no vax, e pro Pal. Se sgarri, ti abbatte. Il mio primo profilo Facebook con centinaia di migliaia di follower è stato cancellato qualche anno fa, da un giorno all’altro: avevo riportato le statistiche sanitarie delle persone a comportamento omoerotico, erroneamente chiamate omosessuali (la sessualità è una funzione biologica possibile solo tra un maschio e una femmina). In particolare avevo riportato le statistiche sanitarie dei maschi cosiddetti «passivi».






