True
2023-09-17
Kadyrov peggiora e Putin adesso trema: la polveriera cecena rischia di riesplodere
Ramzan Kadyrov (Ansa)
Continuano a rincorrersi le notizie sulle gravi condizioni di salute del leader ceceno Ramzan Kadyrov. Secondo i servizi segreti occidentali il «macellaio di Grozny» è in coma, prossimo alla morte.
Un quadro verosimile, considerato che il fedelissimo di Vladimir Putin lotta contro una malattia ai reni da anni, aggravata dal vizio dell’alcol, contro la quale non sono servite né le cure ricevute in Russia, né quelle negli Emirati arabi. Kadyrov (46 anni) è insomma un condannato in attesa della sua fine. Per la quale ha pagato per primo il suo medico personale, Elkhan Suleimanov: secondo la Bild, infatti, il dottore è stato sepolto vivo, incolpato del forte deterioramento della salute del suo paziente e sospettato di aver cercato di avvelenarlo.
Ma la morte di Kadyrov sarà un cruccio anche per il presidente russo: il vuoto di potere lasciato dal dittatore ceceno potrà infatti causare il caos non solo nelle sue milizie, che combattono a fianco di Mosca in Ucraina, bensì in tutta l’area del Caucaso, tormentata fino al 2009 da conflitti e instabilità. Per capire l’importanza di Kadyrov e del suo regime islamico, bisogna tener presente la storia della Repubblica cecena: dopo la dissoluzione dell’Urss, la sua popolazione, prevalentemente musulmana, ha cercato di divenire indipendente dalla Russia, senza successo. Kadyrov, da nemico giurato di Mosca, alla fine delle seconda guerra cecena divenne il presidente della regione per mano di Putin, di cui divenne fedele alleato. Da allora le carriere dei due leader sono legate a doppio filo: lo zar può contare sul presidente ceceno per tenere a bada la repubblica ribelle e controllare l’intero Caucaso settentrionale, mentre Kadyrov mantiene il potere, amministra la Cecenia come un feudo personale, e gode di un’enorme ricchezza.
Personaggio controverso, spietato uomo della guerra, il ceceno è quindi per il Cremlino una garanzia di stabilità della zona, in cui ribolle il fondamentalismo islamico e le relative cellule terroristiche, rimaste sotto la cenere dopo anni di attentati sanguinosi in Russia (basti pensare all’attacco delle «vedove nere» al teatro Dubrovka di Mosca nell’ottobre 2002, in cui persero la vita 129 civili, e la strage alla scuola di Beslan del 2004, con 334 morti, oltre a diversi attacchi kamikaze in treni, metropolitane e aerei).
Senza Kadyrov, privo di eredi politici (come Putin) anche le sue milizie (i Kadyrovtsy) resteranno senza una figura di riferimento, nel bel mezzo della guerra in Ucraina. Nella quale, più che la qualità dei combattenti ceceni, ha contribuito la quantità. A Euronews, Harold Chambers, analista del Caucaso settentrionale, aveva affermato che «i ceceni sono un sorta di esercito speciale di Vladimir Putin e Kadyrov che è un convinto sostenitore della guerra vuole ingraziarsi il favore del presidente russo». Esperti nelle operazioni di controinsurrezione in patria, hanno partecipato a combattimenti urbani a Mariupol, Sievierodonetsk e nel Donbass. Allo stesso tempo, la Russia ha utilizzato i ceceni fedeli al Cremlino per disciplinare e, secondo quanto riferito, persino giustiziare soldati dissenzienti, nonché per intimidire i civili in Ucraina. Spietati e implicati in torture, saccheggi, stupri e stragi di civili, la presenza dei miliziani ceceni sarebbe stata per molti esperti militari più che altro una grossa operazione di propaganda russa che ha mostrato, specie nei primi giorni del conflitto, l’arrivo in Ucraina «dei combattenti d’élite del Cremlino» al grido di «Allah akbar». Un grido che senza Kadyrov rischia di togliere il sonno a Putin.
Intanto, un altro timore prende forma a Washington: le armi e le munizioni che i soldati Usa stanno muovendo attraverso l’Europa verso l’Ucraina rischiano di essere rubate o di andare perdute, perché le misure di sicurezza non vengono osservate in modo efficace, avverte il Pentagono che punta il dito in particolare contro un sito logistico in Polonia.
Novità anche sul fronte grano: l’Ucraina ha annunciato che due cargo stanno navigando nel Mar Nero in direzione dei suoi porti, per la prima volta dopo la scadenza, a luglio, dell’accordo con la Russia che permetteva di esportare le derrate ucraine malgrado l’invasione del Paese. Il ministro ucraino delle Infrastrutture, Oleksandr Kubrakov, ha spiegato che al «porto di Chernomorsk verranno caricate quasi 20.000 tonnellate di grano per l’Africa e l’Asia».
Le navi battono bandiera di Palau e i membri dell’equipaggio provengono da Turchia, Azerbaigian, Egitto e Ucraina. Lo stop delle esportazioni ucraine, dopo la scadenza dell’accordo con Putin, ha consolidato il dominio di Mosca sul mercato globale del grano, con l’inondazione del prodotto russo che ha dimezzato i prezzi del cereale. Allontanando, ancora una volta, le possibilità di un braccio di ferro senza compromessi con il Cremlino.
Iran, spari al corteo per Mahsa Amini
Proteste, scioperi, arresti. È stato tutt’altro che pacifico, in Iran, l’anniversario della scomparsa di Mahsa Amini, la giovane morta il 16 settembre dello scorso anno a seguito di tre giorni di coma dopo esser stata arrestata per aver indossato il velo in modo ritenuto allentato. Se infatti già nei giorni scorsi le autorità iraniane avevano arrestato centinaia di persone in diverse regioni - accusandole di voler incitare la popolazione nell’anniversario della morte della Amini -, nella giornata di ieri la tensione è salita alle stelle.
A Teheran, dove sono apparsi graffiti e striscioni contro la Repubblica islamica, alcune fonti hanno riferito di spari da parte della polizia sui manifestanti radunati attorno a Piazza Azadi e sette prigioniere politiche hanno inscenato una protesta nel carcere di Evin. Molti negozi sono rimasti chiusi a Baneh, Kamyaran, Divandarreh, Sanandaj e Saqqez, la città di cui Mahsa era originaria, e gli arresti non si sono certo fermati. Basti dire che in mattinata è stato fermato perfino Amjad Amini, il padre della giovane commemorata, il quale dopo le proteste degli scorsi giorni era stato messo sotto sorveglianza con la richiesta di non partecipare ad alcuna cerimonia in memoria della figlia; le stesse strade che, dalla casa della famiglia, conducono verso il cimitero di Aichi - dov’è sepolta la ragazza - da qualche giorno risultavano «altamente militarizzate» allo scopo di scoraggiare ogni manifestazione, con anche gli alberghi chiusi ad ogni ospite esterno.
A quello che a molti era parso come un tentativo d’intimidazione da parte del regime, la famiglia di Masha aveva risposto col seguente comunicato: «Come ogni famiglia in lutto, noi, la famiglia Amini, ci riuniremo presso la tomba della nostra amata figlia Jina (Mahsa) Amini, nell’anniversario della sua morte, e stiamo celebrando cerimonie commemorative tradizionali e religiose». Di conseguenza, non appena l’uomo ha lasciato la sua abitazione, a Saqez, è stato arrestato; a leggere alcune ricostruzioni sarebbe praticamente stato prelevato sulla porta. Poche ore dopo è però stato rilasciato e ora sarebbe ai domiciliari.
L’intera vicenda è stata così riferita dalla Ong Iran human rights, con sede a Oslo, secondo la quale il padre di Masha «è stato arrestato questa mattina mentre lasciava la sua casa» e lì «è tornato poche ore dopo». Sempre secondo la Ong, Amjad Amini era già stato convocato per essere interrogato da varie agenzie di sicurezza almeno quattro volte nelle ultime settimane, e anche altri due membri della stati arrestati martedì scorso durante un raid delle forze di intelligence a Saqqez e sarebbero tutt’ora detenuti. Evidentemente nel regime guidato dal presidente Ebrahim Raisi è ancora viva ben la memoria dello scorso anno, quando le proteste furono furiose e furiosa fu soprattutto la repressione, tanto che, secondo l’agenzia dei diritti umani iraniani Hrana, vi furono 20.000 arresti e persero la vita 551 persone.
Di quegli eventi Mahsa Amini è divenuta poi il simbolo, e certamente a Teheran erano - e sono - molto forti i timori di una riproposizione degli stessi. Di qui le rigidissime misure di sicurezza, arrivate all’installazione di telecamere sul cimitero dov’è sepolta la giovane e, come si già diceva, all’arresto di suo padre. Un evento, quest’ultimo, che per quanto temporaneo ha colpito molto l’opinione pubblica internazionale, a partire dai dissidenti del regime rifugiati all’estero. Come il pianista Ramin Bahrami, esule in Germania, che ad Adnkronos si è detto «profondamente rattristato per l’accaduto». Secondo Bahrami, ciò che è avvenuto è di assoluta gravità ma «purtroppo non cambierà nulla» ai vertici della Repubblica islamica.
Continua a leggereRiduci
Senza leader, l’area musulmana finirà nel caos. Sepolto vivo il suo medico. Gli Usa: «Pericolo furto delle armi per l’Ucraina».Iran, spari al corteo per Mahsa Amini. Arrestato il padre della ragazza a un anno dalla sua morte, mentre in piazza tornano le proteste contro il regime islamico. La polizia ha aperto il fuoco sui manifestanti.Lo speciale contiene due articoli.Continuano a rincorrersi le notizie sulle gravi condizioni di salute del leader ceceno Ramzan Kadyrov. Secondo i servizi segreti occidentali il «macellaio di Grozny» è in coma, prossimo alla morte. Un quadro verosimile, considerato che il fedelissimo di Vladimir Putin lotta contro una malattia ai reni da anni, aggravata dal vizio dell’alcol, contro la quale non sono servite né le cure ricevute in Russia, né quelle negli Emirati arabi. Kadyrov (46 anni) è insomma un condannato in attesa della sua fine. Per la quale ha pagato per primo il suo medico personale, Elkhan Suleimanov: secondo la Bild, infatti, il dottore è stato sepolto vivo, incolpato del forte deterioramento della salute del suo paziente e sospettato di aver cercato di avvelenarlo. Ma la morte di Kadyrov sarà un cruccio anche per il presidente russo: il vuoto di potere lasciato dal dittatore ceceno potrà infatti causare il caos non solo nelle sue milizie, che combattono a fianco di Mosca in Ucraina, bensì in tutta l’area del Caucaso, tormentata fino al 2009 da conflitti e instabilità. Per capire l’importanza di Kadyrov e del suo regime islamico, bisogna tener presente la storia della Repubblica cecena: dopo la dissoluzione dell’Urss, la sua popolazione, prevalentemente musulmana, ha cercato di divenire indipendente dalla Russia, senza successo. Kadyrov, da nemico giurato di Mosca, alla fine delle seconda guerra cecena divenne il presidente della regione per mano di Putin, di cui divenne fedele alleato. Da allora le carriere dei due leader sono legate a doppio filo: lo zar può contare sul presidente ceceno per tenere a bada la repubblica ribelle e controllare l’intero Caucaso settentrionale, mentre Kadyrov mantiene il potere, amministra la Cecenia come un feudo personale, e gode di un’enorme ricchezza. Personaggio controverso, spietato uomo della guerra, il ceceno è quindi per il Cremlino una garanzia di stabilità della zona, in cui ribolle il fondamentalismo islamico e le relative cellule terroristiche, rimaste sotto la cenere dopo anni di attentati sanguinosi in Russia (basti pensare all’attacco delle «vedove nere» al teatro Dubrovka di Mosca nell’ottobre 2002, in cui persero la vita 129 civili, e la strage alla scuola di Beslan del 2004, con 334 morti, oltre a diversi attacchi kamikaze in treni, metropolitane e aerei). Senza Kadyrov, privo di eredi politici (come Putin) anche le sue milizie (i Kadyrovtsy) resteranno senza una figura di riferimento, nel bel mezzo della guerra in Ucraina. Nella quale, più che la qualità dei combattenti ceceni, ha contribuito la quantità. A Euronews, Harold Chambers, analista del Caucaso settentrionale, aveva affermato che «i ceceni sono un sorta di esercito speciale di Vladimir Putin e Kadyrov che è un convinto sostenitore della guerra vuole ingraziarsi il favore del presidente russo». Esperti nelle operazioni di controinsurrezione in patria, hanno partecipato a combattimenti urbani a Mariupol, Sievierodonetsk e nel Donbass. Allo stesso tempo, la Russia ha utilizzato i ceceni fedeli al Cremlino per disciplinare e, secondo quanto riferito, persino giustiziare soldati dissenzienti, nonché per intimidire i civili in Ucraina. Spietati e implicati in torture, saccheggi, stupri e stragi di civili, la presenza dei miliziani ceceni sarebbe stata per molti esperti militari più che altro una grossa operazione di propaganda russa che ha mostrato, specie nei primi giorni del conflitto, l’arrivo in Ucraina «dei combattenti d’élite del Cremlino» al grido di «Allah akbar». Un grido che senza Kadyrov rischia di togliere il sonno a Putin. Intanto, un altro timore prende forma a Washington: le armi e le munizioni che i soldati Usa stanno muovendo attraverso l’Europa verso l’Ucraina rischiano di essere rubate o di andare perdute, perché le misure di sicurezza non vengono osservate in modo efficace, avverte il Pentagono che punta il dito in particolare contro un sito logistico in Polonia. Novità anche sul fronte grano: l’Ucraina ha annunciato che due cargo stanno navigando nel Mar Nero in direzione dei suoi porti, per la prima volta dopo la scadenza, a luglio, dell’accordo con la Russia che permetteva di esportare le derrate ucraine malgrado l’invasione del Paese. Il ministro ucraino delle Infrastrutture, Oleksandr Kubrakov, ha spiegato che al «porto di Chernomorsk verranno caricate quasi 20.000 tonnellate di grano per l’Africa e l’Asia».Le navi battono bandiera di Palau e i membri dell’equipaggio provengono da Turchia, Azerbaigian, Egitto e Ucraina. Lo stop delle esportazioni ucraine, dopo la scadenza dell’accordo con Putin, ha consolidato il dominio di Mosca sul mercato globale del grano, con l’inondazione del prodotto russo che ha dimezzato i prezzi del cereale. Allontanando, ancora una volta, le possibilità di un braccio di ferro senza compromessi con il Cremlino.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/kadyrov-peggiora-putin-trema-2665504303.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="iran-spari-al-corteo-per-mahsa-amini" data-post-id="2665504303" data-published-at="1694956821" data-use-pagination="False"> Iran, spari al corteo per Mahsa Amini Proteste, scioperi, arresti. È stato tutt’altro che pacifico, in Iran, l’anniversario della scomparsa di Mahsa Amini, la giovane morta il 16 settembre dello scorso anno a seguito di tre giorni di coma dopo esser stata arrestata per aver indossato il velo in modo ritenuto allentato. Se infatti già nei giorni scorsi le autorità iraniane avevano arrestato centinaia di persone in diverse regioni - accusandole di voler incitare la popolazione nell’anniversario della morte della Amini -, nella giornata di ieri la tensione è salita alle stelle. A Teheran, dove sono apparsi graffiti e striscioni contro la Repubblica islamica, alcune fonti hanno riferito di spari da parte della polizia sui manifestanti radunati attorno a Piazza Azadi e sette prigioniere politiche hanno inscenato una protesta nel carcere di Evin. Molti negozi sono rimasti chiusi a Baneh, Kamyaran, Divandarreh, Sanandaj e Saqqez, la città di cui Mahsa era originaria, e gli arresti non si sono certo fermati. Basti dire che in mattinata è stato fermato perfino Amjad Amini, il padre della giovane commemorata, il quale dopo le proteste degli scorsi giorni era stato messo sotto sorveglianza con la richiesta di non partecipare ad alcuna cerimonia in memoria della figlia; le stesse strade che, dalla casa della famiglia, conducono verso il cimitero di Aichi - dov’è sepolta la ragazza - da qualche giorno risultavano «altamente militarizzate» allo scopo di scoraggiare ogni manifestazione, con anche gli alberghi chiusi ad ogni ospite esterno. A quello che a molti era parso come un tentativo d’intimidazione da parte del regime, la famiglia di Masha aveva risposto col seguente comunicato: «Come ogni famiglia in lutto, noi, la famiglia Amini, ci riuniremo presso la tomba della nostra amata figlia Jina (Mahsa) Amini, nell’anniversario della sua morte, e stiamo celebrando cerimonie commemorative tradizionali e religiose». Di conseguenza, non appena l’uomo ha lasciato la sua abitazione, a Saqez, è stato arrestato; a leggere alcune ricostruzioni sarebbe praticamente stato prelevato sulla porta. Poche ore dopo è però stato rilasciato e ora sarebbe ai domiciliari. L’intera vicenda è stata così riferita dalla Ong Iran human rights, con sede a Oslo, secondo la quale il padre di Masha «è stato arrestato questa mattina mentre lasciava la sua casa» e lì «è tornato poche ore dopo». Sempre secondo la Ong, Amjad Amini era già stato convocato per essere interrogato da varie agenzie di sicurezza almeno quattro volte nelle ultime settimane, e anche altri due membri della stati arrestati martedì scorso durante un raid delle forze di intelligence a Saqqez e sarebbero tutt’ora detenuti. Evidentemente nel regime guidato dal presidente Ebrahim Raisi è ancora viva ben la memoria dello scorso anno, quando le proteste furono furiose e furiosa fu soprattutto la repressione, tanto che, secondo l’agenzia dei diritti umani iraniani Hrana, vi furono 20.000 arresti e persero la vita 551 persone. Di quegli eventi Mahsa Amini è divenuta poi il simbolo, e certamente a Teheran erano - e sono - molto forti i timori di una riproposizione degli stessi. Di qui le rigidissime misure di sicurezza, arrivate all’installazione di telecamere sul cimitero dov’è sepolta la giovane e, come si già diceva, all’arresto di suo padre. Un evento, quest’ultimo, che per quanto temporaneo ha colpito molto l’opinione pubblica internazionale, a partire dai dissidenti del regime rifugiati all’estero. Come il pianista Ramin Bahrami, esule in Germania, che ad Adnkronos si è detto «profondamente rattristato per l’accaduto». Secondo Bahrami, ciò che è avvenuto è di assoluta gravità ma «purtroppo non cambierà nulla» ai vertici della Repubblica islamica.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Continua a leggereRiduci
Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
Continua a leggereRiduci
Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
Continua a leggereRiduci