2023-10-19
Israele: «Strage all’ospedale, la firma è quella di Hamas». Anche il Pentagono conferma
L’Idf diffonde video e audio che dimostrerebbero che il razzo è partito da Gaza. Joe Biden a Tel Aviv: «Non siete stati voi». Per i radar su dieci missili uno ha fallito, la jihad nega.Il giorno dopo la terribile strage dell’ospedale Al Ahli di Gaza si contano le vittime: secondo il ministero della Sanità palestinese i morti sono 478, i feriti 314, di cui 28 in condizioni critiche. La giornata di ieri è stata quella dello scarico di responsabilità tra Israele e Hamas: la propaganda domina il mondo più delle bombe e dei missili, del resto, e così per l’intera giornata abbiamo assistito al susseguirsi di accuse e controaccuse, a sostegno dell’una e dell’altra tesi, che con il passare delle ore sembrano indirizzare la colpa di quanto accaduto sui terroristi islamici. L’esercito israeliano ha pubblicato alcuni video su X per incolpare Hamas e la jihad islamica: la versione di Tel Aviv è che la strage dell’ospedale sia stata causata da un missile lanciato dalla Striscia verso Israele, ma caduto per errore sulla struttura. Le immagini mostrano un razzo sparato contro Israele che è esploso alle 18.59, lo stesso momento in cui è stato colpito l’ospedale a Gaza. Nel video si intravede nel buio quello che sembra un missile che esplode in alto sui cieli di Gaza e, pochi secondi dopo, un’esplosione al suolo. Il video è stato ripreso da una sequenza trasmessa da Al Jazeera. «Controllate bene prima di accusare Israele», scrive l’esercito israeliano a commento del post. L’Idf (le forze di difesa di Tel Aviv) ha poi diffuso un altro video, ripreso da un drone, che mostra immagini di ieri mattina dell’ospedale di Gaza colpito l’altro ieri: «Si può vedere», ha spiegato il portavoce militare israeliano, Daniel Hagari, «che i danni del lancio del razzo fallito della jihad islamica sono nel parcheggio vicino e che non assomigliano a un cratere causato da un attacco aereo. Inoltre, gli edifici attorno all’ospedale non sono stati danneggiati. Questa è un’ulteriore prova che le forze israeliane non hanno colpito quest’area». Dall’inizio del conflitto, ha aggiunto Hagari, «450 razzi palestinesi difettosi sono esplosi all’interno della Striscia». L’Idf ha pubblicato anche la registrazione di una conversazione fra miliziani palestinesi che confermerebbe il lancio di un razzo difettoso caduto sull’ospedale. La tesi di Israele è stata corroborata da Joe Biden, in visita a Tel Aviv: «Sembra», ha detto l’inquilino della Casa Bianca, «che il bombardamento sia stato fatto dall’altra squadra (Biden ha detto letteralmente “the other team”, ndr)». Biden ha spiegato che la sua affermazione è basata «sui dati del Pentagono». «I nostri radar», ha detto alla Cnn il tenente colonnello Peter Lerner, portavoce delle forze armate israeliane, «hanno tracciato dieci razzi sparati per uccidere gli israeliani e uno non ha funzionato ed è caduto sull’ospedale. Nella comunicazione che abbiamo intercettato uno dei due interlocutori dice che la jihad islamica palestinese ha lanciato i razzi e uno di questi è caduto subito. Il fatto che anche gli Stati Uniti, con la loro intelligence, lo hanno confermato è incoraggiante, ma noi eravamo certi di quello che sappiamo».A mettere in enorme difficoltà Israele è stato Hananya Naftali, influencer israeliano recentemente assunto nello staff della comunicazione da Benjamin Netanyahu, che poco dopo il massacro dell’ospedale ha rivendicato l’azione: «Breaking: l’aeronautica israeliana», ha scritto Naftali su X, «ha colpito una base terroristica di Hamas all’interno di un ospedale a Gaza. Un numero multiplo di terroristi sono morti. È straziante che Hamas lanci razzi da ospedali, moschee, scuole e utilizzi i civili come scudi umani». Pochi minuti dopo, Naftali ha cancellato il tweet, ma ormai era troppo tardi: lo screen del post continua a girare vorticosamente sui social a sostegno della propaganda di Hamas. Sarebbe il caso di essere più cauti, quando si ricoprono ruoli così delicati. Da registrare poi quanto dichiarato dal vescovo anglicano di Gerusalemme, Hosam Naoum, che, riporta La Presse, ha detto che l’ospedale Al Ahli di Gaza, gestito dalla Chiesa episcopale, aveva ricevuto almeno tre ordini di evacuazione da parte dei militari israeliani prima della strage dell’altro ieri, tutti disattesi. Il vescovo ha responsabilmente rifiutato di esprimersi sulle responsabilità: «Come persone di chiesa», ha detto Naoum, «non siamo esperti militari, vogliamo solo far vedere alla gente cosa sta succedendo sul campo e speriamo che arrivi alla conclusione che ne abbiamo abbastanza di questa guerra».La jihad islamica palestinese, ovviamente, ha respinto la dichiarazione del portavoce militare israeliano, sostenendo, a quanto riporta Haaretz, che «l’angolo dell’impatto e l’intensità del fuoco dimostrano che si è trattato di un attacco aereo. Gli ospedali nella Striscia di Gaza hanno ricevuto avvisi di evacuazione prima di essere colpiti dai bombardamenti, ma nessuno nella comunità internazionale è intervenuto. Israele sta diffondendo versioni contraddittorie degli eventi. Il portavoce del ministero degli Esteri israeliano, Lior Ben-Dor, ha detto che l’ospedale ospitava armi e che è avvenuta nel luogo dove venivano lanciati», ha aggiunto la jihad, «l’esercito, invece, ha detto che l’esplosione è stata il risultato di un lancio fallito da parte della jihad islamica». Si fa sentire anche la controparte: «Hamas», afferma a Newsweek Fawzi Barhoum, portavoce dell’organizzazione terrorista, «ha un comitato che raccoglie tutte le prove della responsabilità dell’occupazione israeliana nei massacri a Gaza, compreso il massacro all’ospedale battista. Ci sono molte prove, testimoni oculari e video di Hamas sulla responsabilità dell’occupazione nel massacro dell’ospedale e sui rottami dei razzi», ha aggiunto Barhoum. «Hamas pubblicherà tutte le prove che confermano che questo massacro è stato commesso intenzionalmente e le presenterà alle giurisdizioni internazionali».
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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Intervistato da Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin non usa giri di parole: «Io non sono contro l’elettrico, sono convinto che il motore elettrico abbia un futuro enorme. Ma una cosa è credere in una tecnologia, un’altra è trasformarla in un’imposizione politica. Questo ha fatto l’Unione Europea con la scadenza del 2035». Secondo Pichetto Fratin, il vincolo fissato a Bruxelles non nasce da ragioni scientifiche: «È come se io oggi decidessi quale sarà la tecnologia del 2040. È un metodo sovietico, come le tavole di Leontief: la politica stabilisce dall’alto cosa succederà, ignorando il mercato e i progressi scientifici. Nessuno mi toglie dalla testa che Timmermans abbia imposto alle case automobilistiche europee – che all’epoca erano d’accordo – il vincolo del 2035. Ma oggi quelle stesse industrie si accorgono che non è più sostenibile».
Il motore elettrico: futuro sì, imposizioni no. Il ministro tiene a ribadire di non avere pregiudizi sulla tecnologia: «Il motore elettrico è il più semplice da costruire, ha sette-otto volte meno pezzi, si rompe raramente. Pensi al motore del frigorifero: quello di mia madre ha funzionato cinquant’anni senza mai guastarsi. È una tecnologia solida. Ma da questo a imporre a tutti gli europei di pagare la riconversione industriale delle case automobilistiche, ce ne corre». Colonnine e paradosso dell’uovo e della gallina. Belpietro chiede conto del tema infrastrutturale: perché le gare per le colonnine sono andate deserte? Pichetto Fratin replica: «Perché non c’è il mercato. Non ci sono abbastanza auto elettriche in circolazione, quindi nessuno vuole investire. È il classico paradosso: prima l’uovo o la gallina?». Il ministro racconta di aver tentato in tutti i modi: «Ho fatto bandi, ho ripetuto le gare, ho perfino chiesto a Rfi di partecipare. Alla fine ho dovuto riconvertire i 597 milioni di fondi europei destinati alle colonnine, dopo una lunga contrattazione con Bruxelles. Ma anche qui si vede l’assurdità: l’Unione Europea ci impone obiettivi, senza considerare che il mercato non risponde».
Prezzi eccessivi e mercato bloccato. Un altro nodo è il costo delle auto elettriche: «In Germania servono due o tre annualità di stipendio di un operaio per comprarne una. In Italia ce ne vogliono cinque. Non è un caso che fino a poco tempo fa fossero auto da direttori di giornale o grandi manager. Questo non è un mercato libero, è un’imposizione politica». L’errore: imporre il motore, non le emissioni. Per Pichetto Fratin, l’errore dell’Ue è stato vincolare la tecnologia, non il risultato: «Se l’obiettivo era emissione zero nel 2035, bastava dirlo. Ci sono già veicoli diesel a emissioni zero, ci sono biocarburanti, c’è il biometano. Ma Bruxelles ha deciso che l’unica via è l’elettrico. È qui l’errore: hanno trasformato una direttiva ambientale in un regalo alle case automobilistiche, scaricando il costo sugli europei».
Bruxelles e la vicepresidente Ribera. Belpietro ricorda le dichiarazioni della vicepresidente Teresa Ribera. Il ministro risponde: «La Ribera è una che ascolta, devo riconoscerlo. Ma resta molto ideologica. E la Commissione Europea è un rassemblement, non un vero governo: dentro c’è di tutto. In Spagna, per esempio, la Ribera è stata protagonista delle scelte che hanno portato al blackout, puntando solo sulle rinnovabili senza un mix energetico». La critica alla Germania. Il ministro non risparmia critiche alla Germania: «Prima chiudono le centrali nucleari, poi riaprono quelle a carbone, la fonte più inquinante. È pura ipocrisia. Noi in Italia abbiamo smesso col carbone, ma a Berlino per compiacere i Verdi hanno abbandonato il nucleare e sono tornati indietro di decenni».
Obiettivi 2040: «Irrealistici per l’Italia». Si arriva quindi alla trattativa sul nuovo target europeo: riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040. Pichetto Fratin è netto: «È un obiettivo irraggiungibile per l’Italia. I Paesi del Nord hanno territori sterminati e pochi abitanti. Noi abbiamo centomila borghi, due catene montuose, il mare, la Pianura Padana che soffre già l’inquinamento. Imporre le stesse regole a tutti è sbagliato. L’Italia rischia di non farcela e di pagare un prezzo altissimo». Il ruolo del gas e le prospettive future. Il ministro difende il gas come energia di transizione: «È il combustibile fossile meno dannoso, e ci accompagnerà per decenni. Prima di poterlo sostituire servirà il nucleare di quarta generazione, o magari la fusione. Nel frattempo il gas resta la garanzia di stabilità energetica». Conclusione: pragmatismo contro ideologia. Nelle battute finali dell’intervista con Belpietro, Pichetto Fratin riassume la sua posizione: «Ridurre le emissioni è un obiettivo giusto. Ma un conto è farlo con scienza e tecnologia, un altro è imporre scadenze irrealistiche che distruggono l’economia reale. Qui non si tratta di ambiente: si tratta di ideologia. E i costi ricadono sempre sugli europei.»
Il ministro aggiunge: «Oggi produciamo in Italia circa 260 TWh. Il resto lo importiamo, soprattutto dalla Francia, poi da Montenegro e altri paesi. Se vogliamo davvero dare una risposta a questo fabbisogno crescente, non c’è alternativa: bisogna guardare al nucleare. Non quello di ieri, ma un nuovo nucleare. Io sono convinto che la strada siano i piccoli reattori modulari, anche se aspettiamo i fatti concreti. È lì che dobbiamo guardare». Pichetto Fratin chiarisce: «Il nucleare non è un’alternativa alle altre fonti: non sostituisce l’eolico, non sostituisce il fotovoltaico, né il geotermico. Ma è un tassello indispensabile in un mix equilibrato. Senza, non potremo mai reggere i consumi futuri». Gas liquido e rapporti con gli Stati Uniti. Il discorso scivola poi sul gas: «Abbiamo firmato un accordo standard con gli Stati Uniti per l’importazione di Gnl, ma oggi non abbiamo ancora i rigassificatori sufficienti per rispettarlo. Oggi la nostra capacità di importazione è di circa 28 miliardi di metri cubi l’anno, mentre l’impegno arriverebbe a 60. Negli Usa i liquefattori sono in costruzione: servirà almeno un anno o due. E, comunque, non è lo Stato a comprare: sono gli operatori, come Eni, che decidono in base al prezzo. Non è un obbligo politico, è mercato». Bollette e prezzi dell’energia. Sul tema bollette, il ministro precisa: «L’obiettivo è farle scendere, ma non esistono bacchette magiche. Non è che con un mio decreto domani la bolletta cala: questo accadeva solo in altri regimi. Noi stiamo lavorando per correggere il meccanismo che determina il prezzo dell’energia, perché ci sono anomalie evidenti. A breve uscirà un decreto con alcuni interventi puntuali. Ma la verità è che per avere bollette davvero più basse bisogna avere energia a un costo molto più basso. E i francesi, grazie al nucleare, ce l’hanno a prezzi molto inferiori ai nostri».
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