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2024-06-17
Israele bandito dall’expo della Difesa
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(Ansa)
Armi e diplomazia. Le forze di difesa israeliane (Idf) in una nota diffusa ieri mattina affermano che «effettueranno una pausa tattica dell’attività militare quotidiana nelle aree del sud della Striscia di Gaza per consentire la consegna degli aiuti umanitari ai palestinesi». L’Idf ha precisato che la pausa avrà luogo tutti i giorni tra le 8 e le 19 lungo una strada che porta dal valico di Kerem Shalom e poi a nord verso Khan Younis. «Questo è un ulteriore passo avanti negli sforzi di aiuto umanitario condotti dall’Idf e dal Cogat dall’inizio della guerra», affermano i militari. Una bella notizia se non fosse che fonti vicine a Yoav Gallant hanno rivelato al quotidiano Haaretz che il ministro della Difesa israeliano «non sapeva nulla della decisione dell’esercito di sospendere i combattimenti nell’area adiacente al corridoio umanitario di Gaza». Secondo queste fonti, «il governo non ha autorizzato la decisione», ma c’è di più perché secondo quanto riporta l’emittente Channel 13 il premier israeliano Benjamin Netanyahu durante la riunione del consiglio dei ministri di ieri ha affermato: «Abbiamo un Paese con un esercito, non un esercito con un Paese. Per raggiungere l’eliminazione di Hamas, ho preso decisioni che non sempre sono accettate dai vertici militari».
L’Idf come riporta Haaretz respinge le critiche sulla sospensione dei combattimenti nei pressi del corridoio umanitario di Gaza, e anche l’affermazione secondo cui la classe politica non sarebbe stata informata della decisione. Ma la vera notizia stavolta non arriva dal campo di battaglia. Oggi si apre a Parigi «Eurosatory 2024», evento globale per la difesa e la sicurezza. Quest’anno non vedrà la partecipazione delle 74 aziende di Difesa israeliane escluse dopo il clamoroso intervento di un tribunale distrettuale francese (sollecitato anche da interventi di Ong pro Palestina) che ha ordinato l’esclusione dei rappresentanti israeliani. Eurosatory, una delle maggiori fiere di difesa e sicurezza a livello mondiale, si svolge biennalmente vicino al principale aeroporto internazionale di Parigi. L’edizione del 2024, che inizia oggi e termina il 21 giugno, aveva pianificato di ospitare 74 aziende israeliane, di cui circa 10 avrebbero esposto armi. Questo evento solitamente attira oltre 1.700 aziende e più di 60.000 partecipanti provenienti da 150 Paesi con relativo giro d’affari multimiliardario. Charles Beaudoin, presidente di Coges Event, organizzatore di Eurosatory, ha espresso preoccupazione per la sentenza della Corte in una lettera datata sabato scorso. Ha osservato che «la decisione della corte va oltre la direttiva iniziale del governo, vietando la presenza di rappresentanti di aziende israeliane». Beaudoin ha anche sottolineato che Coges «sta perseguendo le vie legali più rapide per impugnare la decisione», anche se per ora la sentenza verrà applicata.
A questo proposito il governo francese dovrebbe rilasciare una risposta formale alla sentenza della Corte, tuttavia, appare improbabile che scoppi un conflitto tra poteri dello Stato. Il divieto riguarda i dipendenti di aziende israeliane, indipendentemente dalla loro nazionalità, mentre permette solo agli israeliani impiegati da aziende non israeliane di partecipare all’evento. Tutto nasce da una direttiva del ministero della Difesa francese, emessa nel maggio scorso che vieta alle aziende israeliane della difesa di allestire stand alla fiera di Parigi. Il ministero ha citato le condizioni insostenibili create dalle operazioni in corso dall’Idf a Rafah come ragione principale di questo divieto. Evidente come quella parte di magistratura di sinistra e proPal francese ha gradito e molto l’assist di Emmanuel Macron per impedire agli israeliani di prendere parte a Eurosatory 2024. Evidente come il divieto metta a dura prova le relazioni economiche tra Francia e Israele. Il commercio nell’ambito della Difesa è una componente critica delle relazioni commerciali bilaterali e l’esclusione delle aziende israeliane da Eurosatory potrebbe portare a misure di ritorsione o a una riduzione della cooperazione in altri settori con enormi danni economici per entrambi i Paesi. E portare persino a una rottura diplomatica.
Nel 2023 lo scambio commerciale nel settore della difesa tra i due Paesi ha superato i 2 miliardi di euro
È iniziata questa mattina a Parigi Eurosatory 2024 evento commerciale globale per la difesa e la sicurezza che non vedrà la partecipazione delle 74 aziende di difesa israeliane escluse dopo il clamoroso intervento di un tribunale distrettuale francese che ha ordinato l'esclusione dei rappresentanti israeliani.
Eurosatory, una delle maggiori fiere di difesa e sicurezza a livello mondiale, si svolge biennalmente vicino al principale aeroporto internazionale di Parigi. L'edizione del 2024, che inizia oggi e termina il 21 giugno, aveva pianificato di ospitare 74 aziende israeliane, di cui circa 10 avrebbero esposto armi. Questo evento solitamente attira oltre 1.700 aziende e più di 60.000 partecipanti provenienti da 150 paesi con relativo giro d’affari multimiliardario. Charles Beaudoin, presidente di Coges Event, organizzatore di Eurosatory, ha espresso preoccupazione per la sentenza della corte in una lettera datata sabato scorso. Ha osservato che « la decisione della corte va oltre la direttiva iniziale del governo, vietando non solo la mostra, ma anche la presenza di rappresentanti di aziende israeliane». Beaudoin ha anche sottolineato che Coges «sta perseguendo le vie legali più rapide per impugnare la decisione», anche se per ora la sentenza verrà applicata. A questo proposito il governo francese dovrebbe rilasciare una risposta formale alla sentenza della corte tuttavia, appare improbabile che scoppi un conflitto tra poteri dello Stato. Il divieto riguarda i dipendenti di aziende israeliane, indipendentemente dalla loro nazionalità, mentre permette agli israeliani impiegati da aziende non israeliane di partecipare all'evento. Non esiste un divieto assoluto per gli israeliani che desiderano visitare la fiera.
Tutto nasce da una direttiva del ministero della Difesa francese, emessa nel maggio scorso che vieta alle aziende israeliane della difesa di allestire stand alla fiera di Parigi. Il ministero ha citato le condizioni insostenibili create dalle operazioni in corso delle Forze di Difesa Israeliane (Idf) a Rafah come ragione principale di questo divieto. Evidente come quella parte di magistratura di sinistra e propal francese ha gradito e molto l’assist di Emmanuel Macron per impedire agli israeliani di prendere parte a Eurosatory 2024. Grazie al tribunale francese nei padiglioni espositivi, i dittatori africani potranno acquistare armamenti francesi per miliardi di euro cosi’ come rappresentanti e gli agenti iraniani per conto dell'Iran circoleranno liberamente ma Israele è stato bandito.
Il commercio di difesa è una componente critica delle relazioni commerciali bilaterali e l'esclusione delle aziende israeliane da Eurosatory potrebbe portare a misure di ritorsione o a una riduzione della cooperazione in altri settori con enormi danni economici per entrambi i Paesi. La decisione della Francia di escludere le aziende israeliane dall’evento secondo Yehuda Lahav, vicepresidente esecutivo del marketing delle Israel Aerospace Industries «è stata una sorpresa perché è associata a una narrazione sbagliata, che racconta la storia opposta alla realtà dato che il 7 ottobre la vittima siamo stati noi. Siamo stati attaccati e massacrati da organizzazioni terroristiche e abbiamo il diritto di difenderci». A Breaking Defense Yehuda Lahav ha poi dichiarato: «È stata una sorpresa, è stato spiacevole, non mi piace, ma come azienda cosi’ (come altre industrie israeliane) abbiamo 30 mostre in tutto il mondo ogni anno, quindi una mostra alla quale non partecipiamo non influenza certo il nostro business». In ogni caso l'esclusione di imprese israeliane da una rinomata fiera commerciale internazionale lancia un messaggio sfavorevole agli investitori e alle compagnie di tutto il mondo. Questo suscita inquietudini riguardo alla stabilità e alla prevedibilità dell'ambiente aziendale in Francia, disincentivando potenzialmente gli investimenti stranieri. Le imprese potrebbero considerare questa decisione come un precedente per future ingerenze politiche nelle attività economiche, portando a una diminuzione della fiducia degli investitori. Diverse aziende francesi operano in Israele, coprendo settori come la tecnologia, la difesa e le infrastrutture. Le tensioni derivanti dal divieto potrebbero causare ripercussioni economiche negative per queste aziende. Eventuali ritorsioni da parte di Israele o una riduzione delle opportunità di collaborazione potrebbero influenzare la redditività e la presenza delle imprese francesi nel mercato israeliano. Ora Israele cosa farà? Gerusalemme potrebbe adottare misure di ritorsione in risposta al divieto, aggravando ulteriormente le tensioni economiche. Queste contromisure potrebbero comprendere restrizioni per le aziende francesi operanti in Israele ad esempio Airbus,Thales e Alstom (solo per citarne alcune), aumenti delle tariffe sui prodotti francesi o una diminuzione della cooperazione nella difesa e in altri settori. Tali azioni potrebbero avere un impatto negativo sulle imprese francesi e sulle relazioni commerciali bilaterali in generale.
Altro aspetto non certo trascurabile è che il divieto imposto alle aziende israeliane impedisce lo scambio tecnologico e la collaborazione tra imprese israeliane e francesi. Le fiere della difesa sono fondamentali per la diffusione di nuove tecnologie e innovazioni. L'assenza di partecipazione israeliana implica che le aziende francesi e l'industria della difesa nel suo complesso perderanno potenziali progressi tecnologici e opportunità di cooperazione. L'impatto a lungo termine del divieto sul mercato potrebbe essere molto significativo. Vista l’ostilità francese le aziende di difesa israeliane potrebbero cercare nuovi mercati e partner alternativi, riducendo la loro dipendenza da fiere e da altre collaborazioni europee. Questo cambiamento potrebbe provocare un riallineamento delle dinamiche commerciali nel settore della difesa globale, con potenziali conseguenze economiche a lungo termine sia per le aziende israeliane che per quelle francesi. Quanto c’è in gioco? La Francia è il terzo partner commerciale più importante di Israele, dopo gli Stati Uniti e la Cina. I due paesi hanno relazioni economiche bilaterali forti e in crescita, caratterizzate da una cooperazione in settori come la ricerca e sviluppo, l'innovazione e l'imprenditorialità. Nel 2023, lo scambio commerciale tra Israele e Francia ha raggiunto un valore di 18,1 miliardi di euro, segnando un aumento del 6,7% rispetto all'anno precedente. Le esportazioni israeliane verso la Francia ammontano a 8,9 miliardi di euro, con un incremento del 10,5%. I principali prodotti esportati includono: Prodotti ad alta tecnologia (elettronica, difesa, medicale),prodotti agricoli (frutta, verdura, fiori), prodotti chimici e petrolchimici mentre le le importazioni israeliane dalla Francia ammontano a 9,2 miliardi di euro, con un aumento del 3,1%. I principali prodotti importati includono: Veicoli e ricambi auto, aerei e componenti aeronautici, prodotti farmaceutici e macchinari e apparecchiature industriali.
E quanto vale per i due Paesi l’interscambio nel settore Difesa? Nel 2023, lo scambio commerciale nel settore della difesa tra Israele e Francia ha raggiunto un valore di 2,3 miliardi di euro, con un incremento del 15% rispetto all'anno precedente. Le esportazioni israeliane di prodotti per la difesa verso la Francia ammontano a 2 miliardi di euro, con un aumento del 20%. I principali prodotti esportati includono: Sistemi missilistici, sistemi elettronici di guerra, veicoli blindati e sistemi aerei senza pilota (UAV). Mentre le importazioni israeliane di prodotti per la difesa dalla Francia ammontano a 0,3 miliardi di euro, con un incremento del 5%. I principali prodotti importati includono: Aerei da combattimento, elicotteri, navi da guerra armi e munizioni. La Francia è uno dei principali partner commerciali di Israele nel settore della difesa. I due paesi fino al divieto del Tribunale distrettuale collaboravano attivamente allo sviluppo di tecnologie militari avanzate senza dimenticare che partecipano congiuntamente a esercitazioni militari e operazioni di mantenimento della pace. Emmanuel Macron farebbe bene a intervenire per evitare che tutto questo si interrompa a causa dell’entrata a gamba tesa della magistratura francese in una questione che è solo ed unicamente politica.
Le esportazioni israeliane della difesa nel 2023 hanno superato i 13 miliardi di dollari, un livello record per il terzo anno consecutivo; in crescita le vendite in Europa, che rappresentano il 35% del totale. Le difese aeree, i missili e i razzi israeliani sono i prodotti più ricercati.
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La corte di Parigi (su input del governo) ha vietato la presenza a Eurosatory di aziende e consulenti da Tel Aviv. Uno stop clamoroso che può rompere i rapporti tra i due Paesi.Nel 2023 lo scambio commerciale nel settore della difesa tra Israele e Francia ha raggiunto un valore di 2,3 miliardi di euro, con un incremento del 15% rispetto all'anno precedente.Lo speciale contiene due articoli.Armi e diplomazia. Le forze di difesa israeliane (Idf) in una nota diffusa ieri mattina affermano che «effettueranno una pausa tattica dell’attività militare quotidiana nelle aree del sud della Striscia di Gaza per consentire la consegna degli aiuti umanitari ai palestinesi». L’Idf ha precisato che la pausa avrà luogo tutti i giorni tra le 8 e le 19 lungo una strada che porta dal valico di Kerem Shalom e poi a nord verso Khan Younis. «Questo è un ulteriore passo avanti negli sforzi di aiuto umanitario condotti dall’Idf e dal Cogat dall’inizio della guerra», affermano i militari. Una bella notizia se non fosse che fonti vicine a Yoav Gallant hanno rivelato al quotidiano Haaretz che il ministro della Difesa israeliano «non sapeva nulla della decisione dell’esercito di sospendere i combattimenti nell’area adiacente al corridoio umanitario di Gaza». Secondo queste fonti, «il governo non ha autorizzato la decisione», ma c’è di più perché secondo quanto riporta l’emittente Channel 13 il premier israeliano Benjamin Netanyahu durante la riunione del consiglio dei ministri di ieri ha affermato: «Abbiamo un Paese con un esercito, non un esercito con un Paese. Per raggiungere l’eliminazione di Hamas, ho preso decisioni che non sempre sono accettate dai vertici militari». L’Idf come riporta Haaretz respinge le critiche sulla sospensione dei combattimenti nei pressi del corridoio umanitario di Gaza, e anche l’affermazione secondo cui la classe politica non sarebbe stata informata della decisione. Ma la vera notizia stavolta non arriva dal campo di battaglia. Oggi si apre a Parigi «Eurosatory 2024», evento globale per la difesa e la sicurezza. Quest’anno non vedrà la partecipazione delle 74 aziende di Difesa israeliane escluse dopo il clamoroso intervento di un tribunale distrettuale francese (sollecitato anche da interventi di Ong pro Palestina) che ha ordinato l’esclusione dei rappresentanti israeliani. Eurosatory, una delle maggiori fiere di difesa e sicurezza a livello mondiale, si svolge biennalmente vicino al principale aeroporto internazionale di Parigi. L’edizione del 2024, che inizia oggi e termina il 21 giugno, aveva pianificato di ospitare 74 aziende israeliane, di cui circa 10 avrebbero esposto armi. Questo evento solitamente attira oltre 1.700 aziende e più di 60.000 partecipanti provenienti da 150 Paesi con relativo giro d’affari multimiliardario. Charles Beaudoin, presidente di Coges Event, organizzatore di Eurosatory, ha espresso preoccupazione per la sentenza della Corte in una lettera datata sabato scorso. Ha osservato che «la decisione della corte va oltre la direttiva iniziale del governo, vietando la presenza di rappresentanti di aziende israeliane». Beaudoin ha anche sottolineato che Coges «sta perseguendo le vie legali più rapide per impugnare la decisione», anche se per ora la sentenza verrà applicata. A questo proposito il governo francese dovrebbe rilasciare una risposta formale alla sentenza della Corte, tuttavia, appare improbabile che scoppi un conflitto tra poteri dello Stato. Il divieto riguarda i dipendenti di aziende israeliane, indipendentemente dalla loro nazionalità, mentre permette solo agli israeliani impiegati da aziende non israeliane di partecipare all’evento. Tutto nasce da una direttiva del ministero della Difesa francese, emessa nel maggio scorso che vieta alle aziende israeliane della difesa di allestire stand alla fiera di Parigi. Il ministero ha citato le condizioni insostenibili create dalle operazioni in corso dall’Idf a Rafah come ragione principale di questo divieto. Evidente come quella parte di magistratura di sinistra e proPal francese ha gradito e molto l’assist di Emmanuel Macron per impedire agli israeliani di prendere parte a Eurosatory 2024. Evidente come il divieto metta a dura prova le relazioni economiche tra Francia e Israele. Il commercio nell’ambito della Difesa è una componente critica delle relazioni commerciali bilaterali e l’esclusione delle aziende israeliane da Eurosatory potrebbe portare a misure di ritorsione o a una riduzione della cooperazione in altri settori con enormi danni economici per entrambi i Paesi. 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L'edizione del 2024, che inizia oggi e termina il 21 giugno, aveva pianificato di ospitare 74 aziende israeliane, di cui circa 10 avrebbero esposto armi. Questo evento solitamente attira oltre 1.700 aziende e più di 60.000 partecipanti provenienti da 150 paesi con relativo giro d’affari multimiliardario. Charles Beaudoin, presidente di Coges Event, organizzatore di Eurosatory, ha espresso preoccupazione per la sentenza della corte in una lettera datata sabato scorso. Ha osservato che « la decisione della corte va oltre la direttiva iniziale del governo, vietando non solo la mostra, ma anche la presenza di rappresentanti di aziende israeliane». Beaudoin ha anche sottolineato che Coges «sta perseguendo le vie legali più rapide per impugnare la decisione», anche se per ora la sentenza verrà applicata. A questo proposito il governo francese dovrebbe rilasciare una risposta formale alla sentenza della corte tuttavia, appare improbabile che scoppi un conflitto tra poteri dello Stato. Il divieto riguarda i dipendenti di aziende israeliane, indipendentemente dalla loro nazionalità, mentre permette agli israeliani impiegati da aziende non israeliane di partecipare all'evento. Non esiste un divieto assoluto per gli israeliani che desiderano visitare la fiera.Tutto nasce da una direttiva del ministero della Difesa francese, emessa nel maggio scorso che vieta alle aziende israeliane della difesa di allestire stand alla fiera di Parigi. Il ministero ha citato le condizioni insostenibili create dalle operazioni in corso delle Forze di Difesa Israeliane (Idf) a Rafah come ragione principale di questo divieto. Evidente come quella parte di magistratura di sinistra e propal francese ha gradito e molto l’assist di Emmanuel Macron per impedire agli israeliani di prendere parte a Eurosatory 2024. Grazie al tribunale francese nei padiglioni espositivi, i dittatori africani potranno acquistare armamenti francesi per miliardi di euro cosi’ come rappresentanti e gli agenti iraniani per conto dell'Iran circoleranno liberamente ma Israele è stato bandito.Il commercio di difesa è una componente critica delle relazioni commerciali bilaterali e l'esclusione delle aziende israeliane da Eurosatory potrebbe portare a misure di ritorsione o a una riduzione della cooperazione in altri settori con enormi danni economici per entrambi i Paesi. La decisione della Francia di escludere le aziende israeliane dall’evento secondo Yehuda Lahav, vicepresidente esecutivo del marketing delle Israel Aerospace Industries «è stata una sorpresa perché è associata a una narrazione sbagliata, che racconta la storia opposta alla realtà dato che il 7 ottobre la vittima siamo stati noi. Siamo stati attaccati e massacrati da organizzazioni terroristiche e abbiamo il diritto di difenderci». A Breaking Defense Yehuda Lahav ha poi dichiarato: «È stata una sorpresa, è stato spiacevole, non mi piace, ma come azienda cosi’ (come altre industrie israeliane) abbiamo 30 mostre in tutto il mondo ogni anno, quindi una mostra alla quale non partecipiamo non influenza certo il nostro business». In ogni caso l'esclusione di imprese israeliane da una rinomata fiera commerciale internazionale lancia un messaggio sfavorevole agli investitori e alle compagnie di tutto il mondo. Questo suscita inquietudini riguardo alla stabilità e alla prevedibilità dell'ambiente aziendale in Francia, disincentivando potenzialmente gli investimenti stranieri. Le imprese potrebbero considerare questa decisione come un precedente per future ingerenze politiche nelle attività economiche, portando a una diminuzione della fiducia degli investitori. Diverse aziende francesi operano in Israele, coprendo settori come la tecnologia, la difesa e le infrastrutture. Le tensioni derivanti dal divieto potrebbero causare ripercussioni economiche negative per queste aziende. Eventuali ritorsioni da parte di Israele o una riduzione delle opportunità di collaborazione potrebbero influenzare la redditività e la presenza delle imprese francesi nel mercato israeliano. Ora Israele cosa farà? Gerusalemme potrebbe adottare misure di ritorsione in risposta al divieto, aggravando ulteriormente le tensioni economiche. Queste contromisure potrebbero comprendere restrizioni per le aziende francesi operanti in Israele ad esempio Airbus,Thales e Alstom (solo per citarne alcune), aumenti delle tariffe sui prodotti francesi o una diminuzione della cooperazione nella difesa e in altri settori. Tali azioni potrebbero avere un impatto negativo sulle imprese francesi e sulle relazioni commerciali bilaterali in generale. Altro aspetto non certo trascurabile è che il divieto imposto alle aziende israeliane impedisce lo scambio tecnologico e la collaborazione tra imprese israeliane e francesi. Le fiere della difesa sono fondamentali per la diffusione di nuove tecnologie e innovazioni. L'assenza di partecipazione israeliana implica che le aziende francesi e l'industria della difesa nel suo complesso perderanno potenziali progressi tecnologici e opportunità di cooperazione. L'impatto a lungo termine del divieto sul mercato potrebbe essere molto significativo. Vista l’ostilità francese le aziende di difesa israeliane potrebbero cercare nuovi mercati e partner alternativi, riducendo la loro dipendenza da fiere e da altre collaborazioni europee. Questo cambiamento potrebbe provocare un riallineamento delle dinamiche commerciali nel settore della difesa globale, con potenziali conseguenze economiche a lungo termine sia per le aziende israeliane che per quelle francesi. Quanto c’è in gioco? La Francia è il terzo partner commerciale più importante di Israele, dopo gli Stati Uniti e la Cina. I due paesi hanno relazioni economiche bilaterali forti e in crescita, caratterizzate da una cooperazione in settori come la ricerca e sviluppo, l'innovazione e l'imprenditorialità. Nel 2023, lo scambio commerciale tra Israele e Francia ha raggiunto un valore di 18,1 miliardi di euro, segnando un aumento del 6,7% rispetto all'anno precedente. Le esportazioni israeliane verso la Francia ammontano a 8,9 miliardi di euro, con un incremento del 10,5%. I principali prodotti esportati includono: Prodotti ad alta tecnologia (elettronica, difesa, medicale),prodotti agricoli (frutta, verdura, fiori), prodotti chimici e petrolchimici mentre le le importazioni israeliane dalla Francia ammontano a 9,2 miliardi di euro, con un aumento del 3,1%. I principali prodotti importati includono: Veicoli e ricambi auto, aerei e componenti aeronautici, prodotti farmaceutici e macchinari e apparecchiature industriali.E quanto vale per i due Paesi l’interscambio nel settore Difesa? Nel 2023, lo scambio commerciale nel settore della difesa tra Israele e Francia ha raggiunto un valore di 2,3 miliardi di euro, con un incremento del 15% rispetto all'anno precedente. Le esportazioni israeliane di prodotti per la difesa verso la Francia ammontano a 2 miliardi di euro, con un aumento del 20%. I principali prodotti esportati includono: Sistemi missilistici, sistemi elettronici di guerra, veicoli blindati e sistemi aerei senza pilota (UAV). Mentre le importazioni israeliane di prodotti per la difesa dalla Francia ammontano a 0,3 miliardi di euro, con un incremento del 5%. I principali prodotti importati includono: Aerei da combattimento, elicotteri, navi da guerra armi e munizioni. La Francia è uno dei principali partner commerciali di Israele nel settore della difesa. I due paesi fino al divieto del Tribunale distrettuale collaboravano attivamente allo sviluppo di tecnologie militari avanzate senza dimenticare che partecipano congiuntamente a esercitazioni militari e operazioni di mantenimento della pace. Emmanuel Macron farebbe bene a intervenire per evitare che tutto questo si interrompa a causa dell’entrata a gamba tesa della magistratura francese in una questione che è solo ed unicamente politica.Le esportazioni israeliane della difesa nel 2023 hanno superato i 13 miliardi di dollari, un livello record per il terzo anno consecutivo; in crescita le vendite in Europa, che rappresentano il 35% del totale. Le difese aeree, i missili e i razzi israeliani sono i prodotti più ricercati.
Giorgia Meloni (Ansa)
Ne è scaturita una dichiarazione finale dei leader europei che riprende tutte le priorità che l’Italia ha sostenuto in questi mesi difficili, e che ho ribadito anche martedì scorso accogliendo a Roma il presidente Zelensky. Il cammino verso la pace, dal nostro punto di vista», aggiunge la Meloni, «non può prescindere da quattro fattori fondamentali: lo stretto legame tra Europa e Stati Uniti, che non sono competitor in questa vicenda, atteso che condividono lo stesso obiettivo, ma hanno sicuramente angoli di visuale non sovrapponibili, dati soprattutto dalla loro differente posizione geografica. Il rafforzamento della posizione negoziale ucraina, che si ottiene soprattutto mantenendo chiaro che non intendiamo abbandonare l’Ucraina al suo destino nella fase più delicata degli ultimi anni». Quanto agli altri due fattori, la Meloni non si esime dall’avvertire dei rischi che correrebbe l’Europa se Vladimir Putin fosse lasciato libero di ottenere tutto quello che vuole: «La tutela degli interessi dell’Europa», incalza la Meloni, «che per il sostegno garantito dall’inizio del conflitto, e per i rischi che correrebbe se la Russia ne uscisse rafforzata, non possono essere ignorati e il mantenimento della pressione sulla Russia, ovvero la nostra capacità di costruire deterrenza, di rendere cioè la guerra non vantaggiosa per Mosca. Come sta, nei fatti, accadendo. Oltre la cortina fumogena della propaganda russa», argomenta il premier, «la realtà sul campo è che Mosca si è impantanata in una durissima guerra di posizione, tanto che, dalla fine del 2022 ad oggi, è riuscita a conquistare appena l’1,45% del territorio ucraino, peraltro a costo di enormi sacrifici in termini di uomini e mezzi. È questa difficoltà l’unica cosa che può costringere Mosca a un accordo, ed è una difficoltà che, lo voglio ricordare, è stata garantita dal coraggio degli ucraini e dal sostegno occidentale alla nazione aggredita». La Meloni entra nel merito di quanto sta accadendo in queste ore: «Il processo negoziale», spiega ancora, «è in una fase in cui si sta consolidando un pacchetto che si sviluppa su tre binari paralleli: un piano di pace, un impegno internazionale per garantire all’Ucraina solide e credibili garanzie di sicurezza, e intese sulla futura ricostruzione della nazione aggredita. È chiaramente una trattativa estremamente complessa, che per arrivare a compimento non può, però, prescindere dalla volontà della Russia di contribuire al percorso negoziale in maniera equa, credibile e costruttiva. Purtroppo, ad oggi, tutto sembra raccontare che questa volontà non sia ancora maturata. Lo dimostrano i continui bombardamenti su città e infrastrutture ucraini, nonché sulla popolazione inerme, e lo confermano le pretese irragionevoli che Mosca sta veicolando ai suoi interlocutori. La principale delle quali riguarda la porzione di Donbass non conquistata dai russi. A differenza di quanto narrato dalla propaganda», insiste ancora la Meloni, «il principale ostacolo a un accordo di pace è l’incapacità della Russia di conquistare le quattro regioni ucraine che ha unilateralmente dichiarato come annesse già alla fine del 2022, addirittura inserendole nella costituzione russa come parte integrante del proprio territorio. Da qui la richiesta russa che l’Ucraina si ritiri quantomeno dall’intero Donbass. È chiaramente questo, oggi, lo scoglio più difficile da superare nella trattativa, e penso che tutti dovremmo riconoscere la buona fede del presidente ucraino, che è arrivato a proporre un referendum per dirimere questa controversia, proposta, però, respinta dalla Russia. In ogni caso, sul tema dei territori, ogni decisione dovrà essere presa tra le parti e nessuno può imporre da fuori la sua volontà». Si arriva agli asset russi: «L’Italia», sottolinea la Meloni con estrema chiarezza, «ha deciso venerdì scorso di non far mancare il proprio appoggio al regolamento che ha fissato l’immobilizzazione dei beni russi senza, tuttavia ancora avallare, ancora, alcuna decisione sul loro utilizzo. Nell’approvare il regolamento», precisa, «abbiamo voluto ribadire un principio che consideriamo fondamentale: decisioni di tale portata giuridica, finanziaria e istituzionale, come anche quella dell’eventuale utilizzo degli asset congelati, non possono che essere prese al livello dei leader. Intendiamo chiedere chiarezza rispetto ai possibili rischi connessi alla proposta di utilizzo della liquidità generata dall’immobilizzazione degli asset, particolarmente quelli reputazionali, di ritorsione o legati a nuovi, pesanti, fardelli per i bilanci nazionali». L’ipotesi di una forza multinazionale resta in discussione «con partecipazione volontaria di ciascun Paese», sostiene ancora la Meloni, ma «l’Italia non intende inviare soldati in Ucraina». Nelle repliche la Meloni ha gioco facile a rispondere alle critiche delle opposizioni, divise ancora una volta. A chi le chiede di scegliere tra Europa e Stati Uniti, la Meloni risponde di «stare con l’Italia» e rivolgendosi al Pd ricorda che se l’Europa rischia l’irrilevanza è per le politiche portate avanti negli ultimi anni dalla sinistra.
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Le macchine che incroci per le strade della capitale portano sulle fiancate dei grandi fiocchi gialli per non dimenticare le 251 persone rapite da Hamas. Il 7 ottobre del 2023 è stato uno spartiacque. È il nuovo prima e dopo Cristo per Israele. E pure per la Palestina.
Gerusalemme arranca. I turisti sono pochi nonostante si stia avvicinando il Natale. I controlli moltiplicati. Lungo la via dolorosa, quella che Cristo fece portando la croce, i militari israeliani scrutano con attenzione chiunque gli si pari davanti. Del resto, non lontano da qui, sono stati ammazzati Adiel Kolman e Aharon Bennett. Basta un coltello per togliere la vita.
Dal 1948, arabi e israeliani hanno sempre faticato a convivere. Ogni parte voleva prevalere sull’altra. «Facci caso» - ci racconta Omar, un ortodosso - «non vedrai mai un ebreo e un mussulmano insieme. Se mai dovessi vederli è perché accanto a loro c’è anche un cristiano». E pare proprio così, soprattutto a Betlemme, che torna a festeggiare il Natale dopo due anni di buio. Ne ha parecchio bisogno la città del pane. La disoccupazione, ci racconta una ragazza, è ormai arrivata all’82%. Un dramma nel dramma. L’acqua è contingentata, come dimostrano le grandi cisterne installate sopra le case. Bisogna raccoglierne il più possibile perché non è detto che domani, o dopo, ci sarà.
Alla polizia turistica non sembra vero di vedere degli stranieri. «Prego, prego», si affrettano a dire, indicando la catena che ci separa dalla chiesa della Natività che, insieme a quella del Santo sepolcro, racchiude la nascita, la morte e la resurrezione di Gesù. Ci invita a scavalcarla. Le regole vanno infrante. Ci sono dei turisti e devono essere trattati bene. Meglio ancora quando viene a sapere che siamo giornalisti: «Dite che Betlemme continua a vivere», si raccomanda. Poco più in là, un gigantesco albero di Natale illumina la piazza. Sotto di lui un presepio dai colori sgargianti. È semplice ma c’è tutto: Gesù, che è già arrivato, Maria, Giuseppe, e pure i re Magi, che a quanto pare non possono permettersi il lusso di essere fermati da un’altra guerra. Meglio portarsi avanti ed essere lì ad adorare il Bambinello.
È ormai sera inoltrata. Arrivare a Betlemme non è stato semplice. Il checkpoint principale, quello che permette alle macchine dirette in Cisgiordania di defluire più facilmente, era chiuso. Bisogna fare un giro più largo, quindi. Sono già passate le 9 di sera, eppure la piazza è piena. Ci sono famiglie, bambini che giocano a pallone. Un ragazzo ci ferma e ci spiega come per lui il Natale sia innanzitutto dolcezza. Un altro, invece, ci spiega che è musulmano ma che anche per lui questa festa rappresenta innanzitutto dolcezza e che la celebrerà. In piazza c’è perfino un Babbo Natale che cerca di vendere cappellini e palloncini per bambini. È emozionato. Non faceva più questo lavoro da anni. Ed eccolo lì con il suo pancione fuori misura (ma neanche troppo visto che il cibo qui a volte scarseggia) e la voglia di far felici gli altri: «Siete tutti benvenuti a Betlemme, tutto il mondo deve venire qui».
Non è facile però. Come ci spiega un ex diplomatico dell’autorità palestinese che ha trattato a lungo i negoziati con Israele, «il 7 ottobre ha cambiato tutto, da una parte e dall’altra. La soluzione dei due Stati, che già prima era difficile da realizzare, ora è impossibile. Israele si è spostata molto a destra e quello che era il pensiero di pochi è oggi diventato il pensiero di tanti. Allo stesso tempo, però, né Hamas né l’autorità palestinese rappresentano un’alternativa valida per noi». Quale sia l’alternativa, però, non si sa. Si vive sospesi. Come se qualcosa di nuovo e tremendo dovesse accadere ancora. I coloni, a Gerusalemme Est, continuano a occupare le case dei palestinesi. E pure in Cisgiordania. La convivenza pare una chimera. Ma poi ci tornano in mente le parole di Omar: «Se c’è un cristiano, allora è possibile». Come a Betlemme, del resto.
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Che cosa dice la proposta incardinata alla Camera? Innanzitutto che chi vuole amministrare un condominio deve avere una laurea. Non è chiaro se questo preluda all’istituzione di percorsi di studi universitari con specializzazione nella gestione di condomini, sta di fatto che, se si ha un diploma senza essere iscritto a un albo, ordine o collegi di area economica, giuridica o tecnica (cioè se non si è geometra, perito industriale o ragioniere), non si potrà più amministrare un condominio. Fin qui passi, anche se ogni tanto si discute dell’abolizione del valore legale della laurea, si capisce la ratio della norma che si vuole introdurre, per evitare pasticci nella tenuta dei conti. Viene, poi, il rinnovo automatico del professionista incaricato a meno che l’assemblea non decida diversamente, così da evitare pericolosi stalli in cui chi deve occuparsi della gestione non ha un mandato e deve operare solo per l’ordinaria amministrazione.
Però, poi, ci sono un paio di novità che rischiano di trasformarsi in un salasso per moltissime famiglie. La prima riguarda i morosi, cioè quelli che non pagano le spese condominiali. Invece di rendere più spedite le esecuzioni nei loro confronti, la legge concede loro più tempo. Non solo: se un proprietario di casa non paga, per esempio le spese di manutenzione già eseguite o l’erogazione del gas che pro quota gli compete, i fornitori - cioè, manutentori e gestori - potranno rivalersi non soltanto sul condomino moroso, ma anche sul condominio e - soprattutto - sui proprietari che sono in regola con le spese. In pratica, i furbi la faranno franca perché basterà farsi trovare con il conto corrente prosciugato per non sborsare un euro. Gli onesti, invece, rischiano di dover pagare anche per i disonesti. Infatti, se passa il disegno di legge, in caso di mancato pagamento il fornitore potrà attingere direttamente al conto corrente condominiale e, poi, potrà pretendere che sia chi è in regola a saldare i conti. Una follia che sicuramente farà felici i fornitori mentre renderà furiosi i proprietari di casa che sono alle prese con vicini con forti arretrati nel versamento delle spese condominiali.
Non è finita. La proposta di legge include anche un’idea che sicuramente si trasformerà in una spesa in più per i condomini più grandi. Infatti, la legge introdurrebbe l’obbligo di nominare un revisore dei conti nei palazzi con più di venti appartamenti, poi la sicurezza delle parti comuni dovrà essere attestata da una società specializzata e l’amministratore potrà ordinare la messa a norma a prescindere dalle decisioni dell’assemblea. Non vi sfuggirà che sia il revisore sia il certificatore della sicurezza non lavoreranno gratis e, dunque, i condomini dovranno mettere mano al portafogli.
Intendiamoci, capisco le ragioni delle norme che si vogliono introdurre per fare in modo che gli edifici abbiano impianti in regola. E comprendo anche i controlli sul bilancio da parte di un professionista esterno, per evitare che l’amministratore faccia il furbo o scappi con la cassa. Tuttavia, poi, bisogna anche badare ai bilanci delle famiglie, già gravati da un’infinità di gabelle. In particolare, c’è da comprendere che, se un condomino non paga, non vanno penalizzati i vicini in regola: semmai si può disporre il pignoramento veloce dell’immobile posseduto dal furbo, disposizioni già adottate in altri Paesi, come Stati Uniti e Francia, con addirittura la messa in vendita dell’alloggio. Vedrete che i disonesti avranno meno voglia di sottrarsi al pagamento delle spese condominiali. Senza gravare sulle spalle degli onesti.
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Fabien Mandon (Getty Images)
Ai generaloni prudono le mani. Uno dopo l’altro, infatti, si lasciano andare a dichiarazioni da cui traspare che non vedono l’ora di entrare in guerra. Ha cominciato Fabien Mandon, nuovo capo di Stato maggiore francese, che durante un incontro con l’assemblea dei sindaci transalpini ha detto senza alcuna perifrasi che «il Paese deve prepararsi a perdere i suoi figli» in un eventuale conflitto con la Russia. Ha proseguito l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, presidente del Comitato militare della Nato che, in un’intervista al Financial Times, ha invece svelato i piani degli alti papaveri dell’Alleanza atlantica: «Stiamo studiando tutto… Finora siamo stati piuttosto reattivi. Diventare più aggressivi, passare da una postura reattiva a una proattiva è qualcosa a cui stiamo pensando». In pratica l’alto ufficiale ha voluto chiarire cosa bolle in pentola nel comando Nato, ovvero un attacco preventivo alla Russia, dicendo che si tratterebbe di una «forma di azione difensiva», che tuttavia, a prescindere da come la si chiami, equivarrebbe all’entrata in guerra contro Mosca.
Poi, dopo il francese e l’italiano, l’altro ieri è arrivato il capo di Stato maggiore britannico, Richard Knighton, che in un discorso tenuto al Royal United Services Institute, celebre think tank del settore difesa, ha invitato a tenersi pronti e a prepararsi a costruire, servire e se necessario a combattere. E visto che a Natale tutti sono portati a far festa, già che c’era ha aggiunto una pessimistica previsione: «Sempre più famiglie comprenderanno cosa significa il sacrificio per la nostra nazione». In altre parole, Knighton ha ripetuto quanto annunciato dal collega francese: preparatevi a perdere i vostri figli.
Ovviamente capisco che, se un militare si è allenato per una vita a combattere, non veda l’ora di entrare in azione, soprattutto se il suo destino non è di finire in prima linea, ma di sedere comodo dietro una scrivania a giocare ai soldatini, spostando truppe, studiando strategie, pianificando avanzate e controffensive. Comprendo perfino che dopo quasi quattro anni di guerra alle porte dell’Europa qualcuno non stia più nella pelle per la voglia di scendere in campo e guadagnare una medaglia. Tuttavia, questa frenesia per il conflitto pone alcuni problemi pratici. Il primo, per quanto ci riguarda, è costituzionale. Nella Carta su cui si fonda la nostra Repubblica c’è scritto che l’Italia ripudia la guerra come soluzione delle diatribe fra Stati. Non so se l’ammiraglio Cavo Dragone, che parla di attacco preventivo alla Russia, si è posto il problema: ma qualsiasi decisione non compete né a lui né alla Nato ma al Parlamento. So bene che ai tempi di Massimo D’Alema, al cui fianco sedeva Sergio Mattarella, se ne infischiarono delle Camere e spedirono i caccia italiani a bombardare Belgrado, ma aver violato la Costituzione una volta non significa essere autorizzati a violarla una seconda, soprattutto se non si perde occasione per appellarsi ai valori fondativi della Repubblica.
Il secondo problema riguarda il popolo italiano, che sempre da Costituzione è il vero sovrano del Paese. Qualcuno ha intenzione di informarlo che i generaloni sono pronti alla guerra? Chi si prende il compito di spiegare che manderemo i nostri figli a morire e che le nostre città potrebbero essere devastate dalle bombe di Putin come da tre anni e mezzo sono devastate quelle ucraine? L’America fu costretta a ritirarsi dal Vietnam, ponendo fine al conflitto, perché l’opinione pubblica non era in grado di sopportare le immagini delle bare avvolte nella bandiera a stelle e strisce. Qualcuno pensa che gli italiani, di fronte ai primi morti, chineranno il capo invece di inseguire con i forconi i generali che li hanno portati in guerra? Beh, temo che si sbagli.
Una cosa però mi incuriosisce ed è la coincidenza delle dichiarazioni di alti ufficiali nei giorni in cui si parla con sempre maggior intensità di pace. Più si apre qualche spiraglio per una tregua e più gli alti gradi delle forze armate europee, con le loro lugubri previsioni, sembrano tifare guerra. Oddio, non ci sono solo i militari, anche qualche politico pare sensibile all’argomento. Prendete Ursula von der Leyen. Ha detto che «la pace di ieri è finita. Non abbiamo tempo per indulgere nella nostalgia. Ciò che conta è come affrontiamo l'oggi». Già me la vedo la generalessa al comando delle Sturmtruppen europee. Forse, visto che le sue quotazioni sono in calo in tutta Europa, sogna di risollevarsi come fece la Thatcher, che risalì nei consensi quando mandò le navi britanniche a riprendersi le Falkland. Purtroppo, non soltanto la baronessa non è la Lady di ferro, ma la Russia non è l’Argentina e a giocare con il fuoco si rischia di scottarsi. Anzi, rischiamo noi di scottarci ed è una prospettiva su cui credo che la maggioranza degli italiani abbia le idee chiare. Non finiremo al fronte, né in miseria, per assecondare la voglia di guerra di quattro generali e di quattro politici in cerca di gloria.
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