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2019-04-07
Incubo Libia: meno petrolio e più barconi
Ansa
Per chi è pratico di Libia, l'avanzata del generale Khalifa Haftar verso Tripoli (le truppe sono a 12 chilometri dal centro della città) contro le milizie che difendono il premier Fayez al Serraj, come l'evacuazione del personale italiano dell'Eni dalla capitale, non sono altro che la conclusione di un processo di lento disimpegno dell'Italia iniziato nel lontano 2011 con la caduta di Muammar Gheddafi. La resa di Serraj rappresenterebbe una sconfitta pesante per il nostro Paese, costretto in questi anni ad appoggiare il governo di unità nazionale (Gna) anche per difendere la nostra produzione di petrolio, dal momento che una grossa percentuale di rifornimenti di idrocarburi per il Cane a sei zampe arriva da lì, con un impegno che va avanti ormai dal 1959. Basti pensare che nel solo 2017 la produzione era di 384.000 barili: quasi il 20% del totale. C'è poi un dettaglio da non trascurare. Quello che spaventa la nostra intelligence, come descritto anche nella relazione di quest'anno inviata al Parlamento, è che un'eccessiva instabilità della zona «possa danneggiare i nostri interessi energetici nazionali», mentre ci sono state evoluzioni del fenomeno jihadista nella zona con il conseguente rischio di ripresa di viaggi di migranti verso le nostre coste. Del resto, da anni Tripoli è al centro di scontri tra varie fazioni per il controllo «di traffici illeciti e per la gestione dei siti petroliferi».
Ieri Eni ha dato rassicurazioni alle agenzie di stampa. «La situazione nei campi petroliferi è sotto controllo e stiamo monitorando l'evolversi della vicenda con molta attenzione», aggiungendo che «non ha personale attualmente presente a Tripoli». Eppure c'è preoccupazione. La prossima settimana potrebbe essere quella decisiva per il generale Haftar, che ha già annunciato di non volersi fermare. Gli scontri si consumano al momento a sud di Tripoli e a Jufra, tra le forze dell'esercito nazionale libico e quelle del generale, considerato vicino alla Francia di Emmanuel Macron e alla Russia. A nulla sembrano valere gli appelli del G7 e dell'Onu. Il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi, dalla ministeriale del G7 a Dinard, ha spiegato che continua a esistere una linea comune, condivisa anche con la Francia, sul fatto che «non vi sia soluzione militare al conflitto libico e che sia necessario procedere verso una transizione che porti a nuove elezioni». Haftar non sembra preoccuparsene. I capi delle diplomazie del G7 hanno anche ribadito il «pieno e coeso sostegno» al segretario generale dell'Onu Antonio Guterres e all'inviato Onu per la Libia, Ghassan Salamé. Ma sembrano parole di circostanza. Le Nazioni unite stanno cercando di aiutare i libici a superare lo stallo, ma gli ultimi due giorni non hanno portato a svolte particolari. Gli incontri di Parigi nel maggio 2018 e di Palermo a novembre sono ormai cartoline sbiadite. «C'è accordo fra tutti i partecipanti» ha comunque sottolineato Moavero «sull'analisi della situazione in Libia e sulla richiesta già fatta ieri sera di mettere fine ad operazioni militari che complicano lo scenario, mentre la soluzione non può che escludere ogni opzione militare».
E mentre la Russia ha già annunciato di non appoggiare Haftar, e anzi il viceministro degli Esteri Mikhail Bogdanov ne avrebbe parlato direttamente con il generale, gli Stati Uniti di Donald Trump hanno detto di contare sull'Italia. Caso vuole che proprio la scorsa settimana Washington abbia nominato come ambasciatore e plenipotenziario per la Libia Richard B. Norland, abituato a contesti complessi: alla fine degli anni Ottanta era a Mosca durante il crollo dell'Unione Sovietica e dieci anni fa in Afghanistan. «L'unico che potrebbe risolvere la situazione è Saif Af islam Gheddafi», spiega Michele Marsiglia, presidente di Federpetroli che tira in ballo il figlio del colonnello che sarà candidato alle elezioni presidenziali di quest'anno, come riportato da Africa Research Center. Nelle prossime settimane, Marsiglia parteciperà a una riunione alla Farnesina per fare il punto sulle nostre aziende impegnate in Libia, anche le più piccole, non solo Eni. «I nostri problemi riguardano le commesse che abbiamo ottenuto nel 2011 o prima. Per la situazione di caos hanno subito degli stop and go. Se un impianto resta fermo per un anno, poi le attrezzature vanno sostituite (problemi di sabbia o altri). Il tutto si traduce in un aumento di costi per penali e per le riparazioni. Un impianto che costa 40 milioni rischia di costare quattro volte tanto, ne abbiamo alcuni fermi dal 2009». Per Marsiglia «l'unico che può traghettare ancora la macchina Eni è solo Claudio Descalzi».
E pensare che prima della rivoluzione del 2011 operavano in Libia oltre 100 aziende italiane, «impegnate nei settori delle costruzioni, ingegneristica, impiantistica industriale e servizi collegati al settore petrolifero», come riportato dal ministero degli Esteri. Oltre a Eni, si segnalavano Iveco, Saipem, Salini, Impregilo, AgustaWestland e molte altre. Dopo la liberazione è riuscito a rientrare il 70% di queste imprese, anche se alla fine del 2013 solo la metà era tornata operativa.
Proteggere i nostri interessi vale un’intesa. Pure con Macron
L'Italia sta sostenendo un governo in Libia che è militarmente sconfitto dalle forze che vogliono sostituirlo. Tale situazione suggerisce di adattare la definizione dell'interesse nazionale alla realtà.
In Libia, oltre all'ovvio accesso commerciale, dobbiamo difendere: a) il rifornimento di petrolio e gas; b) la posizione dell'Eni; c) il controllo delle coste affinché da lì non partano migranti gestiti da bande criminali; d) la sicurezza nazionale contro insediamenti islamisti. Per tali scopi sarebbe utile che si formasse celermente un governo libico con capacità di monopolio della violenza e interesse ad avere buoni rapporti commerciali e politici con il vicinato. Roma dovrebbe appoggiare chiunque sia in grado di assicurare tale esito. Ma ancora sostiene il perdente governo di Fayez al Sarraj a Tripoli contro il vincente leader della Cirenaica, Khalifa Haftar, il quale pure sta rallentando l'avanzata per ragioni diplomatiche. Il primo è affiliato all'islam politico - al governo in Turchia, Tunisia, ecc. - mentre il secondo ha accordi con Francia, Egitto e Federazione russa. Roma teme che la Francia voglia ridurre il peso dell'Eni in Libia e pertanto ne contrasta l'influenza. Inoltre, probabilmente, ha paura che un Serraj abbandonato violi gli accordi fatti dal governo Gentiloni, poi rinnovati, di controllo delle coste in cambio di sostegno e soldi, inviando un'ondata di migranti che metterebbe in difficoltà l'Italia. Ma tali motivi non sembrano sufficienti per giustificare l'appoggio italiano a un perdente, che tra l'altro ricatta l'Italia. Sarebbe più razionale, infatti, accordarsi con la Francia per mantenere le posizioni dell'Eni in cambio del via libera a un governo di Haftar che chiuda la questione e che controlli la costa. C'è un interesse nella regione che impedisce a Roma di fare un compromesso con Parigi, condiviso con Egitto e Russia?
Da sempre Roma contrasta l'influenza francese nel Mediterraneo e viceversa. Ma interessa all'Italia stare in frizione con la Francia, in una sorta di guerra tra poveri? L'Algeria è in subbuglio e l'Africa Nordoccidentale francofona è sempre più penetrata dalla Cina, per altro attore silenzioso anche in Libia, nell'Algeria stessa e costruttore di un mega impianto per la costruzione di auto in Tunisia. Infatti il costo dell'influenza francese nel Mediterraneo e nell'Africa settentrionale tende ad eccedere le sue capacità nazionali. Parigi, inoltre, ha appena investito risorse notevoli per allargare la base navale di Gibuti allo scopo di contenere la presenza cinese - una mega base a Gibuti stessa - nel Corno d'Africa per il controllo della rotta verso Suez (anche il Giappone ha fatto nell'area una base navale piccolina, ma è la prima esterna dal 1945 e ciò ha un significato strategico chiaro di un mondo che si sta dividendo tra America e Cina). All'Italia conviene contrapporsi alla Francia oppure negoziare un accordo conveniente proprio perché Parigi è in difficoltà e si sta riavvicinando all'America per avere aiuto? All'Italia (e all'Eni) conviene migliorare i rapporti con l'Egitto non contrastando la sua strategia sulla Libia o mantenere tensioni?
In generale, conviene all'Italia prendere posizioni di frizione nel Mediterraneo e nell'Africa islamica o, poiché potenza commerciale globale, limitare all'essenziale la presenza in un'area poco profittevole e caotica, lasciando fare ad altri il lavoro sporco e costoso di tenere in ordine l'area stessa, scambiando convergenza con business, come da decenni fa la Germania? Fino a che Roma non riequilibrerà la mossa filocinese fatta da poco, è meglio non si ingaggi in frizioni perché l'America è pronta a darle una punizione. Ma prevale la considerazione che l'Italia abbia più interesse nel prendere posizione in Africa meridionale e nell'Europa orientale, nonché Asia centrale, dove la Francia ha minima influenza e Russia e America vorranno contenere l'influenza cinese.
In conclusione, l'Italia dovrebbe: a) ridurre l'attenzione sul caso libico all'essenziale, favorendo un potere locale che con la forza, e non con ridicole elezioni o fesserie Onu, tenga sotto controllo circa 180 clan armati; b) accordarsi con la Francia, antipatica e arrogante che sia, affinché ci metta soldi e soldati per tenere in ordine un'area che creerebbe guai all'Italia; c) concentrare la sua presenza diplomatica e di mercato in aree promettenti del globo, rinnovando l'alleanza con l'America, stringendo i rapporti con il Giappone e con le nazioni balcaniche, in consultazione con la Russia, entro una rafforzata lealtà Nato. Meno ci ingaggiamo nel Mediterraneo - Adriatico, Ionio, Tirreno interno (pieni di gas e petrolio) e Suez a parte - lasciando ai francesi la gestione delle rogne, monetizzando la non interferenza, e meglio sarà per noi: il business è altrove.
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Le truppe di Khalifa Haftar sono a 12 chilometri dal centro di Tripoli, Eni decide l'evacuazione del personale italiano. Il caos mette a rischio l'estrazione di idrocarburi. L'altro pericolo è un'escalation di partenze. Federpetroli: «Gheddafi jr può essere decisivo per la pace». Proteggere i nostri interessi vale un'intesa. Pure con Macron. Piaccia o no, Parigi appoggia il vero uomo forte. Che può tutelare il Cane a sei zampe. Lo speciale contiene due articoli. Per chi è pratico di Libia, l'avanzata del generale Khalifa Haftar verso Tripoli (le truppe sono a 12 chilometri dal centro della città) contro le milizie che difendono il premier Fayez al Serraj, come l'evacuazione del personale italiano dell'Eni dalla capitale, non sono altro che la conclusione di un processo di lento disimpegno dell'Italia iniziato nel lontano 2011 con la caduta di Muammar Gheddafi. La resa di Serraj rappresenterebbe una sconfitta pesante per il nostro Paese, costretto in questi anni ad appoggiare il governo di unità nazionale (Gna) anche per difendere la nostra produzione di petrolio, dal momento che una grossa percentuale di rifornimenti di idrocarburi per il Cane a sei zampe arriva da lì, con un impegno che va avanti ormai dal 1959. Basti pensare che nel solo 2017 la produzione era di 384.000 barili: quasi il 20% del totale. C'è poi un dettaglio da non trascurare. Quello che spaventa la nostra intelligence, come descritto anche nella relazione di quest'anno inviata al Parlamento, è che un'eccessiva instabilità della zona «possa danneggiare i nostri interessi energetici nazionali», mentre ci sono state evoluzioni del fenomeno jihadista nella zona con il conseguente rischio di ripresa di viaggi di migranti verso le nostre coste. Del resto, da anni Tripoli è al centro di scontri tra varie fazioni per il controllo «di traffici illeciti e per la gestione dei siti petroliferi». Ieri Eni ha dato rassicurazioni alle agenzie di stampa. «La situazione nei campi petroliferi è sotto controllo e stiamo monitorando l'evolversi della vicenda con molta attenzione», aggiungendo che «non ha personale attualmente presente a Tripoli». Eppure c'è preoccupazione. La prossima settimana potrebbe essere quella decisiva per il generale Haftar, che ha già annunciato di non volersi fermare. Gli scontri si consumano al momento a sud di Tripoli e a Jufra, tra le forze dell'esercito nazionale libico e quelle del generale, considerato vicino alla Francia di Emmanuel Macron e alla Russia. A nulla sembrano valere gli appelli del G7 e dell'Onu. Il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi, dalla ministeriale del G7 a Dinard, ha spiegato che continua a esistere una linea comune, condivisa anche con la Francia, sul fatto che «non vi sia soluzione militare al conflitto libico e che sia necessario procedere verso una transizione che porti a nuove elezioni». Haftar non sembra preoccuparsene. I capi delle diplomazie del G7 hanno anche ribadito il «pieno e coeso sostegno» al segretario generale dell'Onu Antonio Guterres e all'inviato Onu per la Libia, Ghassan Salamé. Ma sembrano parole di circostanza. Le Nazioni unite stanno cercando di aiutare i libici a superare lo stallo, ma gli ultimi due giorni non hanno portato a svolte particolari. Gli incontri di Parigi nel maggio 2018 e di Palermo a novembre sono ormai cartoline sbiadite. «C'è accordo fra tutti i partecipanti» ha comunque sottolineato Moavero «sull'analisi della situazione in Libia e sulla richiesta già fatta ieri sera di mettere fine ad operazioni militari che complicano lo scenario, mentre la soluzione non può che escludere ogni opzione militare». E mentre la Russia ha già annunciato di non appoggiare Haftar, e anzi il viceministro degli Esteri Mikhail Bogdanov ne avrebbe parlato direttamente con il generale, gli Stati Uniti di Donald Trump hanno detto di contare sull'Italia. Caso vuole che proprio la scorsa settimana Washington abbia nominato come ambasciatore e plenipotenziario per la Libia Richard B. Norland, abituato a contesti complessi: alla fine degli anni Ottanta era a Mosca durante il crollo dell'Unione Sovietica e dieci anni fa in Afghanistan. «L'unico che potrebbe risolvere la situazione è Saif Af islam Gheddafi», spiega Michele Marsiglia, presidente di Federpetroli che tira in ballo il figlio del colonnello che sarà candidato alle elezioni presidenziali di quest'anno, come riportato da Africa Research Center. Nelle prossime settimane, Marsiglia parteciperà a una riunione alla Farnesina per fare il punto sulle nostre aziende impegnate in Libia, anche le più piccole, non solo Eni. «I nostri problemi riguardano le commesse che abbiamo ottenuto nel 2011 o prima. Per la situazione di caos hanno subito degli stop and go. Se un impianto resta fermo per un anno, poi le attrezzature vanno sostituite (problemi di sabbia o altri). Il tutto si traduce in un aumento di costi per penali e per le riparazioni. Un impianto che costa 40 milioni rischia di costare quattro volte tanto, ne abbiamo alcuni fermi dal 2009». Per Marsiglia «l'unico che può traghettare ancora la macchina Eni è solo Claudio Descalzi». E pensare che prima della rivoluzione del 2011 operavano in Libia oltre 100 aziende italiane, «impegnate nei settori delle costruzioni, ingegneristica, impiantistica industriale e servizi collegati al settore petrolifero», come riportato dal ministero degli Esteri. Oltre a Eni, si segnalavano Iveco, Saipem, Salini, Impregilo, AgustaWestland e molte altre. Dopo la liberazione è riuscito a rientrare il 70% di queste imprese, anche se alla fine del 2013 solo la metà era tornata operativa. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/incubo-libia-meno-petrolio-e-piu-barconi-2633897411.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="proteggere-i-nostri-interessi-vale-unintesa-pure-con-macron" data-post-id="2633897411" data-published-at="1765822027" data-use-pagination="False"> Proteggere i nostri interessi vale un’intesa. Pure con Macron L'Italia sta sostenendo un governo in Libia che è militarmente sconfitto dalle forze che vogliono sostituirlo. Tale situazione suggerisce di adattare la definizione dell'interesse nazionale alla realtà. In Libia, oltre all'ovvio accesso commerciale, dobbiamo difendere: a) il rifornimento di petrolio e gas; b) la posizione dell'Eni; c) il controllo delle coste affinché da lì non partano migranti gestiti da bande criminali; d) la sicurezza nazionale contro insediamenti islamisti. Per tali scopi sarebbe utile che si formasse celermente un governo libico con capacità di monopolio della violenza e interesse ad avere buoni rapporti commerciali e politici con il vicinato. Roma dovrebbe appoggiare chiunque sia in grado di assicurare tale esito. Ma ancora sostiene il perdente governo di Fayez al Sarraj a Tripoli contro il vincente leader della Cirenaica, Khalifa Haftar, il quale pure sta rallentando l'avanzata per ragioni diplomatiche. Il primo è affiliato all'islam politico - al governo in Turchia, Tunisia, ecc. - mentre il secondo ha accordi con Francia, Egitto e Federazione russa. Roma teme che la Francia voglia ridurre il peso dell'Eni in Libia e pertanto ne contrasta l'influenza. Inoltre, probabilmente, ha paura che un Serraj abbandonato violi gli accordi fatti dal governo Gentiloni, poi rinnovati, di controllo delle coste in cambio di sostegno e soldi, inviando un'ondata di migranti che metterebbe in difficoltà l'Italia. Ma tali motivi non sembrano sufficienti per giustificare l'appoggio italiano a un perdente, che tra l'altro ricatta l'Italia. Sarebbe più razionale, infatti, accordarsi con la Francia per mantenere le posizioni dell'Eni in cambio del via libera a un governo di Haftar che chiuda la questione e che controlli la costa. C'è un interesse nella regione che impedisce a Roma di fare un compromesso con Parigi, condiviso con Egitto e Russia? Da sempre Roma contrasta l'influenza francese nel Mediterraneo e viceversa. Ma interessa all'Italia stare in frizione con la Francia, in una sorta di guerra tra poveri? L'Algeria è in subbuglio e l'Africa Nordoccidentale francofona è sempre più penetrata dalla Cina, per altro attore silenzioso anche in Libia, nell'Algeria stessa e costruttore di un mega impianto per la costruzione di auto in Tunisia. Infatti il costo dell'influenza francese nel Mediterraneo e nell'Africa settentrionale tende ad eccedere le sue capacità nazionali. Parigi, inoltre, ha appena investito risorse notevoli per allargare la base navale di Gibuti allo scopo di contenere la presenza cinese - una mega base a Gibuti stessa - nel Corno d'Africa per il controllo della rotta verso Suez (anche il Giappone ha fatto nell'area una base navale piccolina, ma è la prima esterna dal 1945 e ciò ha un significato strategico chiaro di un mondo che si sta dividendo tra America e Cina). All'Italia conviene contrapporsi alla Francia oppure negoziare un accordo conveniente proprio perché Parigi è in difficoltà e si sta riavvicinando all'America per avere aiuto? All'Italia (e all'Eni) conviene migliorare i rapporti con l'Egitto non contrastando la sua strategia sulla Libia o mantenere tensioni? In generale, conviene all'Italia prendere posizioni di frizione nel Mediterraneo e nell'Africa islamica o, poiché potenza commerciale globale, limitare all'essenziale la presenza in un'area poco profittevole e caotica, lasciando fare ad altri il lavoro sporco e costoso di tenere in ordine l'area stessa, scambiando convergenza con business, come da decenni fa la Germania? Fino a che Roma non riequilibrerà la mossa filocinese fatta da poco, è meglio non si ingaggi in frizioni perché l'America è pronta a darle una punizione. Ma prevale la considerazione che l'Italia abbia più interesse nel prendere posizione in Africa meridionale e nell'Europa orientale, nonché Asia centrale, dove la Francia ha minima influenza e Russia e America vorranno contenere l'influenza cinese. In conclusione, l'Italia dovrebbe: a) ridurre l'attenzione sul caso libico all'essenziale, favorendo un potere locale che con la forza, e non con ridicole elezioni o fesserie Onu, tenga sotto controllo circa 180 clan armati; b) accordarsi con la Francia, antipatica e arrogante che sia, affinché ci metta soldi e soldati per tenere in ordine un'area che creerebbe guai all'Italia; c) concentrare la sua presenza diplomatica e di mercato in aree promettenti del globo, rinnovando l'alleanza con l'America, stringendo i rapporti con il Giappone e con le nazioni balcaniche, in consultazione con la Russia, entro una rafforzata lealtà Nato. Meno ci ingaggiamo nel Mediterraneo - Adriatico, Ionio, Tirreno interno (pieni di gas e petrolio) e Suez a parte - lasciando ai francesi la gestione delle rogne, monetizzando la non interferenza, e meglio sarà per noi: il business è altrove. www.carlopelanda.com
iStock
Secondo un’analisi della Fondazione Eni Enrico Mattei, la decarbonizzazione dell’auto europea stenta: le vendite elettriche sono ferme al 14%, le batterie e le infrastrutture sono arretrate. E mentre Germania e Italia spingono per una maggiore flessibilità, la Commissione europea valuta la revisione normativa.
La decarbonizzazione dell’automobile europea si trova a un bivio. Lo evidenzia un’analisi della Fondazione Eni Enrico Mattei, in un articolo dal titolo Revisione o avvitamento per la decarbonizzazione dell’automobile, che mette in luce le difficoltà del cosiddetto «pacchetto automotive» della Commissione europea e la possibile revisione anticipata del Regolamento Ue 2023/851, che prevede lo stop alle immatricolazioni di auto a combustione interna dal 2035.
Originariamente prevista per il 2026, la revisione del bando è stata anticipata dalle pressioni dell’industria, dal rallentamento del mercato delle auto elettriche e dai mutati equilibri politici in Europa. Germania e Italia, insieme ad altri Stati membri con una forte industria automobilistica, chiedono maggiore flessibilità per conciliare gli obiettivi ambientali con la realtà produttiva.
Il quadro che emerge è complesso. La domanda di veicoli elettrici cresce più lentamente del previsto, la produzione europea di batterie fatica a decollare, le infrastrutture di ricarica restano insufficienti e la concorrenza dei produttori extra-Ue, in particolare cinesi, si fa sempre più pressante. Nel frattempo, il parco auto europeo continua a invecchiare e la riduzione delle emissioni di CO₂ procede a ritmi inferiori alle aspettative.
I dati confermano il divario tra ambizioni e realtà. Nel 2024, meno del 14% delle nuove immatricolazioni nell’Ue a 27 è stata elettrica, mentre il mercato resta dominato dai motori tradizionali. L’utilizzo dell’energia elettrica nel settore dei trasporti stradali, pur in crescita, resta inferiore all’1%, rendendo molto sfidante l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050.
Secondo la Fondazione Eni Enrico Mattei, non è possibile ignorare l’andamento del mercato e le preferenze dei consumatori. Per ridurre le emissioni occorre che le nuove auto elettriche sostituiscano quelle endotermiche già in circolazione, cosa che al momento non sta avvenendo in Italia, seconda solo alla Germania per numero di veicoli.
«Ai 224 milioni di autovetture circolanti nel 2015 nell’Ue, negli ultimi nove anni se ne sono aggiunti oltre 29 milioni con motore a scoppio e poco più di 6 milioni elettriche. Valori che pongono interrogativi sulla strategia della sostituzione del parco circolante e sull’eventuale ruolo di biocarburanti e altre soluzioni», sottolinea Antonio Sileo, Programme Director del Programma Sustainable Mobility della Fondazione. «È necessario un confronto per valutare l’efficacia delle politiche europee e capire se l’Unione punti a una revisione pragmatica della strategia o a un ulteriore avvitamento normativo», conclude Sileo.
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Ecco #DimmiLaVerità del 15 novembre 2025. Con il senatore di Fdi Etel Sigismondi commentiamo l'edizione dei record di Atreju.
La risposta alla scoppiettante Atreju è stata una grigia assemblea piddina
Il tema di quest’anno, Angeli e Demoni, ha guidato il percorso visivo e narrativo dell’evento. Il manifesto ufficiale, firmato dal torinese Antonio Lapone, omaggia la Torino magica ed esoterica e il fumetto franco-belga. Nel visual, una cosplayer attraversa il confine tra luce e oscurità, tra bene e male, tra simboli antichi e cultura pop moderna, sfogliando un fumetto da cui si sprigiona luce bianca: un ponte tra tradizione e innovazione, tra arte e narrazione.
Fumettisti e illustratori sono stati il cuore pulsante dell’Oval: oltre 40 autori, tra cui il cinese Liang Azha e Lorenzo Pastrovicchio della scuderia Disney, hanno accolto il pubblico tra sketch e disegni personalizzati, conferenze e presentazioni. Primo Nero, fenomeno virale del web con oltre 400.000 follower, ha presentato il suo debutto editoriale con L’Inkredibile Primo Nero Show, mentre Sbam! e altre case editrici hanno ospitato esposizioni, reading e performance di autori come Giorgio Sommacal, Claudio Taurisano e Vince Ricotta, che ha anche suonato dal vivo.
Il cosplay ha confermato la sua centralità: più di 120 partecipanti si sono sfidati nella tappa italiana del Nordic Cosplay Championship, con Carlo Visintini vincitore e qualificato per la finale in Svezia. Parallelamente, il propmaking ha permesso di scoprire il lavoro artigianale dietro armi, elmi e oggetti scenici, rivelando la complessità della costruzione dei personaggi.
La musica ha attraversato generazioni e stili. La Battle of the Bands ha offerto uno spazio alle band emergenti, mentre le icone delle sigle tv, Giorgio Vanni e Cristina D’Avena, hanno trasformato l’Oval in un grande palco popolare, richiamando migliaia di fan. Non è mancato il K-pop, con workshop, esibizioni e karaoke coreano, che ha coinvolto i più giovani in una dimensione interattiva e partecipativa. La manifestazione ha integrato anche dimensioni educative e culturali. Il Dipartimento di Matematica dell’Università di Torino ha esplorato il ruolo della matematica nei fumetti, mostrando come concetti scientifici possano dialogare con la narrazione visiva. Lo chef Carlo Mele, alias Ojisan, ha illustrato la relazione tra cibo e animazione giapponese, trasformando piatti iconici degli anime in esperienze reali. Il pubblico ha potuto immergersi nella magia del Villaggio di Natale, quest’anno allestito nella Casa del Grinch, tra laboratori creativi, truccabimbi e la Christmas Elf Dance, mentre l’area games e l’area videogames hanno offerto tornei, postazioni libere e spazi dedicati a giochi indipendenti, modellismo e miniature, garantendo una partecipazione attiva e immersiva a tutte le età.
Con 28.000 visitatori in due giorni, Xmas Comics & Games conferma la propria crescita come festival della cultura pop, capace di unire creatività, spettacolo e narrazione, senza dimenticare la componente sociale e educativa. Tra fumetti, cosplay, musica e gioco, Torino è diventata il punto d’incontro per chi vuole vivere in prima persona il racconto pop contemporaneo, dove ogni linguaggio si intreccia e dialoga con gli altri, trasformando la fiera in una grande esperienza culturale condivisa.
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