2022-01-23
In 10 anni dati 85 miliardi al green. Aziende italiane bastonate due volte
Le imprese tricolore doppiamente penalizzate: hanno contribuito a tenere in piedi il mercato delle fonti «pulite» con gli oneri di sistema, adesso lo faranno pagando le bollette più della concorrenza estera.Tra il 2010 e il 2020 in Italia sono stati investiti ben 85 miliardi di euro in energia rinnovabile. Più di noi hanno fatto Usa e Cina, Germania e Gran Bretagna. La Francia, per fare un paragone più vicino a noi, ha speso nello stesso lasso di tempo soltanto la metà. Tutta questa montagna di euro è stata sovvenzionata dalle tasche degli italiani in termini di denaro pubblico, ma soprattutto in termini di bollette. Uno dei motivi per i quali da noi l’energia elettrica costa mediamente il 25% rispetto agli altri Stati europei sta nel fatto che, a partire dal 2018, nelle bollette vengono inseriti oltre 11 miliardi di oneri di sistema di incentivazione. Grazie a questa enorme partita di giro, l’Italia è il settimo Paese al mondo nella classifica sugli investimenti per le rinnovabili. Stando ai diktat e alle scelte dell’Ue dovremmo ritrovarci in piazza a stappare champagne o prosecco. Siamo stati i più virtuosi. Nessuno però si era preso la briga di spiegare agli italiani che arrivare primi in questa gara significa anche vincere lo scettro fatto del binomio ambiente-povertà. Così in queste settimane drammatiche, mentre il mondo soffre la crisi strutturale dell’energia, i colli di bottiglia della logistica e l’insistenza Ue nel bannare gas e nucleare, le aziende tricolore si trovano doppiamente penalizzate. Per anni hanno contribuito a tenere in piedi il mercato delle rinnovabili attraverso gli oneri di sistema, mentre da qui in avanti lo faranno pagando dieci volte tanto la bolletta. È chiaro che l’energia rinnovabile o è sussidiata o è carissima. A tale tempesta si aggiunge però la perfezione del dramma. Mentre spargevamo soldi per i pannelli solari o l’eolico abbiamo progressivamente rinunciato alla nostra sovranità energetica. Colpa del Pd, dei grillini soprattutto, ma anche del centrodestra che non ha mai voluto toccare palla sull’elemento più importante della sovranità di un Paese. Abbiamo chiuso i rigassificatori. Abbiamo perso terreno in Libia, in Egitto e nelle altre nazioni dove l’Eni dominava. Adesso che il muro è arrivato a pochi centimetri dal nostro naso, ci tocca assistere al decreto Sostegni ter. Dentro ci sono 1,7 miliardi di incentivi contro il caro bollette. Si aggiungono ai 3,3 stanziati dentro la manovra. Nel complesso coprono meno del 10% degli aumenti dell’energia registrati a partire da novembre. Un nulla. Tanto più che si tratterà di intervenire con una sorta di maquillage fiscale sia sugli oneri che su altre partite. Senza alcun intervento strutturale. La speranza del governo è che si tratti di una fiammata temporanea e poi tutto tornerà come prima. Invece, il mondo è cambiato. Finché l’acqua è alta non si vedono le imperfezioni del fondo marino. Quando cala il livello e ci sono meno soldi che circolano, allora in nodi vengono al pettine. Inoltre, la globalizzazione è arrivata a un giro di boa definitivo. Inutile sperare che l’inflazione e il caro energia siano temporanei. Anche perché gli altri Paesi si stanno attrezzando diversamente. La Francia, che certamente sa proteggere le proprie aziende, è quella che ha investito meno in rinnovabili e mantenuto l’impianto nucleare, anche grazie alle ex colonie. Il risultato nel 2022 e nel 2023 è che a parità di settore le nostre imprese che esportano saranno svantaggiate rispetto alle concorrenti. Le stime diffuse ieri dal centro studi di Confindustria dimostrano la drammaticità del momento e al tempo stesso il ritardo con cui i vertici dell’associazione hanno compreso il rischio contro cui l’Italia si stava imbattendo. Lo scenario è decisamente meno roseo di quanto previsto inizialmente: l’indice Pmi, Purchasing Managers Index, misura lo stato di salute delle aziende ed è sceso al 62 dal 62,8; gli ordini reggono a fatica. Il costo insostenibile del gas (+723% a dicembre sul pre-crisi) e dell’elettricità, sommandosi ai rincari degli altri input, sta causando chiusure di imprese nei settori energivori. L’impatto sulla produzione industriale, prevede viale dell’Astronomia, sarà registrato tra dicembre e gennaio (dopo il +0,7% medio a ottobre-novembre). Infine c’è il tema inflazione su cui perfino Confindustria apre al dubbio. Da un lato riporta riporta la tesi di Fmi e della Bce. Se si avvereranno le attese di parziale flessione dei prezzi energetici, sarebbe confermato lo scenario di rientro dell’inflazione, sui valori pre-Covid, nonostante la dinamica possa continuare a crescere nel breve termine. Al calo contribuirebbe la perdurante debolezza della domanda; il risparmio accumulato, che potenzialmente potrebbe affluire sui consumi, difficilmente verrà speso a breve, a causa della fiducia ridotta. «Viceversa», si legge sempre nella nota, «le attuali pressioni sui costi e i nodi nelle catene del valore potrebbero in parte trasmettersi ai prezzi dei beni nel 2022. Insieme alla spinta ai prezzi implicita in alcuni processi in atto (transizione ecologica, Pnrr), ciò potrebbe condurre a un’inflazione core strutturalmente più elevata». In pratica scrive, seppur con toni pacati, che anche comprimendo i consumi non se ne uscirà a breve. La Verità affronta il tema da tempo. Cercando di spiegare quanto la sovranità energetica sia fondamentale per il futuro. La componente energetica rischia di essere la zavorra più pesante per le aziende e la tomba della nostra ripresa economica. Gli interessi di Bruxelles e di Roma su questo non sono mai stati così divergenti.
Il primo ministro del Pakistan Shehbaz Sharif e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (Getty Images)
Riyadh e Islamabad hanno firmato un patto di difesa reciproca, che include anche la deterrenza nucleare pakistana. L’intesa rafforza la cooperazione militare e ridefinisce gli equilibri regionali dopo l’attacco israeliano a Doha.
Emanuele Orsini e Dario Scannapieco