2021-06-22
Impossibile espellere perfino i delinquenti
Il clandestino fermato a Termini armato di coltello non può essere rimpatriato: la sua nazionalità è incerta. L'africano è sbarcato qui nel 2016: da allora ha devastato quattro chiese, aggredito agenti e fatto proselitismo per la jihad. Ma resterà comunque in Italia. Ma che cosa bisogna fare per essere espulsi da questo disgraziato Paese? Immaginiamo il tormento di Ahmed Ibrhaim, 44 anni, clandestino, entrato irregolarmente in Italia ormai da diversi anni, una sfilza di segnalazioni alle forze dell'ordine da far paura, soggetto socialmente pericoloso, delinquente abituale, tossico, senza fissa dimora, accoltellatore, violento: in queste ore lo stiamo amorevolmente curando, ovviamente a spese nostre, al Policlinico Umberto I di Roma, dopo un incontro ravvicinato con una pallottola sparata alla stazione Termini da un agente che ha avuto la saggia idea di non farsi tagliare la gola. Le cronache ci informano che Ahmed Ibrahim «dovrà rispondere» (rispondere? Ma a chi? E come?) di «tentato omicidio, porto abusivo d'arma, resistenza e minaccia a pubblico ufficiale, ma non potrà essere espulso». Ancora una volta. Non potrà. Proprio così. Del resto si capisce: perché espellerlo? Perché lasciarsi scappare una simile risorsa? Teniamocelo stretto. E guai a chi ce lo tocca. Sono anni infatti che mister Ahmed Ibrhaim ce lo teniamo stretto. Per la verità lui, prima di cominciare a fare il pazzo alla stazione Termini di Roma scatenando il panico fra folla con un grosso coltello in mano, ci aveva provato varie volte a farsi cacciare dal nostro Paese. Ma noi niente. Irremovibili. Ahmed non si tocca. Fa un reato? Chiudi un occhio. Ne fa un altro? Chiudili tutti e due. A un certo punto hanno scoperto pure che era un jihadista e faceva proselitismo per la guerra santa. Qualcuno ha fatto qualcosa? Macché. Niente. E infatti lui domenica era ancora lì. A girare per Roma con lo scopo di far del male ai cristiani. Sempre nel pieno rispetto della nostra politica dei flussi migratori, basata sul noto principio: fuori i giovani italiani con il cervello, dentro i clandestini stranieri con il coltello. Le prime notizie di reato che riguardano Ahmed risalgono addirittura al 2016. Cinque anni fa. Il suo gesto non passò del tutto inosservato dal momento che, dopo essere arrivato in Italia in modo del tutto clandestino, pensò bene di ringraziare il Paese che lo aveva generosamente accolto andando in giro a devastare chiese. Ne profanò ben quattro, nel centro storico di Roma, come ricordava ieri il Tempo: San Martino ai Monti, la Basilica in Santa Prassede, la chiesa di San Vitale e San Giovanni de Fiorentini. Distrusse candelabri e crocifissi. E se la prese in modo particolare con le immagini della Sacra Famiglia, giudicandole «non rispettose». Roba che sarebbe stata sufficiente, in un Paese normale, a prenderlo per la collottola e sbatterlo fuori dai confini nazionali. Invece niente. L'abbiamo perdonato. Sempre generosamente. E sperando che, per lo meno, capisse il significato della parola «rispettoso». E infatti eccolo, subito dopo, in piazza San Pietro, a dimostrarci quanto avesse davvero capito. Non soddisfatto delle lezioni di «rispetto» alla Sacra Famiglia, ha deciso infatti di dare lezioni di «rispetto» direttamente al Papa: s'è fatto notare in Vaticano mentre dava in escandescenze in mezzo alla folla e se la prendeva con i poliziotti che cercavano di fermarlo. «Questa volta l'ho fatta grossa: mi cacceranno», avrà pensato. Invece niente. L'abbiamo lasciato ancora libero. Allora lui ha perfezionato il corso di rispetto e s'è presentato dai poliziotti con un punteruolo e ha provato ad ammazzarli. «Ok, ci siamo, mi buttano fuori», s'è illuso. E invece noi niente, ostinati più di un mulo, rispetto dopo rispetto, non ci abbiamo pensato nemmeno un attimo a fermarlo. Che cosa poteva fare ancora poveretto? Non trovando di meglio ha provato ad aggredire alcuni suoi correligionari del centro islamico di San Vito, colpevoli evidentemente di non aver ancora distrutto né chiese né crocifissi («ma come si permettono questi pappamolla?»). Li ha colpiti a bottigliate e li ha feriti, guadagnandosi una ulteriore denuncia per danneggiamento e lesioni. Ma poi gli hanno dato una pacca sulle spalle e via, l'hanno lasciato ancora libero di circolare, coltellaccio alla mano, fra la folla della stazione. Dove, per l'appunto, l'abbiamo ritrovato domenica mentre stava affinando il master del rispetto. E ora ce lo immaginiamo, il disgraziato, ricoverato al Policlinico, costretto a farsi mantenere dal nostro Servizio sanitario nazionale, senza la soddisfazione di un'espulsione che sia una. Dopo una carriera criminale di questo genere, c'è di che rimanere delusi. Ora immagino che qualcuno si chiederà: ma com'è possibile? E la risposta è ancora più assurda di questo racconto. Il fatto è che di Ahmed Ibrahim ormai sappiamo praticamente tutto, ma non sappiamo ancora di che nazionalità sia. Potrebbe essere del Ghana. Ma forse anche della Costa d'Avorio. O forse chissà. Nessuno dei Paesi dove le procedure di riconoscimento sono state avviate, le ha concluse. Dunque di fatto Ibrahim non si può rimpatriare perché non sapremmo dove rimpatriarlo. È il risultato che si ottiene a far entrare nel nostro Paese masse di clandestini. Una volta che sono qui ce li teniamo. Soprattutto i delinquenti, pazzi, jihadisti e socialmente pericolosi. E chi se li piglia più quelli? Fra l'altro, proprio ieri mattina il garante delle persone private della libertà personale (ex garante dei detenuti), Mauro Palma, ha detto che siccome i rimpatri sono troppo pochi, bisogna evitare di rinchiudere nei centri per l'espulsione quelli che aspettano di essere rimpatriati. «La privazione della libertà è illegittima», ha solennemente dichiarato nella sua relazione alla Camera. Il che chiude perfettamente il cerchio: se tu sei un clandestino violento non puoi essere rimpatriato, ma se non puoi essere rimpatriato non puoi nemmeno essere rinchiuso. Ergo, devi essere lasciato libero di andare in giro con un'arma in mano a seminare il panico tra la folla, minacciando di tagliare la gola al primo che passa. Ricordiamocene la prossima volta che magari c'è un poliziotto meno sveglio e capace di quello che ha sparato ieri a Termini, e la giornata finisce in tragedia. Ricordiamocene perché dieci a uno scommetto che ci sarà qualcuno che dirà che è colpa del nostro razzismo.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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