2022-05-29
Il viaggio di Salvini diventa un caso. «Se creo divisioni resto con i figli»
L’ipotesi di una missione del leader leghista in Russia agita la politica. Luigi Di Maio lo gela: «Con il presidente russo ci parla Draghi». Critica pure Giorgia Meloni. L’ex ministro dell’Interno tentenna: «Vediamo se ci sono le condizioni».Emmanuel Macron e Olaf Scholz in pressing su Vladimir Putin. Telefonata di 80 minuti tra gli statisti: «Abbiamo chiesto negoziati diretti e seri». Ma il Cremlino insiste: «Le armi all’Ucraina creano ulteriore destabilizzazione». Lo speciale comprende due articoli.Fino a ieri pomeriggio Matteo Salvini, a quanto risulta alla Verità da fonti di governo, non aveva comunicato né confermato a Palazzo Chigi la volontà di andare a Mosca per interloquire con non meglio precisati esponenti del governo russo. Considerato che fonti del Carroccio hanno fatto sapere che «al momento si parla di una possibilità, qualora l’eventualità diventasse più concreta, Matteo Salvini informerà il presidente Mario Draghi e ne parlerà con i vertici della Lega», possiamo trarre la conclusione che almeno per il momento questo viaggio è destinato a restare una pura ipotesi. Nessuna comunicazione in merito, del resto, è arrivata neanche al ministero degli Esteri: «Non sono stato informato», spiega Luigi Di Maio, ospite del forum «In Masseria» a Manduria, «il governo italiano non sapeva di questa intenzione, quanto passi fra intenzione e ciò che accadrà non lo so, fatto sta che queste vicende richiedono ulteriore responsabilità, in un momento così delicato è la postura del Paese che viene rappresentata. Con Putin ci parla Draghi», aggiunge Di Maio, «consiglio molta prudenza. Andare a Mosca è una cosa complicata. Ognuno di noi quando fa un’azione del genere rappresenta tutto il Paese». «Non commento ipotesi di viaggi anche abbastanza improbabili, quindi non faccio nessun commento», dichiara al Tg3 il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. In linea puramente teorica, ci spiegano persone informate dei fatti, a Salvini basterebbe il visto d’ingresso (che ha ottenuto) per volare a Mosca, mentre per recarsi in Ucraina la procedura è molto più complicata, poiché i servizi segreti devono attivarsi per garantire la sicurezza del protagonista dell’iniziativa e del suo staff. Dal punto di vista politico, invece, sarebbe inappropriato che il leader di un partito di maggioranza si assumesse la responsabilità di intavolare trattative con emissari di Vladimir Putin all’insaputa del governo. «Il minimo», ci dice una fonte autorevole, «sarebbe coordinarsi con la presidenza del Consiglio». «Dopo un lavoro di settimane e a tutti i livelli», ha scritto venerdì sera Salvini nella chat whatsapp della Lega, «ed ormai entrati nel quarto mese di guerra, si sta aprendo la possibilità di incontrare, per parlare di cessate il fuoco, forniture di grano e ritorno al dialogo, rappresentanti dei governi di Russia e Turchia, nonché rappresentanti di altri governi e istituzioni internazionali. Qualora la possibilità si facesse concreta», ha aggiunto Salvini, «nelle prossime ore ne parlerò direttamente coi vertici del movimento e delle istituzioni». Ieri Salvini è tornato sull’argomento: «Vedremo se sarà tecnicamente possibile adesso o più avanti. Si fa se serve», precisa Salvini a Rai Radio1, «chiunque possa portare un mattoncino che ricostruisca la casa della pace e del dialogo dovrebbe poterlo fare. Io sono piccolissimo, non vado a nome del governo. È evidente, ma vado rappresentando il sentimento della maggioranza degli italiani. Certezze di ascolto nessuno ne ha. Potrei starmene a casa il 2 giugno come faranno in molti. Se il 2 giugno possa essere la data giusta per il viaggio a Mosca? Non dipende da me», argomenta Salvini, «se dovessi riuscire a incontrare Putin gli chiederei, anzitutto, il cessate il fuoco. Incontrerei anche Zelensky. Ci andrei volentieri a Kiev. È una possibilità verso la pace. Bisogna fare di tutto per riportare a un tavolo chi sta combattendo e fermare l’allargarsi del conflitto. Significa salvare vite in Ucraina e salvare posti di lavoro in Italia. Vedremo. D’altronde, io non mi rassegno alla guerra prolungata per settimane, mesi e anni e cerco e cercherò di fare di tutto per fermarla questa guerra. Se poi darò il mio piccolo contributo da Milano, da Roma, da Washington», sottolinea Salvini, «da Mosca, da Pechino, da chissà dove, spero di essere utile. La pace dovrebbe essere patrimonio di tutti. Mi spiace che ci sia qualcuno, soprattutto del Pd, che polemizza». Critico il commento di Giorgia Meloni: «Il viaggio di Salvini a Mosca? Non ne conosco i contenuti», dice la leader di Fratelli d’Italia, «dovrei capirne i contorni, immagino che se fa una scelta del genere ne abbia parlato con il governo del quale fa parte. L’unica cosa sulla quale bisogna fare molta attenzione è non dare segnali di crepe nel fronte, abbiamo in questa fase bisogno di una postura solida dell’Occidente». Va all’attacco il segretario del Pd, Enrico Letta: «Anche in queste ore», dice Letta, «vedo come viene accolta l’ennesima e ultima boutade di Salvini: viene derubricata a folklore. Credo sia il modo di fare sbagliato rispetto al momento e ai tempi drammatici. Non è con il folklore, ma con la serietà che si risolvono le cose. Con i governi parlano i governi. Che si discuta di una visita di Salvini a Mosca», aggiunge Letta, «rende l’idea del livello a cui siamo arrivati». Le critiche, comunque, sembrano aver colpito nel segno. Ieri, nel tardo pomeriggio, Salvini è tornato a parlare della vicenda: «Sono a Roma, poi valuterò, viste le reazioni isteriche soprattutto della sinistra: avere insulti, minacce e attacchi per una missione di pace fa riflettere. Se devo creare divisioni sto con i miei figli», ha detto il segretario della Lega. «Non essendo un viaggio di piacere, ma un viaggio in una zona di guerra, se si aggiunge il coro di sottofondo di Letta, Meloni, Renzi, Calenda e degli intellettuali radical chic che preferiscono le armi e il conflitto, vediamo se ci sono le condizioni: per la pace sono disposto a tutto, a incontrare tutti». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-viaggio-di-salvini-diventa-un-caso-se-creo-divisioni-resto-con-i-figli-2657406767.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="macron-e-scholz-in-pressing-su-putin" data-post-id="2657406767" data-published-at="1653763533" data-use-pagination="False"> Macron e Scholz in pressing su Putin La linea telefonica sull’asse Parigi-Berlino-Mosca continua a essere calda anche se, fin qui, all’intensità dei contatti non sono corrisposti altrettanti risultati diplomatici concreti. Ieri Vladimir Putin, Emmanuel Macron e Olaf Scholz hanno avuto un nuovo colloquio. Nella conversazione, durata 80 minuti, è stato affrontato il tema del blocco del grano, con una promessa del presidente russo di «accordare un accesso delle navi al porto» di Odessa «per l’esportazione di cereali senza che esso sia utilizzato militarmente dalla Russia» se il porto stesso «sarà stato in precedenza sminato». Putin ha tuttavia posto ancora l’accento sulla fornitura di armi a Kiev che «rischia di creare una ulteriore destabilizzazione, un ulteriore peggioramento della situazione e un aggravamento della crisi umanitaria». Il governo tedesco ha reso noto che sia il cancelliere che il presidente francese hanno chiesto al presidente russo «negoziati diretti e seri» con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Nella telefonata con il presidente russo, come ha precisato l’Eliseo, i due leader europei hanno «insistito sul fatto che qualsiasi soluzione alla guerra deve essere negoziata fra Mosca e Kiev, nel rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina». Macron e Scholz «hanno ribadito l’esigenza di un cessate il fuoco». Il capo del Cremlino, dal canto suo, ha assicurato che «la Russia è pronta a riprendere il dialogo con l’Ucraina». Ha tuttavia fatto presente che il negoziato «è congelato per colpa di Kiev». Scholz e Macron hanno inoltre chiesto a Putin di liberare i 2.500 combattenti ucraini catturati nell’acciaieria Azovstal di Mariupol. Non è chiaro che garanzie abbia dato Putin in questo senso, ma la liberazione dei soldati non sembrerebbe in cima alle preoccupazioni del Cremlino, anche perché Mosca parrebbe interessata a portare quei militari alla sbarra in uno spettacolare processo per crimini di guerra, una sorta di nuova Norimberga, che ovviamente costituirebbe anche una fantastica tribuna propagandistica per il governo russo. «Stiamo progettando di organizzare un tribunale internazionale sul territorio della repubblica», ha affermato in questi giorni Denis Pushilin, il leader di un territorio controllato dalla Russia nella regione di Donetsk. Tornando al colloquio di ieri con Scholz e Macron, il presidente russo ha comunque rassicurato gli interlocutori che le forze russe sono impegnate «a ristabilire la pace» a Mariupol e nelle altre «città liberate» del Donbass. Inoltre Putin ha affermato che le forze russe «osservano strettamente le norme del diritto umanitario internazionale». Le triangolazioni tra Parigi, Berlino e Mosca, come detto, sono state frequenti in questi mesi, anche nei momenti di più alta tensione militare e diplomatica. Su quell’asse esiste del resto un consolidato canale diplomatico che risale almeno ai tempi della guerra in Iraq, quando Putin, Jacques Chirac e Gerhard Schröder incarnarono la principale opposizione politica alla guerra di George W. Bush. Finora, tuttavia, i colloqui non sono mai andati oltre generiche raccomandazioni e promesse. Anche perché è forte l’impressione che Putin voglia avere definitivamente in mano la vittoria militare, lasciando le vere trattative per il momento in cui potrà arrivare al tavolo con i confini dell’Ucraina già stravolti dagli eventi bellici.
Un appuntamento che, nelle parole del governatore, non è solo sportivo ma anche simbolico: «Come Lombardia abbiamo fortemente voluto le Olimpiadi – ha detto – perché rappresentano una vetrina mondiale straordinaria, capace di lasciare al territorio eredità fondamentali in termini di infrastrutture, servizi e impatto culturale».
Fontana ha voluto sottolineare come l’esperienza olimpica incarni a pieno il “modello Lombardia”, fondato sulla collaborazione tra pubblico e privato e sulla capacità di trasformare le idee in progetti concreti. «I Giochi – ha spiegato – sono un esempio di questo modello di sviluppo, che parte dall’ascolto dei territori e si traduce in risultati tangibili, grazie al pragmatismo che da sempre contraddistingue la nostra regione».
Investimenti e connessioni per i territori
Secondo il presidente, l’evento rappresenta un volano per rafforzare processi già in corso: «Le Olimpiadi invernali sono l’occasione per accelerare investimenti che migliorano le connessioni con le aree montane e l’area metropolitana milanese».
Fontana ha ricordato che l’80% delle opere è già avviato, e che Milano-Cortina 2026 «sarà un laboratorio di metodo per programmare, investire e amministrare», con l’obiettivo di «rispondere ai bisogni delle comunità» e garantire «risultati duraturi e non temporanei».
Un’occasione per il turismo e il Made in Italy
Ampio spazio anche al tema dell’attrattività turistica. L’appuntamento olimpico, ha spiegato Fontana, sarà «un’occasione per mostrare al mondo le bellezze della Lombardia». Le stime parlano di 3 milioni di pernottamenti aggiuntivi nei mesi di febbraio e marzo 2026, un incremento del 50% rispetto ai livelli registrati nel biennio 2024-2025. Crescerà anche la quota di turisti stranieri, che dovrebbe passare dal 60 al 75% del totale.
Per il governatore, si tratta di una «straordinaria opportunità per le eccellenze del Made in Italy lombardo, che potranno presentarsi sulla scena internazionale in una vetrina irripetibile».
Una Smart Land per i cittadini
Fontana ha infine richiamato il valore dell’eredità olimpica, destinata a superare l’evento sportivo: «Questo percorso valorizza il dialogo tra istituzioni e la governance condivisa tra pubblico e privato, tra montagna e metropoli. La Lombardia è una Smart Land, capace di unire visione strategica e prossimità alle persone».
E ha concluso con una promessa: «Andiamo avanti nella sfida di progettare, coordinare e realizzare, sempre pensando al bene dei cittadini lombardi».
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Francesco Zambon (Getty Images)
La deposizione in mare della corona nell'esatto luogo della tragedia del 9 novembre 1971 (Esercito Italiano)
Quarantasei giovani parà della «Folgore» inghiottiti dalle acque del mar Tirreno. E con loro sei aviatori della Royal Air Force, altrettanto giovani. La sciagura aerea del 9 novembre 1971 fece così impressione che il Corriere della Sera uscì il giorno successivo con un corsivo di Dino Buzzati. Il grande giornalista e scrittore vergò alcune frasi di estrema efficacia, sconvolto da quello che fino ad oggi risulta essere il più grave incidente aereo per le Forze Armate italiane. Alle sue parole incisive e commosse lasciamo l’introduzione alla storia di una catastrofe di oltre mezzo secolo fa.
(…) Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola? E così dà fastidio la difesa della medesima Patria e tutto ciò che vi appartiene, compresi i ragazzi che indossano l’uniforme militare? (…). Buzzati lamentava la scarsa commozione degli Italiani nei confronti della morte di giovani paracadutisti, paragonandola all’eco che ebbe una tragedia del 1947 avvenuta ad Albenga in cui 43 bambini di una colonia erano morti annegati. Forti le sue parole a chiusura del pezzo: (…) Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari piccoli di Albenga. Non si disperano, non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano. Diritti, pallidi sì ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato (…)
Non li hanno dimenticati, a oltre mezzo secolo di distanza, gli uomini della Folgore di oggi, che hanno commemorato i caduti di quella che è nota come la «tragedia della Meloria» con una cerimonia che ha coinvolto, oltre alle autorità, anche i parenti delle vittime.
La commemorazione si è conclusa con la deposizione di una corona in mare, nel punto esatto del tragico impatto, effettuata a bordo di un battello in segno di eterno ricordo e di continuità tra passato e presente.
Nelle prime ore del 9 novembre 1971, i parà del 187° Reggimento Folgore si imbarcarono sui Lockheed C-130 della Raf per partecipare ad una missione di addestramento Nato, dove avrebbero dovuto effettuare un «lancio tattico» sulla Sardegna. La tragedia si consumò poco dopo il decollo dall’aeroporto militare di Pisa-San Giusto, da dove in sequenza si stavano alzando 10 velivoli denominati convenzionalmente «Gesso». Fu uno di essi, «Gesso 5» a lanciare l’allarme dopo avere visto una fiammata sulla superficie del mare. L’aereo che lo precedeva, «Gesso 4» non rispose alla chiamata radio poiché istanti prima aveva impattato sulle acque a poca distanza dalle Secche della Meloria, circa 6 km a Nordovest di Livorno. Le operazioni di recupero dei corpi furono difficili e lunghissime, durante le quali vi fu un’altra vittima, un esperto sabotatore subacqueo del «Col Moschin», deceduto durante le operazioni. Le cause della sciagura non furono mai esattamente definite, anche se le indagini furono molto approfondite e una nave pontone di recupero rimase sul posto fino al febbraio del 1972. Si ipotizzò che l’aereo avesse colpito con la coda la superficie del mare per un errore di quota che, per le caratteristiche dell’esercitazione, doveva rimanere inizialmente molto bassa.
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