2020-04-17
Il tiro al bersaglio sulla Lombardia fa ricomporre l’asse delle Regioni
Luca Zaia e Attilio Fontana (Ansa)
I giallorossi sparano su Attilio Fontana perché immagina di riaprire, mentre Roma dorme. Sulla linea del 4 maggio Sicilia, Piemonte, Friuli e Veneto. Zaia: «Forse anche prima» Il Pirellone: «Settimana lavorativa di 7 giorni».«Dagli all'untore!». Anzi, alla Regione. Ancora una volta, da parte di un governo centrale tentennante e in perenne ritardo, lo schema si ripete: non fare e non far fare, e anzi aggredire le regioni che provino a muoversi con maggiore tempestività. Sia quando si è trattato di chiudere (superando le esitazioni di Giuseppe Conte), sia ora che si tratta di organizzare una cauta riapertura (facendo i conti con il clamoroso ritardo di preparazione da parte del governo). I fatti, intanto. I governatori devono confrontarsi con una circostanza oggettiva: il lockdown nazionale scade il 3 maggio. In mancanza di indicazioni, è preciso dovere degli amministratori regionali pianificare quel che dovrà accadere dal 4. E questo è ciò che l'altra sera ha sostanzialmente detto Attilio Fontana, evocando l'obiettivo di una «nuova normalità»: «La riapertura delle attività produttive in Lombardia dal 4 maggio con distanza di sicurezza tra le persone e l'obbligo di mascherine sarà accompagnata da un piano per riaprire in orario scaglionato uffici e aziende e, successivamente, scuole e università«. E ancora: «Dal 4, la Regione chiederà al governo di dare il via libera alle attività produttive nel rispetto delle “quattro D". Ovvero Distanza (un metro di sicurezza), Dispositivi (obbligo di mascherina), Digitalizzazione (smartworking ove possibile) e Diagnosi, visto che dal 21 aprile inizieranno i test sierologici». Come si vede, nulla di sovversivo, ma affermazioni in linea con l'obiettivo preannunciato dal governo di una ripartenza dopo il 3. Fanno fede il verbo «chiedere» («la Regione chiederà al governo») e un'ulteriore precisazione serale di Fontana per dissipare equivoci. Ciononostante, apriti cielo. Bombardamento mediatico contro la presunta volontà di «secessione» (si è letto anche questo) e immediato cannoneggiamento giallorosso, aperto dalla prodianissima sottosegretaria Sandra Zampa ieri a Radio Capital: «Se la Lombardia decidesse di riaprire dal 4, il governo potrebbe impugnare il provvedimento: esiste la possibilità di avocare dei poteri utilizzando un articolo della Costituzione». Curiosa scoperta, quella dell'articolo 120 della Costituzione, che consente al governo di sostituirsi alle Regioni in caso di inadempienza. Peccato che qui la situazione sia più o meno inversa: quella di Regioni costrette a fare i conti con l'inerzia e la melina del governo nazionale. Ieri Fontana è tornato sull'argomento: «Per giorni ci hanno raccontato, anche dal governo, che la Lombardia doveva fare di più e da sola. Ora, dopo che la Regione ha lanciato una proposta per riaprire con attenzione e buonsenso, da Roma parlano addirittura di fughe in avanti. Non inseguiamo le polemiche ma badiamo alla sostanza: molti altri Paesi europei sono già ripartiti». Argomento inoppugnabile, quello del governatore leghista. Perché, mentre a Roma si discute, tutt'intorno a noi moltissimi altri paesi o non hanno mai chiuso o stanno riaprendo (in modo parziale o esteso): in ordine sparso, Germania, Olanda, Svizzera, Austria, Polonia, Repubblica Ceca, i Paesi scandinavi, la Spagna, e perfino la Francia con le scuole riaperte dall'11 maggio. Il presidente ha poi ipotizzato la possibilità di «spalmare la settimana lavorativa su sette giorni e non più su cinque» per calmierare gli ingressi nelle aziende. Inoltre ha svelato che, d'accodo con il ministro delle Autonomie Francesco Boccia, «sabato e domenica ci sarà la cabina di regia Stato-Regioni per le riaperture». A dar sostegno a Fontana è intervenuto il suo collega veneto Luca Zaia, con un annuncio altrettanto prudente ma chiaro: «Se ci sono i presupposti di natura sanitaria, dal 4 maggio o anche prima si può aprire. Dal 4 dobbiamo essere tutti pronti con dispositivi, regole, ovviamente negoziati con le parti sociali. A me risulta che questo lavoro si stia facendo a livello nazionale con questa prospettiva. Il vero tema oggi è tener tutto chiuso e morire in attesa che il virus se ne vada, oppure puntare alla convivenza».Così, a poco a poco, è giunta una pioggia di adesioni a questa linea, di fatto isolando Conte e il suo immobilismo. Ecco il governatore del Piemonte Alberto Cirio: «Abbiamo bisogno di ripartire e di farlo in sicurezza. Questo significa che dovremo imparare a convivere col coronavirus e con le misure necessarie a contenerlo». Ed ecco Ruggero Razza, assessore alla Salute in Sicilia: «Valutiamo l'ipotesi che lo stato propenda di andare oltre il 3 maggio, mentre la nostra posizione è che non si può andare oltre quella data». Sulla stessa linea anche Massimiliano Fedriga del Friuli-Venezia Giulia. Insomma, Conte non lo aspetta più nessuno. Né il governo nazionale ha avuto la prontezza e l'autorevolezza di convincere gli interlocutori regionali sul fatto che a Roma ci sia un progetto credibile. Ancora più surreale, e rivelatrice del retropensiero politico degli attacchi, è l'accusa di essersi fatti istigare da Matteo Salvini, che ieri ha dichiarato a Rtl: «Se la scuola riaprisse l′'11 maggio, io i miei figli li manderei, purché siano garantiti sanificazione, distanze e dispositivi di protezione». Tesi legittima e ragionevole, a meno che qualcuno non rispolveri contro Salvini i «reati di opinione», e contro i governatori leghisti che gli abbiano eventualmente parlato il «reato di telefonata». Fabrizio Starace, psichiatra e membro della task force di Vittorio Colao ha fatto sapere che «non importa il quando ma il come riaprire. Aperture scaglionate? Tutte le ipotesi saranno valutate».
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