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2020-10-22
Il prof Paty è stato venduto al boia per 300 euro da due alunni di 14 anni
Ansa
Sette persone dovranno comparire davanti ad giudice della procura antiterrorismo per aver ispirato o aiutato Abdoullakh Anzorov, l'assassino di Samuel Paty, a pianificarne l'atroce decapitazione. Nove altre sono state invece prosciolte da tutte le accuse. Alla luce delle informazioni fornite ieri, in conferenza stampa, dal capo della procura antiterrorismo, Jean-François Ricard, sembra chiaro che non si possa parlare dell'atto di un «lupo solitario» o di uno «squilibrato», come spesso è accaduto in occasione di altri attentati.
I sette sono accusati di «concorso in omicidio legato ad un'impresa terroristica», «concorso in tentato omicidio di una persona depositaria di pubblica autorità, legato ad una impresa terroristica» e «associazione terroristica per compiere crimini contro le persone». Basandosi sulle rivelazioni di Ricard, si possono raggruppare i sospetti in tre gruppi distinti. Il primo è quello dei complici logistici: le persone che, in un modo o nell'altro, hanno aiutato il boia ceceno Anzorov. Tra questi figurano due minori di 14 e 15 anni che frequentano la scuola media in cui lavorava il professore ammazzato. I ragazzini avrebbero ricevuto 300-350 euro dal terrorista, in cambio di un aiuto ad identificare Paty all'uscita della scuola. L'assassino avrebbe detto loro di voler «umiliare e picchiare» il professore obbligandolo a «chiedere perdono» per aver mostrato le caricature di Maometto pubblicate da Charlie Hebdo. Il procuratore ha sottolineato che l'identificazione fisica della vittima è stata resa possibile proprio dall'«intervento degli studenti». Per la prima volta, dunque, in Francia dei minori si trovano direttamente coinvolti nell'organizzazione di un attentato terroristico.
Gli altri tre individui accusati di complicità con il macellaio islamista - ha spiegato ancora Ricard - avrebbero avuto un ruolo di supporto nella preparazione dell'attentato. Del primo, si conoscono nome ed età: Azim E. 19 anni. Lui e il secondo sospetto sarebbero stati amici di Anzorov. Il giorno prima della mattanza, sarebbero andati con il boia ceceno in una coltelleria per acquistare l'arma e una pistola da softball, poi ritrovate sulla scena della decapitazione. Il secondo individuo, un diciottenne, avrebbe anche dato un passaggio in macchina al terrorista.
Due delle sette persone fermate, sono sospettate di aver avuto un ruolo da «mandanti». Si tratta di Brahim Chnina e di Abdelhakim Sefrioui. Il primo è il genitore di una studentessa della scuola in cui insegnava Paty e che, qualche giorno prima dell'assassinio, ha postato un video sul proprio profilo Facebook, nel quale attaccava il docente definendolo un «voyou», cioè un poco di buono. Il secondo è un imam autoproclamato, ben noto alle forze dell'ordine d'Oltralpe perché è un fiché S, significa che è schedato in quanto rappresenta una potenziale minaccia per la sicurezza nazionale. Di lui, il procuratore antiterrorismo ha ricordato la militanza pro Hamas. Ricard ha anche confermato definitivamente che, nei giorni precedenti al massacro del professore di storia, Chnina ha comunicato via whatsapp con Anzorov. Per il procuratore inoltre, il terrorista «si è ispirato direttamente ai messaggi di Chnina».
Il capo dei giudici antiterrorismo ha anche smentito la tesi sostenuta da Chnina sulla presunta esclusione della propria figlia, decisa da Paty, dalla lezione sulla libertà d'espressione. In effetti, la ragazzina non ha mai partecipato al corso su questa libertà fondamentale, tenuto dal docente ucciso.
E mentre a Parigi continuava l'indagine sulla decapitazione di Samuel Paty, a Brest, in Bretagna, la direzione generale della sicurezza interna (Dgsi) ha compiuto un'operazione antiterrorismo. Come riportato dal quotidiano locale Le Télégramme; lunedì sono state fermate sette persone. Tra di loro figurano vari schedati come potenziali minacce alla sicurezza nazionale ed sono noti perché vicini all'islamismo radicale. Gli inquirenti non hanno comunicato troppo sull'operazione ma, secondo il settimanale L'Express, il nome di Wahid B. figurerebbe tra quelli dei sospetti. L'uomo avrebbe tentato di raggiungere la Siria nel 2014. Il raid di Brest, avrebbe permesso di fermare anche un liceale sedicenne che, sempre per il settimanale, sarebbe il figlio di un commerciante della cittadina bretone, che per diversi anni è stato vicino all'ex imam di Brest, Rachid Eljav. Quest'ultimo, qualche anno fa, era balzato alle cronache per delle prediche come quella in cui affermava che i bambini che ascoltano musica si trasformerebbero «in scimmie o porci». Per L'Express, gli inquirenti sospettano i sette fermati di partecipare ad un progetto di un'azione violenta in Francia e ad un piano per raggiungere l'Iraq o la Siria.
Su Biden jr anche l’ombra sexgate
A quasi due settimane dalle presidenziali novembrine, non si placano le polemiche sul figlio di Joe Biden, Hunter. Secondo quanto riportato ieri da Fox News, l'Fbi risulterebbe attualmente in possesso del laptop in cui sarebbero contenute le email dedicate a suoi opachi affari in Cina e in Ucraina. Lo avrebbero riferito due funzionari dell'amministrazione americana. Alla base di tutto, gli scoop del New York Post, che hanno pubblicato documenti secondo cui l'attuale candidato dem, da vicepresidente, potrebbe essersi macchiato di conflitto di interessi proprio a causa di suo figlio.
Donald Trump sta continuando ad andare all'attacco. Non solo è tornato a definire ieri il rivale su Twitter un «politico corrotto», ma ha chiesto anche al ministro della Giustizia, Bill Barr, di aprire un'inchiesta sulla sua famiglia. Su tale fronte ha tuttavia gettato parzialmente acqua sul fuoco ieri il capo dello staff della Casa Bianca, Mark Meadows, lasciando intendere che un'indagine non sia al momento considerata una priorità dalle alte sfere dell'amministrazione. I democratici hanno frattanto replicato, sostenendo che le rivelazioni del Post nascerebbero da una manovra di disinformazione russa, approntata per danneggiare Biden. Una tesi che è stata tuttavia sconfessata non soltanto dal Director of National Intelligence John Ratcliffe, ma -stando quanto riferito ieri- anche dallo stesso Fbi. Sulla stessa linea si è tra l'altro collocato nelle scorse ore il Dipartimento di Giustizia.
In tutto questo, secondo l'avvocato di Trump ed ex sindaco di New York Rudy Giuliani, il laptop di Hunter conterrebbe prove di possibile maltrattamento di minori. In tal senso, lo stesso Giuliani ha presentato di recente una denuncia presso il dipartimento di polizia di Wilmington (in Delaware). Particolarmente irritata la reazione dell'ex vicepresidente, che ieri ha definito Giuliani uno «sgherro di Trump», non risparmiando critiche neppure al senatore repubblicano, Ron Johnson, che ha accusato Biden di conflitto di interessi. In questo quadro, un recentissimo sondaggio, condotto da Washington Examiner e YouGov, ha rilevato che secondo il 41% degli elettori registrati Biden sarebbe stato onesto sulle attività estere di suo figlio, mentre il 45% dei rispondenti si è espresso in modo opposto. È tra l'altro altamente probabile che la questione possa irrompere nel dibattito televisivo che stasera vedrà contrapposti i due candidati presidenziali a Nashville. In tutto ciò, The Hill ha comunque riferito che alcuni senatori repubblicani stiano esortando il presidente a concentrarsi maggiormente sulle questioni programmatiche, anziché sugli attacchi alla famiglia Biden.
Nel frattempo, il New York Times ha rivelato nelle scorse ore che l'inquilino della Casa Bianca abbia un conto corrente in Cina e che, tra il 2013 e il 2015, avrebbe pagato nella Repubblica Popolare quasi 190.000 dollari di tasse. Non si profilano al momento scenari di illegalità ma, si fa notare, la faccenda risulterebbe politicamente in contraddizione con le istanze dure che il presidente sta attualmente tenendo verso il dragone. Certo è che, in termini di rapporti opachi con la Cina, anche Biden non si fa mancare nulla. Non solo il viaggio ufficiale del 2013 da vicepresidente nella Repubblica Popolare, quando si portò dietro suo figlio. Ma anche le recenti rivelazioni del New York Post, secondo cui Hunter avrebbe cercato di concludere danarose intese con l'azienda cinese Cefc e avrebbe intrattenuto contatti con il suo presidente Ye Janming: controversa figura accusata di corruzione e, secondo il Financial Times, avente stretti legami con l'esercito della Repubblica Popolare. La campagna elettorale si fa intanto sempre più serrata, con Barack Obama che ieri è sceso in campo per Biden in Pennsylvania.
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La Procura anti terrorismo francese svela i dettagli dell'esecuzione islamica. Confermata la premeditazione ma soprattutto la collusione di alcuni genitori e studenti. Questi ultimi l'hanno indicato al killer dietro pagamento.Gli scandali del figlio inseguono il candidato democratico. Pure l'Fbi nega la mano russa dietro le mail. L'attacco di Giuliani: «Nel suo pc chat con ragazzine». Stasera il duello tvLo speciale contiene due articoliSette persone dovranno comparire davanti ad giudice della procura antiterrorismo per aver ispirato o aiutato Abdoullakh Anzorov, l'assassino di Samuel Paty, a pianificarne l'atroce decapitazione. Nove altre sono state invece prosciolte da tutte le accuse. Alla luce delle informazioni fornite ieri, in conferenza stampa, dal capo della procura antiterrorismo, Jean-François Ricard, sembra chiaro che non si possa parlare dell'atto di un «lupo solitario» o di uno «squilibrato», come spesso è accaduto in occasione di altri attentati.I sette sono accusati di «concorso in omicidio legato ad un'impresa terroristica», «concorso in tentato omicidio di una persona depositaria di pubblica autorità, legato ad una impresa terroristica» e «associazione terroristica per compiere crimini contro le persone». Basandosi sulle rivelazioni di Ricard, si possono raggruppare i sospetti in tre gruppi distinti. Il primo è quello dei complici logistici: le persone che, in un modo o nell'altro, hanno aiutato il boia ceceno Anzorov. Tra questi figurano due minori di 14 e 15 anni che frequentano la scuola media in cui lavorava il professore ammazzato. I ragazzini avrebbero ricevuto 300-350 euro dal terrorista, in cambio di un aiuto ad identificare Paty all'uscita della scuola. L'assassino avrebbe detto loro di voler «umiliare e picchiare» il professore obbligandolo a «chiedere perdono» per aver mostrato le caricature di Maometto pubblicate da Charlie Hebdo. Il procuratore ha sottolineato che l'identificazione fisica della vittima è stata resa possibile proprio dall'«intervento degli studenti». Per la prima volta, dunque, in Francia dei minori si trovano direttamente coinvolti nell'organizzazione di un attentato terroristico. Gli altri tre individui accusati di complicità con il macellaio islamista - ha spiegato ancora Ricard - avrebbero avuto un ruolo di supporto nella preparazione dell'attentato. Del primo, si conoscono nome ed età: Azim E. 19 anni. Lui e il secondo sospetto sarebbero stati amici di Anzorov. Il giorno prima della mattanza, sarebbero andati con il boia ceceno in una coltelleria per acquistare l'arma e una pistola da softball, poi ritrovate sulla scena della decapitazione. Il secondo individuo, un diciottenne, avrebbe anche dato un passaggio in macchina al terrorista.Due delle sette persone fermate, sono sospettate di aver avuto un ruolo da «mandanti». Si tratta di Brahim Chnina e di Abdelhakim Sefrioui. Il primo è il genitore di una studentessa della scuola in cui insegnava Paty e che, qualche giorno prima dell'assassinio, ha postato un video sul proprio profilo Facebook, nel quale attaccava il docente definendolo un «voyou», cioè un poco di buono. Il secondo è un imam autoproclamato, ben noto alle forze dell'ordine d'Oltralpe perché è un fiché S, significa che è schedato in quanto rappresenta una potenziale minaccia per la sicurezza nazionale. Di lui, il procuratore antiterrorismo ha ricordato la militanza pro Hamas. Ricard ha anche confermato definitivamente che, nei giorni precedenti al massacro del professore di storia, Chnina ha comunicato via whatsapp con Anzorov. Per il procuratore inoltre, il terrorista «si è ispirato direttamente ai messaggi di Chnina».Il capo dei giudici antiterrorismo ha anche smentito la tesi sostenuta da Chnina sulla presunta esclusione della propria figlia, decisa da Paty, dalla lezione sulla libertà d'espressione. In effetti, la ragazzina non ha mai partecipato al corso su questa libertà fondamentale, tenuto dal docente ucciso.E mentre a Parigi continuava l'indagine sulla decapitazione di Samuel Paty, a Brest, in Bretagna, la direzione generale della sicurezza interna (Dgsi) ha compiuto un'operazione antiterrorismo. Come riportato dal quotidiano locale Le Télégramme; lunedì sono state fermate sette persone. Tra di loro figurano vari schedati come potenziali minacce alla sicurezza nazionale ed sono noti perché vicini all'islamismo radicale. Gli inquirenti non hanno comunicato troppo sull'operazione ma, secondo il settimanale L'Express, il nome di Wahid B. figurerebbe tra quelli dei sospetti. L'uomo avrebbe tentato di raggiungere la Siria nel 2014. Il raid di Brest, avrebbe permesso di fermare anche un liceale sedicenne che, sempre per il settimanale, sarebbe il figlio di un commerciante della cittadina bretone, che per diversi anni è stato vicino all'ex imam di Brest, Rachid Eljav. Quest'ultimo, qualche anno fa, era balzato alle cronache per delle prediche come quella in cui affermava che i bambini che ascoltano musica si trasformerebbero «in scimmie o porci». Per L'Express, gli inquirenti sospettano i sette fermati di partecipare ad un progetto di un'azione violenta in Francia e ad un piano per raggiungere l'Iraq o la Siria.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-prof-paty-e-stato-venduto-al-boia-per-300-euro-da-due-alunni-di-14-anni-2648430044.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="su-biden-jr-anche-lombra-sexgate" data-post-id="2648430044" data-published-at="1603305217" data-use-pagination="False"> Su Biden jr anche l’ombra sexgate A quasi due settimane dalle presidenziali novembrine, non si placano le polemiche sul figlio di Joe Biden, Hunter. Secondo quanto riportato ieri da Fox News, l'Fbi risulterebbe attualmente in possesso del laptop in cui sarebbero contenute le email dedicate a suoi opachi affari in Cina e in Ucraina. Lo avrebbero riferito due funzionari dell'amministrazione americana. Alla base di tutto, gli scoop del New York Post, che hanno pubblicato documenti secondo cui l'attuale candidato dem, da vicepresidente, potrebbe essersi macchiato di conflitto di interessi proprio a causa di suo figlio. Donald Trump sta continuando ad andare all'attacco. Non solo è tornato a definire ieri il rivale su Twitter un «politico corrotto», ma ha chiesto anche al ministro della Giustizia, Bill Barr, di aprire un'inchiesta sulla sua famiglia. Su tale fronte ha tuttavia gettato parzialmente acqua sul fuoco ieri il capo dello staff della Casa Bianca, Mark Meadows, lasciando intendere che un'indagine non sia al momento considerata una priorità dalle alte sfere dell'amministrazione. I democratici hanno frattanto replicato, sostenendo che le rivelazioni del Post nascerebbero da una manovra di disinformazione russa, approntata per danneggiare Biden. Una tesi che è stata tuttavia sconfessata non soltanto dal Director of National Intelligence John Ratcliffe, ma -stando quanto riferito ieri- anche dallo stesso Fbi. Sulla stessa linea si è tra l'altro collocato nelle scorse ore il Dipartimento di Giustizia. In tutto questo, secondo l'avvocato di Trump ed ex sindaco di New York Rudy Giuliani, il laptop di Hunter conterrebbe prove di possibile maltrattamento di minori. In tal senso, lo stesso Giuliani ha presentato di recente una denuncia presso il dipartimento di polizia di Wilmington (in Delaware). Particolarmente irritata la reazione dell'ex vicepresidente, che ieri ha definito Giuliani uno «sgherro di Trump», non risparmiando critiche neppure al senatore repubblicano, Ron Johnson, che ha accusato Biden di conflitto di interessi. In questo quadro, un recentissimo sondaggio, condotto da Washington Examiner e YouGov, ha rilevato che secondo il 41% degli elettori registrati Biden sarebbe stato onesto sulle attività estere di suo figlio, mentre il 45% dei rispondenti si è espresso in modo opposto. È tra l'altro altamente probabile che la questione possa irrompere nel dibattito televisivo che stasera vedrà contrapposti i due candidati presidenziali a Nashville. In tutto ciò, The Hill ha comunque riferito che alcuni senatori repubblicani stiano esortando il presidente a concentrarsi maggiormente sulle questioni programmatiche, anziché sugli attacchi alla famiglia Biden. Nel frattempo, il New York Times ha rivelato nelle scorse ore che l'inquilino della Casa Bianca abbia un conto corrente in Cina e che, tra il 2013 e il 2015, avrebbe pagato nella Repubblica Popolare quasi 190.000 dollari di tasse. Non si profilano al momento scenari di illegalità ma, si fa notare, la faccenda risulterebbe politicamente in contraddizione con le istanze dure che il presidente sta attualmente tenendo verso il dragone. Certo è che, in termini di rapporti opachi con la Cina, anche Biden non si fa mancare nulla. Non solo il viaggio ufficiale del 2013 da vicepresidente nella Repubblica Popolare, quando si portò dietro suo figlio. Ma anche le recenti rivelazioni del New York Post, secondo cui Hunter avrebbe cercato di concludere danarose intese con l'azienda cinese Cefc e avrebbe intrattenuto contatti con il suo presidente Ye Janming: controversa figura accusata di corruzione e, secondo il Financial Times, avente stretti legami con l'esercito della Repubblica Popolare. La campagna elettorale si fa intanto sempre più serrata, con Barack Obama che ieri è sceso in campo per Biden in Pennsylvania.
Kaja Kallas (Ansa)
Kallas è il falco della Commissione, quando si tratta di Russia, e tiene a rimarcarlo. A proposito dei fondi russi depositati presso Euroclear, l’estone dice nell’intervista che il Belgio non deve temere una eventuale azione di responsabilità da parte della Russia, perché «se davvero la Russia ricorresse in tribunale per ottenere il rilascio di questi asset o per affermare che la decisione non è conforme al diritto internazionale, allora dovrebbe rivolgersi all’Ue, quindi tutti condivideremmo l’onere».
In pratica, cioè, l’interpretazione piuttosto avventurosa di Kallas è che tutti gli Stati membri sarebbero responsabili in solido con il Belgio se Mosca dovesse ottenere ragione da qualche tribunale sul sequestro e l’utilizzo dei suoi fondi.
Tribunale sui cui l’intervistata è scettica: «A quale tribunale si rivolgerebbe (Putin, ndr)? E quale tribunale deciderebbe, dopo le distruzioni causate in Ucraina, che i soldi debbano essere restituiti alla Russia senza che abbia pagato le riparazioni?». Qui l’alto rappresentante prefigura uno scenario, quello del pagamento delle riparazioni di guerra, che non ha molte chance di vedere realizzato.
All’intervistatore che chiede perché per finanziare la guerra non si usino gli eurobond, cioè un debito comune europeo, Kallas risponde: «Io ho sostenuto gli eurobond, ma c’è stato un chiaro blocco da parte dei Paesi Frugali, che hanno detto che non possono farlo approvare dai loro Parlamenti». È ovvio. La Germania e i suoi satelliti del Nord Europa non vogliano cedere su una questione sulla quale non hanno mai ceduto e per la quale, peraltro, occorre una modifica dei trattati su cui serve l’unanimità e la ratifica poi di tutti i parlamenti. Con il vento politico di destra che soffia in tutta Europa, con Afd oltre il 25% in Germania, è una opzione politicamente impraticabile. Dire eurobond significa gettare la palla in tribuna.
In merito all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea già nel 2027, come vorrebbe il piano di pace americano, Kallas se la cava con lunghe perifrasi evitando di prendere posizione. Secondo l’estone, l’adesione all’Ue è una questione di merito e devono decidere gli Stati membri. Ma nel piano questo punto è importante e sembra difficile che venga accantonato.
Kallas poi reclama a gran voce un posto per l’Unione al tavolo della pace: «Il piano deve essere tra Russia e Ucraina. E quando si tratta dell’architettura di sicurezza europea, noi dobbiamo avere voce in capitolo. I confini non possono essere cambiati con la forza. Non ci dovrebbero essere concessioni territoriali né riconoscimento dell’occupazione». Ma lo stesso Zelensky sembra ormai convinto che almeno un referendum sulla questione del Donbass sia possibile. Insomma, Kallas resta oltranzista ma i fatti l’hanno già superata.
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Carlo Messina all'inaugurazione dell'Anno Accademico della Luiss (Ansa)
La domanda è retorica, provocatoria e risuona in aula magna come un monito ad alzare lo sguardo, a non limitarsi a contare i droni e limare i mirini, perché la risposta è un’altra. «In Europa abbiamo più poveri e disuguaglianza di quelli che sono i rischi potenziali che derivano da una minaccia reale, e non percepita o teorica, di una guerra». Un discorso ecumenico, realistico, che evoca l’immagine dell’esercito più dolente e sfinito, quello di chi lotta per uscire dalla povertà. «Perché è vero che riguardo a welfare e democrazia non c’è al mondo luogo comparabile all’Europa, ma siamo deboli se investiamo sulla difesa e non contro la povertà e le disuguaglianze».
Le parole non scivolano via ma si fermano a suggerire riflessioni. Perché è importante che un finanziere - anzi colui che per il 2024 è stato premiato come banchiere europeo dell’anno - abbia un approccio sociale più solido e lungimirante delle istituzioni sovranazionali deputate. E lo dimostri proprio nelle settimane in cui sentiamo avvicinarsi i tamburi di Bruxelles con uscite guerrafondaie come «resisteremo più di Putin», «per la guerra non abbiamo fatto abbastanza» (Kaja Kallas, Alto rappresentante per la politica estera) o «se vogliamo evitare la guerra dobbiamo preparaci alla guerra», «dobbiamo produrre più armi, come abbiamo fatto con i vaccini» (Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea).
Una divergenza formidabile. La conferma plastica che l’Europa dei diritti, nella quale ogni minoranza possibile viene tutelata, si sta dimenticando di salvaguardare quelli dei cittadini comuni che alzandosi al mattino non hanno come priorità la misura dell’elmetto rispetto alla circonferenza cranica, ma il lavoro, la famiglia, il destino dei figli e la difesa dei valori primari. Il ceo di Banca Intesa ricorda che il suo gruppo ha destinato 1,5 miliardi per combattere la povertà, sottolinea che la grande forza del nostro Paese sta «nel formidabile mondo delle imprese e nel risparmio delle famiglie, senza eguali in Europa». E sprona le altre grandi aziende: «In Italia non possiamo aspettarci che faccia tutto il governo, se ci sono aziende che fanno utili potrebbero destinarne una parte per intervenire sulle disuguaglianze. Ogni azienda dovrebbe anche lavorare perché i salari vengano aumentati. Sono uno dei punti di debolezza del nostro Paese e aumentarli è una priorità strategica».
Con l’Europa Carlo Messina non ha finito. Parlando di imprenditoria e di catene di comando, coglie l’occasione per toccare in altro nervo scoperto, perfino più strutturale dell’innamoramento bellicista. «Se un’azienda fosse condotta con meccanismi di governance come quelli dell’Unione Europea fallirebbe». Un autentico missile Tomahawk diretto alla burocrazia continentale, a quei «nani di Zurigo» (copyright Woodrow Wilson) trasferitisi a Bruxelles. La spiegazione è evidente. «Per competere in un contesto globale serve un cambio di passo. Quella europea è una governance che non si vede in nessun Paese del mondo e in nessuna azienda. Perché è incapace di prendere decisioni rapide e quando le prende c’è lentezza nella realizzazione. Oppure non incidono realmente sulle cose che servono all’Europa».
Il banchiere è favorevole a un ministero dell’Economia unico e ritiene che il vincolo dell’unanimità debba essere tolto. «Abbiamo creato una banca centrale che gestisce la moneta di Paesi che devono decidere all’unanimità. Questo è uno degli aspetti drammatici». Ma per uno Stato sovrano che aderisce al club dei 27 è anche l’unica garanzia di non dover sottostare all’arroganza (già ampiamente sperimentata) di Francia e Germania, che trarrebbero vantaggi ancora più consistenti senza quel freno procedurale.
Il richiamo a efficienza e rapidità riguarda anche l’inadeguatezza del burosauro e riecheggia la famosa battuta di Franz Joseph Strauss: «I 10 comandamenti contengono 279 parole, la dichiarazione americana d’indipendenza 300, la disposizione Ue sull’importazione di caramelle esattamente 25.911». Un esempio di questa settimana. A causa della superfetazione di tavoli e di passaggi, l’accordo del Consiglio Affari interni Ue sui rimpatri dei migranti irregolari e sulla liceità degli hub in Paesi terzi (recepito anche dal Consiglio d’Europa) entrerà in vigore non fra 60 giorni o 6 mesi, ma se va bene fra un anno e mezzo. Campa cavallo.
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Luca Casarini. Nel riquadro, il manifesto abusivo comparso a Milano (Ansa)
Quando non è tra le onde, Casarini è nel mare di Internet, dove twitta. E pure parecchio. Dice la sua su qualsiasi cosa. Condivide i post dell’Osservatore romano e quelli di Ilaria Salis (del resto, tra i due, è difficile trovare delle differenze, a volte). Ma, soprattutto, attacca le norme del governo e dell’Unione europea in materia di immigrazione. Si sente Davide contro Golia. E lotta, invitando anche ad andare contro la legge. Quando, qualche giorno fa, è stata fermata la nave Humanity 1 (poi rimessa subito in mare dal tribunale di Agrigento) Casarini ha scritto: «Abbatteremo i vostri muri, taglieremo i fili spinati dei vostri campi di concentramento. Faremo fuggire gli innocenti che tenete prigionieri. È già successo nella Storia, succederà ancora. In mare come in terra. La disumanità non vincerà. Fatevene una ragione». Questa volta si sentiva Oskar Schindler, anche se poi va nei cortei pro Pal che inneggiano alla distruzione dello Stato di Israele.
Chi volesse approfondire il suo pensiero, poi, potrebbe andare a leggersi L’Unità del 10 dicembre scorso, il cui titolo è già un programma: Per salvare i migranti dobbiamo forzare le leggi. Nel testo, che risparmiamo al lettore, spiega come l’Ue si sia piegata a Giorgia Meloni e a Donald Trump in materia di immigrazione. I sovranisti (da quanto tempo non sentivamo più questo termine) stanno vincendo. Bisogna fare qualcosa. Bisogna reagire. Ribellarsi. Anche alle leggi. Il nostro, sempre attento ad essere politicamente corretto, se la prende pure con gli albanesi che vivono in un Paese «a metà tra un narcostato e un hub di riciclaggio delle mafie di mezzo mondo, retto da un “dandy” come Rama, più simile al Dandy della banda della Magliana che a quel G.B. Brummel che diede origine al termine». Casarini parla poi di «squadracce» che fanno sparire i migranti e di presunte «soluzioni finali» per questi ultimi. E auspica un modello alternativo, che crei «reti di protezione di migranti e rifugiati, per sottrarli alle future retate che peraltro avverranno in primis nei luoghi di “non accoglienza”, così scientificamente creati nelle nostre città da un programma di smantellamento dei servizi sociali, educativi e sanitari, che mostra oggi i suoi risultati nelle sacche di marginalità in aumento».
Detto, fatto. Qualcuno, in piazzale Cuoco a Milano, ha infatti pensato bene di affiggere dei manifesti anonimi con le indicazioni, per i migranti irregolari, su cosa fare per evitare di finire nei centri di permanenza per i rimpatri, i cosiddetti di Cpr. Nessuna sigla. Nessun contatto. Solo diverse lingue per diffondere il vademecum: l’italiano, certo, ma anche l’arabo e il bengalese in modo che chiunque passi di lì posa capire il messaggio e sfuggire alla legge. Ti bloccano per strada? Non far vedere il passaporto. Devi andare in questura? Presentati con un avvocato. Ti danno un documento di espulsione? Ci sono avvocati gratis (che in realtà pagano gli italiani con le loro tasse). E poi informazioni nel caso in cui qualcuno dovesse finire in un cpr: avrai un telefono, a volte senza videocamera. E ancora: «Se non hai il passaporto del tuo Paese prima di deportarti l’ambasciata ti deve riconoscere. Quindi se non capisci la lingua in cui ti parla non ti deportano. Se ti deportano la polizia italiana ti deve lasciare un foglio che spiega perché ti hanno deportato e quanto tempo deve passare prima di poter ritornare in Europa. È importante informarci e organizzarci insieme per resistere!».
Per Sara Kelany (Fdi), «dire che i Cpr sono “campi di deportazione” e “prigioni per persone senza documenti” è una mistificazione che non serve a tutelare i diritti ma a sostenere e incentivare l’immigrazione irregolare con tutti i rischi che ne conseguono. Nei Cpr vengono trattenuti migranti irregolari socialmente pericolosi, che hanno all’attivo condanne per reati anche molto gravi. Potrà dispiacere a qualche esponente della sinistra o a qualche attivista delle Ong - ogni riferimento a Casarini non è casuale - ma in Italia si rispettano le nostre leggi e non consentiamo a nessuno di aggirarle». Per Francesco Rocca (Fdi), si tratta di «un’affissione abusiva dallo sgradevole odore eversivo».
Casarini, da convertito, diffonde il verbo. Che non è quello che si è incarnato, ma quello che tutela l’immigrato.
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