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2018-07-05
Le bugie che ci raccontano su pensioni, tasse, immigrati
Ansa
Il picco di morti nel Mediterraneo? C’è stato quando governava la sinistra
Come sono spietati, questi populisti al governo: vogliono il sangue. «Migranti, muore il 9% di chi parte. Il dato record dell'ultimo mese», tuonava ieri dalle colonne del Corriere della Sera Federico Fubini. Un articolo drammatico, il suo: «Per chi si imbarca in cerca di un futuro in Europa, non era mai stato tanto probabile morire in mare durante la traversata dalla Libia». Colpa dell'attuale esecutivo, ovviamente. «Qualcosa di nuovo sta succedendo sulle rotte migratorie, da quando il primo giugno ha giurato al Quirinale il governo di Giuseppe Conte», spiegava Fubini. Tradotto: da quando ci sono i pentaleghisti, per i poveri migranti si mette davvero male e l'ecatombe è già iniziata. «Nell'ultimo mese», continuava l'editorialista del Corriere, «soprattutto dalla seconda metà, inclusi i primi due giorni di luglio - si registra il terzo più alto numero di morti e scomparsi in mare da quando due anni e mezzo fa le agenzie internazionali hanno iniziato a tenere i conti. Sono annegati o risultano scomparsi nel Mediterraneo il 9% di coloro che hanno provato la traversata dalla Libia, la quota più alta di sempre. In tutto si tratta di 679 morti. Se n'erano avuti di più solo nel maggio e nel novembre 2016, ma allora le partenze dalle coste libiche erano il doppio o il triplo rispetto a quelle di quest'ultimo giugno».
Da dove ha preso questi dati Fubini? Li ha calcolati «Matteo Villa dell'Ispi di Milano sulla base delle cifre fornite dall'Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) e dall'Alto commissariato per i rifugiati dell'Onu (Unhcr)». Fonte autorevole, insomma. Peccato che il giornalista di via Solferino la sfrutti per giungere a conclusioni errate.
Tanto per cominciare, ieri mattina lo stesso Matteo Villa ha ricalcolato il numero dei morti (o dispersi) in mare in giugno. Sono 565 persone su 7.413 partite dalla Libia. Quindi la percentuale di decessi è del 7,6%. Se si esaminano tutti i dati resi disponibili dall'Ispi - che vanno dal gennaio 2016 al giugno 2018 - si scoprono un po' di cose interessanti. La prima è che la percentuale di morti in mare più alta si è avuta nel febbraio 2018, quando - su 1.434 persone partite dalla Libia - ne sono decedute 121. Significa che i morti sono stati l'8,4% del totale. Nel febbraio 2018 al governo c'erano Paolo Gentiloni e il Partito democratico. Assassini anche loro?
Ma non è finita. Sul Corriere, Fubini riporta le parole di Flavio Di Giacomo dell'Oim, secondo cui «da quando le Ong sono state messe nell'impossibilità di lavorare, la minore presenza di navi che pattugliano quelle acque (cioè quelle nei pressi della Libia, ndr) sta rendendo i naufragi più frequenti». Beh, anche questo non è vero. Basta, di nuovo, guardare i dati pubblicati dall'Ispi. Nell'aprile del 2016 (il ministro dell'Interno era Angelino Alfano e il premier era Matteo Renzi) le Ong operavano a pieno regime, eppure la percentuale di morti in mare è stata del 7,6%. La stessa registrata nel giugno del 2018. Curioso, vero?
È evidente che Federico Fubini, sul Corriere, aveva il preciso intento di attaccare questo esecutivo. A suo dire, se la situazione nel Mediterraneo è peggiorata e i decessi sono cresciuti, è perché «sono quasi sparite dalle acque davanti alla Libia le navi per la ricerca e soccorso delle Ong». Ma l'argomentazione non regge, e le cifre lo dimostrano.
La verità è che i dati dell'Ispi su morti e partenze vanno esaminati a partire dalla consapevolezza che il «fattore caso» gioca un ruolo fondamentale. Certo, tendenzialmente in primavera-estate le partenze aumentano, e il numero complessivo di morti, di conseguenza, tende a essere piuttosto alto. Ma ci sono anche variazioni del tutto imprevedibili. Per esempio, nel dicembre del 2017 sono partiti dalla Libia in 3.182, e sono morti in 9. Nell'ottobre del 2017, a fronte di 3.615 partenze, sono morti in 167. Cosa vuol dire? Che, purtroppo, quando si parla di naufragi bisogna considerare tantissimi dettagli, comprese le condizioni delle barche o dei gommoni utilizzati dai trafficanti di uomini. Costoro sono i principali responsabili della mattanza, e hanno approfittato della presenza delle navi italiane prima e delle Ong poi per alimentare i propri affari. Ma torniamo alle cifre.
Fa notare Matteo Villa dell'Ispi, con cui ieri abbiamo scambiato alcune email, che il picco di morti dell'8,4% del febbraio 2016 è stato raggiunto «in un mese con 1.434 partenze, e le morti sono quasi tutte ascrivibili a un singolo naufragio con 100 morti e dispersi, avvenuto il 1° febbraio. Da giugno», precisa il ricercatore, «abbiamo avuto 16 naufragi, e 6 di questi hanno provocato almeno 50 morti o dispersi. Il cambio di passo c'è tutto». Questo dimostra, semmai, che i dati pubblicati dall'Ispi meritano una lettura approfondita, e prima di giungere a conclusioni bisognerebbe verificare come e quando sono avvenuti i vari incidenti nel Mediterraneo. Tutti, non solo quelli degli ultimi mesi.
In ogni caso, Villa dichiara: «Non si vuole sostenere che la “causa" dei naufragi o delle morti sia l'assenza delle Ong (o, se è per questo, di altro naviglio che faccia Sar). Si sostiene che l'aumento dei naufragi e dei morti sta avvenendo in un momento in cui non ci sono sufficienti mezzi per prestare soccorso». Ottimo. Solo che il Corriere della Sera dice esattamente il contrario, cioè che i morti sono aumentati proprio a causa dell'assenza delle Ong. È la stessa testi sostenuta dal fondatore di Open Arms, Oscar Camps, secondo cui la chiusura dei porti ai taxi del mare ha prodotto «360 morti». Della medesima idea è pure Roberto Saviano, il quale ha accusato il governo di essere il mandante delle stragi marittime. «I 100 migranti (tra cui 3 neonati) annegati pochi giorni fa nel Mediterraneo potevano essere salvati», ha scritto. «La responsabilità politica della strage è dei ministri Salvini e Toninelli, che hanno impedito alle Ong di prestare soccorso, e dell'Europa che li ha lasciati fare». Beh, i dati dell'Ispi dimostrano che Saviano ha torto: l'assenza delle Ong non causa - in generale - un aumento dei disastri. Quanto allo specifico naufragio a cui lo scrittore fa riferimento, è avvenuto a poche miglia dalla costa libica, ed è tutto da dimostrare che le navi degli attivisti avrebbero potuto raggiungere in tempo i migranti in difficoltà.
Comunque sia, l'Italia non ha alcuna responsabilità, trattandosi di acque territoriali libiche. Se davvero si vuole ridurre il numero dei morti ci sono solo due cose da fare. La prima è fermare le partenze. La seconda è dotare la Guardia costiera libica di più mezzi e risorse. E il governo - tramite decreto - si è appena impegnato a farlo. A Saviano, però, non sta bene. «Finanziare la Guardia costiera libica significa fomentare il traffico e non fermarlo», ha scritto. E ha concluso: «Da me non avrete nessun aiuto: non sarò mai vostro complice». Che dire, ce ne faremo una ragione...
Francesco Borgonovo
L’immigrazione? Non vale le pensioni
Il presidente Inps, Tito Boeri, ha le idee chiare. Non gli piacciono quelle del nuovo governo. Durante il consueto rapporto annuale dell'Istituto dopo aver elencato i pilastri delle erogazioni, le medie degli assegni, i tagli dei costi, Boeri si è dedicati all'analisi puntuale del decreto Dignità. Ha spiegato che è bene mantenere salda la legge Fornero e inserire più flessibilità. Ha criticato l'introduzione delle causali nei contratti a termine, sebbene ha dovuto ammettere che cinque proroghe del medesimo contratto siano troppe. Ha acceso pure un faro sui giovani, opponendosi alla scelta di favorire eccessivamente i pensionati a svantaggio dei giovani. «Purtroppo», ha aggiunto Boeri, «la fuga all'estero di chi ha tra i 25 e i 44 anni non sembra essersi arrestata neanche con la fine della crisi». Al di là delle puntualizzazioni, il numero uno dell'Inps ieri ha utilizzato il suo ruolo di tecnico per fare politica. Ha infatti mosso un passo più in là di quanto spetterebbe a un presidente della previdenza nel momento i cui decide di smontare le due scelte principali del governo a trazione leghista. Regolamentare i flussi di immigrati clandestini e abolire la Fornero per applicare il modello quota 100.
Sugli immigrati Boeri ha riacceso il disco rotto. Ribadendo per l'ennesimo volta che senza immigrati nessuno in futuro godrà più delle pensioni. La storia «ci insegna che quando si pongono forti restrizioni all'immigrazione regolare, aumenta l'immigrazione clandestina e viceversa: in genere, a fronte di una riduzione del 10% dell'immigrazione regolare, quella illegale aumenta dal 3 al 5%», ha sentenziato Boeri. «In presenza di decreti flussi del tutto irrealistici», ha sottolineato, la domanda di lavoro immigrato «si riversa sull'immigrazione irregolare di chi arriva in aereo o in macchina, non coi barconi ma coi visti turistici, e rimane in Italia a visto scaduto». I dati originano da una tabella che il presidente ha pubblicato su Twitter nella quale si evince che i flussi di messicani al confine con gli Usa sono inversamente proporzionali alle green card emesse da Washington. Certo, peccato che l'esempio sia totalmente scollegato alla realtà del Mediterraneo. Soprattutto a essere palesemente falsa è la premessa. Non ci risulta che il governo voglia chiudere i flussi regolari e soprattutto nessuno potrà mai sostenere che gli irregolari versino i contributi all'Inps. Al netto del buon senso la vulgata dell'importanza degli immigrati per salvare le pensioni è stata smontata pure da Bankitalia. Abbiamo già scritto dello studio di Palazzo Koch datato aprile scorso. La ricerca di Federico Barbiellini Amidei, Matteo Gomellini e Paolo Piselli fornisce uno sguardo di lungo periodo e conclude che il problema demografico/contirbutivo non si risolve con gli immigrati.
«Nel decennio 2001-2011, con una popolazione straniera residente che supera i 4,5 milioni (7,7% del totale), il contributo demografico degli immigrati è considerevole (1,1%) e compensa parzialmente il dividendo demografico negativo che origina dalla popolazione italiana (-4,2%). Nell'ultimo difficile quinquennio, il contributo degli stranieri si attesta su un più modesto 0,2%», si legge nel paper. A pagina 19 del documento i tre economisti: «L'apporto specifico dell'immigrazione sarebbe favorevole nei prossimi tre decenni, ma partire dal 2041 anche il contributo dell'immigrazione diverrebbe negativo». Una frase che da sola smonta tutte le teorie sostenute dal governo uscente e pure da Boeri. Chi legifera dovrà porsi il problema del calo contributivo e del drammatico crollo della produttività in Italia. Il Paese sarà obbligato a porsi il problema, questo sì reale, ma cercare di affrontarlo con una bufala sull'immigrazione non serve in alcun modo. «I numeri non mentono», ha detto ieri Boeri rispondendo a Matteo Salvini che gli ha dedicato una domanda: «Ma vivi sulla luna?». È vero che i numeri non mentono, ma possono sempre mentire le persone che li interpretano o ne leggono soltanto una parte. Non ci riferiamo a Boeri, il quale non mente. Ma ha una grande dimestichezza sui numeri, e sa gestirli con destrezza per sostenere le proprie tesi. Basti pensare al secondo pilastro del contratto di governo che l'attuale presidente Inps mira a smontare a tutti i costi. Per tenere in piedi la legge Fornero sostiene che per finanziare quota 100 (si va in pensione quando la somma fra età anagrafica e contributi annui versati al fisco raggiunge valore 100) o quota 41 (il numero degli anni in cui si sono versati i contributi) costi il primo anno 15 miliardi e a regime addirittura 20 miliardi di euro. Tutte le agenzie hanno sbandierato la cifra per rimarcare che la Fornero non si tocca. Nel rapporto Inps lo stesso Boeri poi ammette che la quota 100 con 64 anni e i requisiti attuali di anzianità contributiva costerebbe 4 miliardi e 8 a regime. Vediamo però le dichiarazioni di Alberto Brambilla, presidente di Itinerari previdenziali e ispiratore della riforma appoggiata dalla Lega, che ha sintetizzato egregiamente i numeri che girano su quota 100. «Perché non si conosce la proposta. L'idea è di mandare in pensione chi ha almeno 64 anni con 36 di contributi. Oppure 41 anni e mezzo di contributi, a prescindere dall'età e non più di 2-3 anni di contributi figurativi, per escludere chi è stato in cassa integrazione per dieci anni, ad esempio», ha detto Brambilla, spiegando anche che grazie ai fondi esuberi delle diverse categorie si potrebbe arrivare a pensionamenti anticipati senza costi per lo Stato. Inoltre, ha ricordato che l'Ape social costa 1,5 miliardi all'anno sui conti pubblici. «Ed è molto discrezionale, per questo verrà abolita, mentre l'Ape volontaria rimarrebbe in vigore», ha concluso. Dunque, la riforma leghista delle pensioni è tutta da fare. Presenta dei nei anche grossi. Abolire Ape social significa penalizzare chi è occupato nei settori più usuranti, ma quello che è certo è che non costerà 20 miliardi. Insistere, come fa Boeri, non è corretto.
Claudio Antonelli
La flat tax è una cosa infattibile? Cottarelli gioca sporco sui russi
Quella nella quale siamo immersi non è solo l'era della fake news ma anche del fact checking, cioè della verifica dei fatti. Tutto ciò è possibile in gran parte grazie a Internet che, se si sa dove andare a cercare, funziona come un contenitore virtualmente infinito di informazioni, numeri e statistiche. La credibilità di un politico da qualche anno a questa parte può essere dunque misurata con relativa facilità anche da un comune cittadino che ha accesso alla rete e una discreta padronanza delle fonti. Un rischio per coloro i quali intervengono di fronte al grande pubblico, dal momento che le possibilità di essere smentiti in tempo reale aumentano esponenzialmente.
È proprio quanto accaduto martedì sera, nel corso della puntata di una trasmissione di La7, In onda, che ha visto andare in scena un duello a colpi di numeri tra Claudio Borghi, deputato della Lega, e Carlo Cottarelli, ex premier incaricato e direttore dell'Osservatorio sui conti pubblici italiani dell'Università Cattolica. Borghi è considerato dal giornalismo mainstream un «populista», etichetta che si è guadagnato anche a causa del suo presidio costante su Twitter, social sul quale difende strenuamente le proprie idee a tutte le ore del giorno e della notte. Cottarelli invece può essere considerato un pezzo importante dell'establishment, grazie a una lunga e patinata carriera da Banca d'Italia al Fondo monetario internazionale fino alle porte (poi chiuse in faccia) di Palazzo Chigi.
Al centro del contendere la famigerata «flat tax», la riforma inserita nel contratto di governo legastellato che prevede l'introduzione di due aliquote (una al 15% e l'altra al 20%) e una deduzione fissa di 3.000 euro sulla base del reddito familiare. Intervenuto per difendere l'introduzione di questa misura fiscale, Borghi ha portato l'esempio della Russia, che ha introdotto nel 2001 un'aliquota unica del 13% per i redditi personali. Una misura che, per citare il deputato della Lega, ha causato un «aumento del gettito del 25%». La replica del suo interlocutore non si è fatta attendere: secondo il direttore del Cpi l'incremento delle entrate fiscali sarebbe stato causato, piuttosto, dal fatto che «in quel periodo il prezzo del petrolio è passato da 10 dollari al barile a 60 dollari». L'affidabile Cottarelli smonta, pare, la tesi del «populista» Borghi nel giro di pochi secondi. Peccato però che i dati citati dall'ex direttore del Fmi non trovino alcun riscontro con la realtà. Basta dare uno sguardo ai numeri per capire che se nel 2001 il prezzo del greggio era 23 dollari al barile, nel 2002 scendeva addirittura a 22,8 dollari. Anche ammettendo, come precisato da Cottarelli pochi istanti dopo, che il «periodo» a cui si fa riferimento è il triennio 1999-2001, i conti non tornano affatto. Nel 1999 il petrolio non era quotato a 10 dollari bensì a 16,5 e i 60 dollari sarebbero stati superati solo nel 2007, quindi ben 6 anni più tardi rispetto al 2001. «Se lei mi dice che nel 2001 il prezzo del petrolio è aumentato di sei volte, lei purtroppo sta facendo burla di sé stesso», ha esclamato a quel punto Borghi. «Cominciamo con l'interpretazione autentica di chi dice delle balle e di chi dice delle cose sensate», ha proseguito il deputato leggendo in studio i dati delle quotazioni, rintracciabili da chiunque con una semplice ricerca su Internet.
Poco più tardi su Twitter è iniziato da parte di Carlo Cottarelli il tentativo, durato l'intera giornata, di rimediare alla figuraccia fatta in diretta. A mezzanotte e 14 minuti parte il primo cinguettio: «Risposta a Borghi sulla Russia: tra il 1998 e il 2000 il prezzo del petrolio è aumentato del 130% causando il boom dell'economia russa negli anni seguenti. Altro che miracoli della flat tax!». Errata corrige di non poco conto. Non si parla più infatti del 1999 (anche nell'interpretazione più generosa delle parole pronunciate su La7) ma del 1998, quando in effetti il prezzo al barile era di 12 dollari, e l'incremento non è più di sei volte ma del 130%. Troppo facile correggere il tiro quando si è tranquillamente seduti alla propria scrivania! Da un uomo che ambiva a guidare il governo del Paese sarebbe lecito attendersi una maggiore precisione.
L'ultima precisazione è delle 18, quando Cottarelli si affida sempre a Twitter per un'ennesima replica: «La verità: il prezzo del petrolio era 10 dollari al barile nel feb '99, 28 dollari nel feb '01 e 60 dollari nell'ago '05. Questo è coerente con quanto ho detto ieri sera (vedi sotto), ma le grida di Borghi hanno coperto la seconda frase. Ascoltasse di più e gridasse di meno...». Con il passare delle ore siamo arrivati addirittura al 2005, e la colpa ora è del deputato leghista, le cui urla avrebbero ostacolato la comprensione del suo pensiero.
Sarebbe stato sufficiente ammettere l'imprecisione, voltare pagina e andare avanti. Cottarelli ha scelto invece di infilarsi in un vicolo cieco, continuando a peggiorare la sua situazione. Chi sia l'autore della fake news a questo punto, lo lasciamo giudicare a voi.
Antonio Grizzuti
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Roberto Saviano incolpa il governo dei morti in mare. Ma uno studio sui naufragi mostra che non c'è nesso con il blocco dell'azione delle Ong.Carlo Cottarelli si inventa un boom del prezzo del petrolio per negare gli effetti della flat tax in Russia. Le cifre lo inchiodano, lui abbozza.Tito Boeri va in aula a ridire la vecchia favola dei migranti che sostengono la previdenza. E salva la Fornero: quota 100 costa 20 miliardi. È falso.Lo speciale contiene tre articoli<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-picco-di-morti-nel-mediterraneo-ce-stato-quando-governava-la-sinistra-come-difendersi-dai-cialtroni-2583842693.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-picco-di-morti-nel-mediterraneo-ce-stato-quando-governava-la-sinistra" data-post-id="2583842693" data-published-at="1766448261" data-use-pagination="False"> Il picco di morti nel Mediterraneo? C’è stato quando governava la sinistra Come sono spietati, questi populisti al governo: vogliono il sangue. «Migranti, muore il 9% di chi parte. Il dato record dell'ultimo mese», tuonava ieri dalle colonne del Corriere della Sera Federico Fubini. Un articolo drammatico, il suo: «Per chi si imbarca in cerca di un futuro in Europa, non era mai stato tanto probabile morire in mare durante la traversata dalla Libia». Colpa dell'attuale esecutivo, ovviamente. «Qualcosa di nuovo sta succedendo sulle rotte migratorie, da quando il primo giugno ha giurato al Quirinale il governo di Giuseppe Conte», spiegava Fubini. Tradotto: da quando ci sono i pentaleghisti, per i poveri migranti si mette davvero male e l'ecatombe è già iniziata. «Nell'ultimo mese», continuava l'editorialista del Corriere, «soprattutto dalla seconda metà, inclusi i primi due giorni di luglio - si registra il terzo più alto numero di morti e scomparsi in mare da quando due anni e mezzo fa le agenzie internazionali hanno iniziato a tenere i conti. Sono annegati o risultano scomparsi nel Mediterraneo il 9% di coloro che hanno provato la traversata dalla Libia, la quota più alta di sempre. In tutto si tratta di 679 morti. Se n'erano avuti di più solo nel maggio e nel novembre 2016, ma allora le partenze dalle coste libiche erano il doppio o il triplo rispetto a quelle di quest'ultimo giugno».Da dove ha preso questi dati Fubini? Li ha calcolati «Matteo Villa dell'Ispi di Milano sulla base delle cifre fornite dall'Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) e dall'Alto commissariato per i rifugiati dell'Onu (Unhcr)». Fonte autorevole, insomma. Peccato che il giornalista di via Solferino la sfrutti per giungere a conclusioni errate.Tanto per cominciare, ieri mattina lo stesso Matteo Villa ha ricalcolato il numero dei morti (o dispersi) in mare in giugno. Sono 565 persone su 7.413 partite dalla Libia. Quindi la percentuale di decessi è del 7,6%. Se si esaminano tutti i dati resi disponibili dall'Ispi - che vanno dal gennaio 2016 al giugno 2018 - si scoprono un po' di cose interessanti. La prima è che la percentuale di morti in mare più alta si è avuta nel febbraio 2018, quando - su 1.434 persone partite dalla Libia - ne sono decedute 121. Significa che i morti sono stati l'8,4% del totale. Nel febbraio 2018 al governo c'erano Paolo Gentiloni e il Partito democratico. Assassini anche loro?Ma non è finita. Sul Corriere, Fubini riporta le parole di Flavio Di Giacomo dell'Oim, secondo cui «da quando le Ong sono state messe nell'impossibilità di lavorare, la minore presenza di navi che pattugliano quelle acque (cioè quelle nei pressi della Libia, ndr) sta rendendo i naufragi più frequenti». Beh, anche questo non è vero. Basta, di nuovo, guardare i dati pubblicati dall'Ispi. Nell'aprile del 2016 (il ministro dell'Interno era Angelino Alfano e il premier era Matteo Renzi) le Ong operavano a pieno regime, eppure la percentuale di morti in mare è stata del 7,6%. La stessa registrata nel giugno del 2018. Curioso, vero?È evidente che Federico Fubini, sul Corriere, aveva il preciso intento di attaccare questo esecutivo. A suo dire, se la situazione nel Mediterraneo è peggiorata e i decessi sono cresciuti, è perché «sono quasi sparite dalle acque davanti alla Libia le navi per la ricerca e soccorso delle Ong». Ma l'argomentazione non regge, e le cifre lo dimostrano.La verità è che i dati dell'Ispi su morti e partenze vanno esaminati a partire dalla consapevolezza che il «fattore caso» gioca un ruolo fondamentale. Certo, tendenzialmente in primavera-estate le partenze aumentano, e il numero complessivo di morti, di conseguenza, tende a essere piuttosto alto. Ma ci sono anche variazioni del tutto imprevedibili. Per esempio, nel dicembre del 2017 sono partiti dalla Libia in 3.182, e sono morti in 9. Nell'ottobre del 2017, a fronte di 3.615 partenze, sono morti in 167. Cosa vuol dire? Che, purtroppo, quando si parla di naufragi bisogna considerare tantissimi dettagli, comprese le condizioni delle barche o dei gommoni utilizzati dai trafficanti di uomini. Costoro sono i principali responsabili della mattanza, e hanno approfittato della presenza delle navi italiane prima e delle Ong poi per alimentare i propri affari. Ma torniamo alle cifre.Fa notare Matteo Villa dell'Ispi, con cui ieri abbiamo scambiato alcune email, che il picco di morti dell'8,4% del febbraio 2016 è stato raggiunto «in un mese con 1.434 partenze, e le morti sono quasi tutte ascrivibili a un singolo naufragio con 100 morti e dispersi, avvenuto il 1° febbraio. Da giugno», precisa il ricercatore, «abbiamo avuto 16 naufragi, e 6 di questi hanno provocato almeno 50 morti o dispersi. Il cambio di passo c'è tutto». Questo dimostra, semmai, che i dati pubblicati dall'Ispi meritano una lettura approfondita, e prima di giungere a conclusioni bisognerebbe verificare come e quando sono avvenuti i vari incidenti nel Mediterraneo. Tutti, non solo quelli degli ultimi mesi.In ogni caso, Villa dichiara: «Non si vuole sostenere che la “causa" dei naufragi o delle morti sia l'assenza delle Ong (o, se è per questo, di altro naviglio che faccia Sar). Si sostiene che l'aumento dei naufragi e dei morti sta avvenendo in un momento in cui non ci sono sufficienti mezzi per prestare soccorso». Ottimo. Solo che il Corriere della Sera dice esattamente il contrario, cioè che i morti sono aumentati proprio a causa dell'assenza delle Ong. È la stessa testi sostenuta dal fondatore di Open Arms, Oscar Camps, secondo cui la chiusura dei porti ai taxi del mare ha prodotto «360 morti». Della medesima idea è pure Roberto Saviano, il quale ha accusato il governo di essere il mandante delle stragi marittime. «I 100 migranti (tra cui 3 neonati) annegati pochi giorni fa nel Mediterraneo potevano essere salvati», ha scritto. «La responsabilità politica della strage è dei ministri Salvini e Toninelli, che hanno impedito alle Ong di prestare soccorso, e dell'Europa che li ha lasciati fare». Beh, i dati dell'Ispi dimostrano che Saviano ha torto: l'assenza delle Ong non causa - in generale - un aumento dei disastri. Quanto allo specifico naufragio a cui lo scrittore fa riferimento, è avvenuto a poche miglia dalla costa libica, ed è tutto da dimostrare che le navi degli attivisti avrebbero potuto raggiungere in tempo i migranti in difficoltà.Comunque sia, l'Italia non ha alcuna responsabilità, trattandosi di acque territoriali libiche. Se davvero si vuole ridurre il numero dei morti ci sono solo due cose da fare. La prima è fermare le partenze. La seconda è dotare la Guardia costiera libica di più mezzi e risorse. E il governo - tramite decreto - si è appena impegnato a farlo. A Saviano, però, non sta bene. «Finanziare la Guardia costiera libica significa fomentare il traffico e non fermarlo», ha scritto. E ha concluso: «Da me non avrete nessun aiuto: non sarò mai vostro complice». Che dire, ce ne faremo una ragione...Francesco Borgonovo <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-picco-di-morti-nel-mediterraneo-ce-stato-quando-governava-la-sinistra-come-difendersi-dai-cialtroni-2583842693.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="limmigrazione-non-vale-le-pensioni" data-post-id="2583842693" data-published-at="1766448261" data-use-pagination="False"> L’immigrazione? Non vale le pensioni Il presidente Inps, Tito Boeri, ha le idee chiare. Non gli piacciono quelle del nuovo governo. Durante il consueto rapporto annuale dell'Istituto dopo aver elencato i pilastri delle erogazioni, le medie degli assegni, i tagli dei costi, Boeri si è dedicati all'analisi puntuale del decreto Dignità. Ha spiegato che è bene mantenere salda la legge Fornero e inserire più flessibilità. Ha criticato l'introduzione delle causali nei contratti a termine, sebbene ha dovuto ammettere che cinque proroghe del medesimo contratto siano troppe. Ha acceso pure un faro sui giovani, opponendosi alla scelta di favorire eccessivamente i pensionati a svantaggio dei giovani. «Purtroppo», ha aggiunto Boeri, «la fuga all'estero di chi ha tra i 25 e i 44 anni non sembra essersi arrestata neanche con la fine della crisi». Al di là delle puntualizzazioni, il numero uno dell'Inps ieri ha utilizzato il suo ruolo di tecnico per fare politica. Ha infatti mosso un passo più in là di quanto spetterebbe a un presidente della previdenza nel momento i cui decide di smontare le due scelte principali del governo a trazione leghista. Regolamentare i flussi di immigrati clandestini e abolire la Fornero per applicare il modello quota 100. Sugli immigrati Boeri ha riacceso il disco rotto. Ribadendo per l'ennesimo volta che senza immigrati nessuno in futuro godrà più delle pensioni. La storia «ci insegna che quando si pongono forti restrizioni all'immigrazione regolare, aumenta l'immigrazione clandestina e viceversa: in genere, a fronte di una riduzione del 10% dell'immigrazione regolare, quella illegale aumenta dal 3 al 5%», ha sentenziato Boeri. «In presenza di decreti flussi del tutto irrealistici», ha sottolineato, la domanda di lavoro immigrato «si riversa sull'immigrazione irregolare di chi arriva in aereo o in macchina, non coi barconi ma coi visti turistici, e rimane in Italia a visto scaduto». I dati originano da una tabella che il presidente ha pubblicato su Twitter nella quale si evince che i flussi di messicani al confine con gli Usa sono inversamente proporzionali alle green card emesse da Washington. Certo, peccato che l'esempio sia totalmente scollegato alla realtà del Mediterraneo. Soprattutto a essere palesemente falsa è la premessa. Non ci risulta che il governo voglia chiudere i flussi regolari e soprattutto nessuno potrà mai sostenere che gli irregolari versino i contributi all'Inps. Al netto del buon senso la vulgata dell'importanza degli immigrati per salvare le pensioni è stata smontata pure da Bankitalia. Abbiamo già scritto dello studio di Palazzo Koch datato aprile scorso. La ricerca di Federico Barbiellini Amidei, Matteo Gomellini e Paolo Piselli fornisce uno sguardo di lungo periodo e conclude che il problema demografico/contirbutivo non si risolve con gli immigrati. «Nel decennio 2001-2011, con una popolazione straniera residente che supera i 4,5 milioni (7,7% del totale), il contributo demografico degli immigrati è considerevole (1,1%) e compensa parzialmente il dividendo demografico negativo che origina dalla popolazione italiana (-4,2%). Nell'ultimo difficile quinquennio, il contributo degli stranieri si attesta su un più modesto 0,2%», si legge nel paper. A pagina 19 del documento i tre economisti: «L'apporto specifico dell'immigrazione sarebbe favorevole nei prossimi tre decenni, ma partire dal 2041 anche il contributo dell'immigrazione diverrebbe negativo». Una frase che da sola smonta tutte le teorie sostenute dal governo uscente e pure da Boeri. Chi legifera dovrà porsi il problema del calo contributivo e del drammatico crollo della produttività in Italia. Il Paese sarà obbligato a porsi il problema, questo sì reale, ma cercare di affrontarlo con una bufala sull'immigrazione non serve in alcun modo. «I numeri non mentono», ha detto ieri Boeri rispondendo a Matteo Salvini che gli ha dedicato una domanda: «Ma vivi sulla luna?». È vero che i numeri non mentono, ma possono sempre mentire le persone che li interpretano o ne leggono soltanto una parte. Non ci riferiamo a Boeri, il quale non mente. Ma ha una grande dimestichezza sui numeri, e sa gestirli con destrezza per sostenere le proprie tesi. Basti pensare al secondo pilastro del contratto di governo che l'attuale presidente Inps mira a smontare a tutti i costi. Per tenere in piedi la legge Fornero sostiene che per finanziare quota 100 (si va in pensione quando la somma fra età anagrafica e contributi annui versati al fisco raggiunge valore 100) o quota 41 (il numero degli anni in cui si sono versati i contributi) costi il primo anno 15 miliardi e a regime addirittura 20 miliardi di euro. Tutte le agenzie hanno sbandierato la cifra per rimarcare che la Fornero non si tocca. Nel rapporto Inps lo stesso Boeri poi ammette che la quota 100 con 64 anni e i requisiti attuali di anzianità contributiva costerebbe 4 miliardi e 8 a regime. Vediamo però le dichiarazioni di Alberto Brambilla, presidente di Itinerari previdenziali e ispiratore della riforma appoggiata dalla Lega, che ha sintetizzato egregiamente i numeri che girano su quota 100. «Perché non si conosce la proposta. L'idea è di mandare in pensione chi ha almeno 64 anni con 36 di contributi. Oppure 41 anni e mezzo di contributi, a prescindere dall'età e non più di 2-3 anni di contributi figurativi, per escludere chi è stato in cassa integrazione per dieci anni, ad esempio», ha detto Brambilla, spiegando anche che grazie ai fondi esuberi delle diverse categorie si potrebbe arrivare a pensionamenti anticipati senza costi per lo Stato. Inoltre, ha ricordato che l'Ape social costa 1,5 miliardi all'anno sui conti pubblici. «Ed è molto discrezionale, per questo verrà abolita, mentre l'Ape volontaria rimarrebbe in vigore», ha concluso. Dunque, la riforma leghista delle pensioni è tutta da fare. Presenta dei nei anche grossi. Abolire Ape social significa penalizzare chi è occupato nei settori più usuranti, ma quello che è certo è che non costerà 20 miliardi. Insistere, come fa Boeri, non è corretto. Claudio Antonelli <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-picco-di-morti-nel-mediterraneo-ce-stato-quando-governava-la-sinistra-come-difendersi-dai-cialtroni-2583842693.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="la-flat-tax-e-una-cosa-infattibile-cottarelli-gioca-sporco-sui-russi" data-post-id="2583842693" data-published-at="1766448261" data-use-pagination="False"> La flat tax è una cosa infattibile? Cottarelli gioca sporco sui russi Quella nella quale siamo immersi non è solo l'era della fake news ma anche del fact checking, cioè della verifica dei fatti. Tutto ciò è possibile in gran parte grazie a Internet che, se si sa dove andare a cercare, funziona come un contenitore virtualmente infinito di informazioni, numeri e statistiche. La credibilità di un politico da qualche anno a questa parte può essere dunque misurata con relativa facilità anche da un comune cittadino che ha accesso alla rete e una discreta padronanza delle fonti. Un rischio per coloro i quali intervengono di fronte al grande pubblico, dal momento che le possibilità di essere smentiti in tempo reale aumentano esponenzialmente. È proprio quanto accaduto martedì sera, nel corso della puntata di una trasmissione di La7, In onda, che ha visto andare in scena un duello a colpi di numeri tra Claudio Borghi, deputato della Lega, e Carlo Cottarelli, ex premier incaricato e direttore dell'Osservatorio sui conti pubblici italiani dell'Università Cattolica. Borghi è considerato dal giornalismo mainstream un «populista», etichetta che si è guadagnato anche a causa del suo presidio costante su Twitter, social sul quale difende strenuamente le proprie idee a tutte le ore del giorno e della notte. Cottarelli invece può essere considerato un pezzo importante dell'establishment, grazie a una lunga e patinata carriera da Banca d'Italia al Fondo monetario internazionale fino alle porte (poi chiuse in faccia) di Palazzo Chigi. Al centro del contendere la famigerata «flat tax», la riforma inserita nel contratto di governo legastellato che prevede l'introduzione di due aliquote (una al 15% e l'altra al 20%) e una deduzione fissa di 3.000 euro sulla base del reddito familiare. Intervenuto per difendere l'introduzione di questa misura fiscale, Borghi ha portato l'esempio della Russia, che ha introdotto nel 2001 un'aliquota unica del 13% per i redditi personali. Una misura che, per citare il deputato della Lega, ha causato un «aumento del gettito del 25%». La replica del suo interlocutore non si è fatta attendere: secondo il direttore del Cpi l'incremento delle entrate fiscali sarebbe stato causato, piuttosto, dal fatto che «in quel periodo il prezzo del petrolio è passato da 10 dollari al barile a 60 dollari». L'affidabile Cottarelli smonta, pare, la tesi del «populista» Borghi nel giro di pochi secondi. Peccato però che i dati citati dall'ex direttore del Fmi non trovino alcun riscontro con la realtà. Basta dare uno sguardo ai numeri per capire che se nel 2001 il prezzo del greggio era 23 dollari al barile, nel 2002 scendeva addirittura a 22,8 dollari. Anche ammettendo, come precisato da Cottarelli pochi istanti dopo, che il «periodo» a cui si fa riferimento è il triennio 1999-2001, i conti non tornano affatto. Nel 1999 il petrolio non era quotato a 10 dollari bensì a 16,5 e i 60 dollari sarebbero stati superati solo nel 2007, quindi ben 6 anni più tardi rispetto al 2001. «Se lei mi dice che nel 2001 il prezzo del petrolio è aumentato di sei volte, lei purtroppo sta facendo burla di sé stesso», ha esclamato a quel punto Borghi. «Cominciamo con l'interpretazione autentica di chi dice delle balle e di chi dice delle cose sensate», ha proseguito il deputato leggendo in studio i dati delle quotazioni, rintracciabili da chiunque con una semplice ricerca su Internet. Poco più tardi su Twitter è iniziato da parte di Carlo Cottarelli il tentativo, durato l'intera giornata, di rimediare alla figuraccia fatta in diretta. A mezzanotte e 14 minuti parte il primo cinguettio: «Risposta a Borghi sulla Russia: tra il 1998 e il 2000 il prezzo del petrolio è aumentato del 130% causando il boom dell'economia russa negli anni seguenti. Altro che miracoli della flat tax!». Errata corrige di non poco conto. Non si parla più infatti del 1999 (anche nell'interpretazione più generosa delle parole pronunciate su La7) ma del 1998, quando in effetti il prezzo al barile era di 12 dollari, e l'incremento non è più di sei volte ma del 130%. Troppo facile correggere il tiro quando si è tranquillamente seduti alla propria scrivania! Da un uomo che ambiva a guidare il governo del Paese sarebbe lecito attendersi una maggiore precisione. L'ultima precisazione è delle 18, quando Cottarelli si affida sempre a Twitter per un'ennesima replica: «La verità: il prezzo del petrolio era 10 dollari al barile nel feb '99, 28 dollari nel feb '01 e 60 dollari nell'ago '05. Questo è coerente con quanto ho detto ieri sera (vedi sotto), ma le grida di Borghi hanno coperto la seconda frase. Ascoltasse di più e gridasse di meno...». Con il passare delle ore siamo arrivati addirittura al 2005, e la colpa ora è del deputato leghista, le cui urla avrebbero ostacolato la comprensione del suo pensiero. Sarebbe stato sufficiente ammettere l'imprecisione, voltare pagina e andare avanti. Cottarelli ha scelto invece di infilarsi in un vicolo cieco, continuando a peggiorare la sua situazione. Chi sia l'autore della fake news a questo punto, lo lasciamo giudicare a voi. Antonio Grizzuti
(IStock)
Senza il pandoro, così come senza il panettone, non sarebbe Natale. È però un fatto che il pandoro è considerato un di più, un elemento dolce ancillare del panettone. Se il pandoro può mancare sulla tavola natalizia, non lo può il panettone. In realtà questa subordinazione del pandoro al panettone è abbastanza ingiusta. Il pandoro non è un dolce meno saporito del panettone, da un punto di vista tecnico non è meno complesso e dal punto di vista gustativo come il panettone soddisfa il bisogno di abbondanza, così il pandoro soddisfa quello di leggerezza, offrendo al gusto un sapore univoco non complicato da sospensioni come sono le uvette e i canditi nel panettone tradizionale e tutte quelle che passano per la mente del creatore nel panettone di ricerca. E leggera è anche la consistenza, che ricorda più una torta, un pan di Spagna o una torta paradiso, più che un pane addolcito e (assai) lievitato come invece fa il panettone. Questa nettezza di gusto lo rende aperto ad abbinamenti estemporanei: tipico di bambini e golosi è il sandwich di pandoro che si realizza con due fette di pandoro e un ripieno dolce che può andare dalla tavoletta di cioccolato al torrone.
La storia anzi la probabile storia del pandoro ci porta indietro fino agli antichi Romani. Plinio il Vecchio, infatti, raccontando le abitudini culinarie dell’antica Roma parla di un panis preparato abitualmente con fior di farina, burro e olio da Virgilius Stephanus Senex. Marco Gavio Apicio parla di un pane da liberare della crosta e poi imbibire di latte, friggere e cospargere di miele, perciò dorato. Da questi esempi di panis dorato antico-romano secondo molti deriva il levà veronese, anch’esso un pane dolce, di occasione festiva, ma più dolce del suo avo, con tanto di copertura di glassa con mandorle. Pare che nella corte veneziana il levà, come altri dolci locali, fosse ricoperto di sottilissime foglie d’oro zecchino e perciò fosse chiamato pane de oro. Dal levà deriverebbe il nadalin, nome veneto del dolce natalino ossia di Natale che si chiamerebbe così proprio perché sarebbe nato a Natale del XIII secolo per festeggiare l’investitura dei Della Scala a Signori di Verona. Il nadalin presenta un impasto morbido, una cupola decorativa di crosticina e frutta secca e una forma a stella di otto punte. Dal 2012 è anche un prodotto De.Co. del Comune di Verona, con tanto di ricette ufficiali per le due versioni, quella con lievito di birra oppure quella con lievito madre.
Questi i presunti prototipi - finora - del pandoro. Zoomiamo, quindi, sul pandoro. Del pandoro come lo conosciamo oggi abbiamo una data ufficiale di nascita. È il 14 ottobre 1894, il giorno in cui il pasticcere Domenico Melegatti brevetta la ricetta e il nome del suo dolce, Pandoro, ottenendo poi l’attestato di privativa industriale del ministero di Agricoltura Industria e Commercio del Regno d’Italia qualche tempo dopo: il 20 marzo 1895 il ministero di Agricoltura Industria e Commercio del Regno d’Italia, infatti, rilascia l’«attestato di privativa industriale della durata di anni tre per un brevetto designato col titolo Pandoro (dolce speciale)». La nascita del Pandoro con tanto di data presenta anche una… annunciazione! E già, in perfetto calco del paradigma religioso natalizio di nascita precedentemente annunciata. Sul quotidiano veronese L’Arena del 21 e 22 marzo 1894 (sei mesi prima del brevetto) compare l’avviso pubblicitario di annuncio del prodotto: «Il Pasticcere Melegatti… avverte la benevola e numerosissima sua clientela di aver allestito un nuovo dolce per la sua squisitezza, leggerezza, inalterabilità e bel formato l’autore lo reputa degno del primo posto nomandolo Pan d’oro». Nel depositare il brevetto il nome perde la sua composizione triplice e diventa un tutt’uno, quel «Pandoro» che, come succede alle grande invenzioni, per antonomasia, da nome proprio poi diventerà nome generico. Oggi pandoro è un marchionimo (così si chiamano i nomi originati da marchi) ovvero un tipo di dolce che tutti i pasticceri artigianali e industriali realizzano, non solo Melegatti e non solo i pasticceri di professione, essendo tanti i cucinieri casalinghi che si dilettano a impastare e cucinare pandori e panettoni in casa per le feste natalizie. Il Pandoro di Melegatti è un dolce ispirato alla morbidezza del levà, grazie ad un impasto diverso e allo stampo di cottura, ideato sempre da Domenico Melegatti, spiega il sito Internet dell’azienda, con forma di stella troncoconica a otto punte, brevettato anch’esso. La forma a stella del pandoro ricorda certamente quella del nadalin, rispetto al quale però è assai più alto e privo di qualsiasi topping. Secondo lo studioso Andrea Brugnoli il pandoro potrebbe però trovare altre fonti, ovvero il pane di Natale del monastero di San Giuseppe a Fidenzio: nei registri dell’economato del ministero il 21 dicembre 1790 si acquistano 500 uova, tantissimo burro e tantissimo altro zucchero. Altra fonte di ispirazione per Brugnoli sarebbe il Pan d’Oro che nel 1871 Cesare Capri di Verona porta ad un’esposizione pasticcera regionale presentandolo come «panettone di pasta dolce». Non si sa e in fondo non è nemmeno così interessante saperlo, essendo il pandoro talmente perfetto da interessarci dalla sua nascita ufficiale in poi. Tornando alla questione linguistica, perché il nome pandoro passi da proprio a generico bisogna attendere il 1927. In quell’anno, entra nella quinta edizione dell’importantissimo - per la costruzione della lingua italiana - Dizionario moderno di Alfredo Panzini. La voce «pandoro» nel dizionario recita: «Dolce di lievito, ricchissimo di burro (Verona). Dal colore aurato dovuto al rosso d’uovo».
Voi siete team pandoro, team panettone o team entrambi? In tutti i casi vi, anzi ci, sarà utile una breve disamina nutrizionale del pandoro, per capire cosa mangeremo quando lo mangeremo alla tavola natalizia. Non si può certamente sostenere che il pandoro sia dietetico. Si tratta al contrario di un dolce generoso di zuccheri e grassi saturi, che sono i macronutrienti tipici delle festività, ma anche quelli che dobbiamo tenere a bada. Generoso, conseguentemente, di calorie: 100 g ne hanno tra 390 e 435. Considerato che da un pandoro di 1 kg traiamo 8 fette (sono le 8 punte) si capisce come ogni fetta pesi 125 grammi. Se ragioniamo sui 100 g, abbiamo tra i 49 e i 53 g di carboidrati di cui tra 22 e 26,5 di zuccheri. Considerato che il pandoro si mangia alla fine di un pasto in cui i primi piatti sono sontuosi e abbondanti anch’essi e che questo pasto festivo e festoso si ripete (il cenone della Vigilia, il Pranzo del Natale, il Pranzo di Santo Stefano, minimo) si capisce come introiettare ulteriori 400 calorie circa composte per lo più di carboidrati e tra questi di zuccheri sia un elemento da tenere attenzionato, cercando dunque di non mangiare troppo nel resto delle giornate festive. I carboidrati sono solo l’inizio. Abbiamo tra 20 e 21 grammi di grassi, di cui tra 10 e 13 sono saturi e sono dovuti all’abbondanza di tuorlo d’uovo e burro. Infine abbiamo tra 7 e 8 grammi di proteine che sì, abbassano lievemente l’indice glicemico del dolce e si affiancano anche all’indice lipidico, tuttavia - com’è ovvio - non li annulla. In definitiva, chi è a dieta e chi deve limitare fortemente i grassi saturi, magari perché ipercolesterolemico, ipertrigliceridico o afflitto da altra patologia del metabolismo dei grassi e in generale del metabolismo dovrebbe mangiare giusto un pezzetto, forse evitare il pandoro. Non ne deve abusare nemmeno chi ha una forma e una salute perfette, perché - ricordiamoci - un eccesso di grassi saturi fa ingrassare e aumenta il rischio cardiovascolare, oltre a sovraffaticare l’apparato digestivo. Nel caso si voglia o si desideri un consumo più virtuoso, il consiglio è quello di optare o per il panettone o per il pandoro e non mangiare entrambi alla fine dello stesso pasto, per il dispiacere del team che definiremo «entrambi e pure uno insieme all’altro». Altri consigli: mangiare mezza fetta di pandoro anziché una fetta intera, stare molto leggeri per quanto riguarda grassi e zuccheri al pasto successivo o precedente, fare una bella passeggiata dopo il pranzo della festa. Il consiglio più strong di tutti è quello di non mangiare proprio il pandoro, ma come si fa? Quello semi strong è di non mangiarlo a fine pasto, ma a merenda (con un tè o un caffè rigorosamente senza zucchero) o a colazione. Tuttavia noi preferiamo pensare che mangiare il pandoro a fine pasto vuol dire anche seguire una tradizione e quindi vi riproponiamo il «trucchetto» di mangiarne, magari, mezza fetta.
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La decisione del tribunale di La Spezia che consente a una minorenne di assumere un nome maschile è contestabile. E quando si parla di transizioni chirurgiche bisogna sapere che le difficoltà sono tantissime.
Il tributo alle vittime della strage di Bondi beach a Sydney (Ansa)
Era evidente che l’antisemitismo da un momento all’altro sarebbe esploso con morti ammazzati. Nessuno si faccia illusioni: è solo l’inizio. Sono colpevoli i giornali che hanno riportato slogan genocidi, i politici e i cardinali che ripetono le menzogne di Hamas, i media che, grazie anche al fiume di denaro che da decenni arriva dal mondo islamico, hanno demonizzato lo Stato di Israele, i governanti che hanno permesso che la bandiera delle belve di Hamas sventolasse addirittura su palazzi di sedi istituzionali, tutti coloro che l’hanno appesa o messa sui social. Chiunque gridi slogan come «globalizzare l’intifada», sta invocando più morti ammazzati.
Ancora più sconvolgente dell’attentato antisemita in Australia sono i commenti sui social ai post che danno la notizia.
L’antisemitismo si è rifugiato nelle fogne nel 1945, il nazismo gli aveva tolto ogni dignità, e nelle fogne è rimasto fino al 1975. Fino a quella data sapevamo che Israele era dalla parte della ragione, che la sua nascita non solo era legittima, ma era un raggio di giustizia nella storia. Se guardiamo una carta geografica, dal Marocco all’Indonesia è tutto islam. Ovunque sono state annientate le civiltà precedenti, al punto tale che non ce ne ricordiamo, per cui non lo riconosciamo nemmeno per quello che è: dannato colonialismo genocidiario.
Nel 1453 cade Costantinopoli, quella che noi chiamiamo Turchia era il cristiano Impero romano d’Oriente. L’Afghanistan era una culla del buddismo. Siria e Nord Africa erano culle del cristianesimo, civilissime e verdi. L’islam distrugge tutte le civiltà precedenti. Il Bangladesh, una delle culle dell’induismo, è stato reso privo di induisti nel 1971, grazie a violenze spaventose seguite dalla più grande pulizia etnica di tutta la storia dell’umanità, 10 milioni di profughi induisti hanno lasciato la terra dei loro padri. Gli induisti sono stati convinti ad andarsene con sistemi energici e creativi: donne stuprate, bambini col cranio fracassato, uomini, ragazzi e bambini costretti a calarsi le brache e, nel caso non fossero circoncisi, castrati.
Poi il popolo di Israele ritorna alla terra di suoi padri. Si tratta di un fazzoletto di terra, senza una goccia di petrolio, ma è considerato un’onta imperdonabile. Quello di Israele è l’unico popolo tra quelli occupati dall’islam che sia riuscito a riconquistare la terra dei suoi padri interamente occupata. In mano all’islam era una terra di sassi e scorpioni, quando diventa Israele diventa un giardino. Nel 1975 la narrazione cambia. Israele ha incredibilmente vinto la guerra del ’48 e quella dei 6 giorni. Riesce a vincere dopo alcune sconfitte iniziali la guerra del Kippur. L’islam perde la speranza di una vittoria militare seguita dalla distruzione di Israele, e la strategia diventa mediatica.
Attraverso la corruzione di burocrati europei e dell’Onu, testate giornalistiche, campus statunitensi, università europee e poi ogni tipo di scuola, con la complicità del Partito comunista sovietico e di tutti i suoi fratellini nel mondo occidentale, grazie a fiumi di petrodollari, Israele è stato sempre più demonizzato mentre il vittimismo palestinese è diventato una nuova religione. Questo ha portato inevitabilmente alla beatificazione anche del terrorismo contro i cristiani, contro di noi. Sacerdoti e vescovi apprezzano gli imam più violenti, ignorano i martiri cristiani della Nigeria, decine e decine di migliaia di morti, rapimenti, stupri, mutilati e feriti, chiese distrutte, scuole vandalizzate, ma ignorano anche le violenze dei palestinesi contro i cristiani. A Betlemme i cristiani erano l’80% della popolazione prima di finire sotto l’amministrazione palestinese. Ora sono il 20%. La diminuzione è ottenuta mediante una serie di angherie che finiscono per suggerire l’idea di un trasferimento altrove, in termini tecnici si chiama pulizia etnica, e mediante il rapimento di ragazzine preadolescenti, prelevate all’uscita dalla scuola, e costrette a sposare un islamico, in termine tecnico si chiama stupro etnico. L’unico Stato in Medio Oriente dove il numero di cristiani aumenta costantemente è Israele, in tutti gli altri sta drammaticamente diminuendo.
Il vittimismo palestinese è elemento fondamentale, insieme alla denatalità, per la islamizzazione dell’Europa. L’antisemitismo, manifesto dal 1975, è esploso il 7 ottobre del 2023. Le cause dell’antisemitismo sono molteplici. La più apparentemente banale è la coscienza della superiorità culturale ebraica. I numeri sono impietosi. Gli ebrei sono lo 0,2% della popolazione mondiale. Il 20% dei premi Nobel sono stati attribuiti ad ebrei. Se guardiamo solo i premi Nobel per la fisica, la statistica sale al 35%. Il 50% dei campioni di scacchi è costituito da ebrei. Tra le motivazioni di questo successo c’è una potente identità etnica, il popolo eletto, coloro che parlavano con Dio e ne hanno avuto 10 comandamenti.
Fondamentale è il maggior quantitativo di studi, tenendo presente che ogni cosa che studiamo aumenta le sinapsi che abbiamo nel cervello. La stragrande maggioranza degli ebrei conosce almeno due lingue, l’ebraico, linguisticamente complesso che si scrive da destra a sinistra, e poi la lingua gentile del popolo ospitante o comunque l’inglese. Questa ricchezza linguistica si raggiunge attraverso lo studio e quindi aumenta le sinapsi. La religione ebraica è studio. La innegabile superiorità culturale ebraica genera due sentimenti negativi, l’invidia, una delle emozioni più potentemente distruttive, e il terrore del complotto, e qui arriviamo a un’altra causa di antisemitismo.
Sono più in gamba di noi in molti campi dello scibile umano, conoscono una lingua strana con cui possono comunicare tra di loro, ergo fanno continuamente complotti a nostro danno. In questa teoria gli ebrei sono descritti come assolutamente geniali da un lato e contemporaneamente i più idioti del reame: con tutta la loro incredibile potenza, tutto quello che ottengono è di essere costantemente odiati, di subire persecuzioni come nessun altro, non poter girare per la strada con una kippà o una stella di Davide, avere uno Staterello di 19.000 chilometri quadrati senza una goccia di petrolio che tutti vogliono distruggere.
C’è un antisemitismo cristiano che ha nutrito secoli di pogrom. Molti cristiani ritengono che Gesù Cristo sia stato ucciso dagli ebrei, che sia morto per volontà del Sinedrio. Gesù Cristo è andato alla morte per prendere su di sé i nostri peccati per volontà di Dio. Il popolo eletto ha avuto il compito di custodire la sua nascita e quello di custodire la sua morte. Quello che molti rimproverano agli ebrei è il loro non convertirsi al cristianesimo. In un certo senso questo loro rifiuto è «un continuo uccidere Cristo». Noi cristiani abbiamo avuto il compito da Cristo e da San Paolo di amare gli ebrei e convertirli. Con lunghi atroci secoli di persecuzioni e di odio abbiamo reso impossibile una conversione che in realtà è ovvia.
Ora il vaso di Pandora è scoperchiato. Giustificando, anzi amando, il terrorismo palestinese abbiamo sdoganato quello contro di noi. Anche gli assassinati del Bataclan avevano «rubato la terra ai palestinesi»? Per evitarci la tentazione dell’islamofobia ci è stato celato che a molte vittime del Bataclan sono stati cavati gli occhi e tagliati i genitali, come non ci hanno raccontato le sevizie durate ore con cui sono stati massacrati i nove italiani della strage di Dacca, luglio 2016. C’era anche una donna incinta. Ci hanno nascosto che cosa le hanno fatto perché altrimenti ci viene l’islamofobia.
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Le tecnologie nucleari rappresentano un pilastro fondamentale per affiancare le fonti rinnovabili, garantendo energia continua anche quando sole e vento non sono disponibili. Oltre a fornire elettricità affidabile, il nucleare contribuisce alla sicurezza del sistema elettrico e all’indipendenza energetica nazionale, elementi essenziali per sostenere la transizione energetica.
Negli ultimi anni, i reattori modulari di nuova generazione (SMR/AMR) hanno ridefinito l’equilibrio tra costi e benefici della produzione nucleare. Pur richiedendo investimenti iniziali significativi, questi impianti offrono vantaggi strutturali che li rendono sempre più sostenibili e competitivi nel lungo periodo. I capitali richiesti sono infatti sensibilmente inferiori rispetto ai grandi impianti tradizionali: si stimano 2-3 miliardi di euro per un reattore da 300 MWe contro i 12 e i 15 miliardi di euro per produrre 1.000 megawatt di potenza (1 GWe).
La standardizzazio dei moduli e l’assemblaggio in fabbrica garantiscono efficienza industriale, riducendo tempi, costi e complessità progettuale. Inoltre, con una vita operativa prevista di oltre 60 anni e un costo globale di produzione prevedibile, il nucleare modulare assicura energia affidabile a costi stabili, riducendo l’esposizione alla volatilità dei mercati energetici.
Il nucleare è già una realtà consolidata: nell’Unione europea sono operativi circa 100 reattori, con oltre 12 Paesi che stanno rilanciando questa tecnologia. Anche in Italia, l’aggiornamento del Pniec (Piano nazionale integrato per l’energia e il clima 2030) al 2024 prevede uno scenario con una potenza nucleare installata tra gli 8 e i 16 GW al 2050, pari a circa l’11-22% del fabbisogno nazionale.
A supporto dello sviluppo della filiera nazionale, è nata Nuclitalia società costituita da Enel, Ansaldo Energia e Leonardo che si occuperà dello studio di tecnologie avanzate e dell’analisi delle opportunità di mercato nel settore del nuovo nucleare. Il suo obiettivo è valutare le tecnologie più promettenti, costruire una filiera innovativa e sostenibile e sviluppare partnership industriali e di co-design, valorizzando le competenze delle industrie italiane. Inoltre, Nuclitalia monitora e partecipa attivamente ai programmi internazionali di R&D sulle tecnologie di IV generazione, per garantire un approccio integrato e avanzato al nucleare del futuro.
In sintesi, il nucleare modulare offre all’Italia la possibilità di affiancare le rinnovabili con energia stabile e programmabile, favorendo sicurezza energetica e sviluppo industriale. Con SMR e AMR, il Paese può costruire una filiera nazionale competitiva e sicura, contribuendo in modo concreto alla transizione energetica e all’indipendenza energetica.
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