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2022-08-22
Il grande disastro. Lo scandalo Alitalia-Ita
Ansa
Un’idrovora mangiasoldi, la più lunga telenovela della storia economica italiana che ha attraversato le due Repubbliche con il suo fardello sempre più pesante di debiti. Tutti i governi si sono trovati di fronte al bivio se vendere o ripianare le perdite di Alitalia. Hanno scelto la seconda strada sia per la pressione dei sindacati sia per comodità, perché era più facile buttare in un carrozzone altri miliardi piuttosto che cercare un partner danaroso che si accollasse i debiti senza fiatare e lasciasse al governo potestà sulle decisioni più importanti. L’ultima svolta si è avuta un anno fa, quando cambiando il nome (da Alitalia a Ita), mettendo alle hostess una divisa nuova e tagliando un po’ di rotte si pensava di resuscitare il moribondo. Ma ora per la compagnia di bandiera la resa dei conti sembra arrivata.
Il premier Mario Draghi ha promesso di gestire di persona la vendita, facendone l’«happy end» del suo mandato. Ma le elezioni si avvicinano e ancora non si vede l’uscita dal tunnel. Gli aspiranti compratori sono due, la cordata Msc-Lufthansa e il fondo Usa Certares. Il dicastero dell’Economia però ha storto il naso sul prezzo offerto: 850 milioni dalla prima cordata e 600 dagli americani. Il ministro Daniele Franco lo ritiene poco, per quello che resta pur sempre un marchio glorioso.
partecipazioni e diritti
Non solo. Pare che Via XX Settembre rivendichi una partecipazione di minoranza, tra il 20 e il 40%, e il diritto di intervenire sulle scelte strategiche. Draghi dovrebbe dipanare la matassa prima delle elezioni, ma pochi credono che ce la farà. Tant’è che Giorgia Meloni ha già detto che il nuovo governo potrebbe non essere d’accordo sulla cessione. Una dichiarazione in linea con uno dei pilastri del programma di FdI in cui si ribadisce la difesa dei gioielli imprenditoriali italiani.
Gli altri partiti si sono ben guardati da impantanarsi su questo tema, sperando che Draghi faccia il miracolo e tolga le castagne dal fuoco. Il nodo Ita non ha fatto capolino in nessuna delle promesse elettorali. Enrico Letta sa bene che è un terreno minato da dove è preferibile tenersi lontano. Nel 2013, con Maurizio Lupi ministro dei Trasporti, travasò nella compagnia 150 milioni da Poste Italiane che furono risucchiati come una goccia nel deserto. Al capezzale di Alitalia sono accorsi in passato anche altri politici, adesso candidati eccellenti a guidare il nuovo governo ma che evitano di pronunciarsi sul tema. Matteo Renzi a Palazzo Chigi ebbe la trovata di bussare agli arabi di Etihad che si accollarono Alitalia per poco più di due anni ma, dopo aver perso 1,3 miliardi, dissero arrivederci e grazie.
Nel 2017 gli azionisti chiesero al ministero dello Sviluppo economico l’amministrazione straordinaria. Ed è a quel punto che troviamo Carlo Calenda, che da ministro dello Sviluppo pensava di risolvere la questione nominando tre commissari straordinari ed elargendo un prestito ponte prima di 600 milioni e poi di altri 300 milioni. I tre commissari avrebbero dovuto vendere, ma si lasciarono sfuggire l’offerta del fondo Cerberus.
dalle fs ad atlantia
Anche il suo successore, Luigi Di Maio, si è cimentato nel risiko Alitalia, lanciando la sinergia con Ferrovie che avrebbe dovuto creare una cordata cercando un partner. A un certo punto spuntò Atlantia, quella del Ponte Morandi, che con la tedesca Lufthansa avrebbe dovuto intervenire. Fu un altro fallimento. In 46 anni di aiuti, la compagnia di bandiera ha assorbito almeno 10 miliardi di euro dallo stato, di cui 500 milioni negli ultimi due anni: un ennesimo prestito ponte di 400 milioni di euro previsto in un decreto del dicembre 2019 più altri 100 milioni nel decreto Sostegni bis (2021) per finanziare il rimborso dei biglietti già venduti da Alitalia ma relativi a voli che sarebbero stati operati dal nuovo vettore.
Oggi Ita ha ben poco del gioiellino italico. Il Corriere della Sera ha stimato una perdita operativa di 260 milioni ante ammortamenti nei primi sei mesi del 2022. Sullo scacchiere europeo la compagnia è la ventesima per numero di voli, nonostante il nostro sia il quarto mercato Ue. Mentre altri vettori sono tornati al 99% dell’offerta pre pandemia, secondo i dati Eurocontrol Ita fa solo il 58% dei voli dell’Alitalia commissariata e ha una quota dei mercato dell’8% contro il 13% pre Covid. Significa 330 voli giornalieri mentre la vecchia compagnia ne faceva oltre 570. Eppure al battesimo della newco hanno raccontato che le piccole dimensioni erano una risposta alla debolezza della domanda e che Ita sarebbe cresciuta seguendo la ripresa del mercato.
recupero difficile
Invece il mercato ha accelerato e la compagnia non è riuscita ad agganciare la corsa. Ne hanno approfittato le low cost. Sui soli voli nazionali, i quattro principali vettori a basso prezzo hanno offerto nel mese di agosto un milione e mezzo di posti in più rispetto al 2019, Ita mezzo milione in meno. Solo Ryanair 766 posti in più. È evidente che si sono avvantaggiate dal ridimensionamento di Alitalia.
Sul futuro di Ita pendono anche problemi di organico. Circa 1.300 ex dipendenti di Alitalia hanno fatto ricorso ai tribunali dopo la loro esclusione dagli organici della nuova compagnia facendo leva sull’articolo 2112 del codice civile che tutela i lavoratori nelle situazioni di continuità aziendale tra vecchia e nuova società. Se dovessero vincere le cause, i nuovi acquirenti si troverebbero a dover pagare un migliaio di stipendi in più.
«Impossibile reggere il ritmo delle low cost». Sì alla cessione
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Riduci
In 47 anni divorati oltre 10 miliardi di euro. Nessun governo ha mai risolto i guai della compagnia di bandiera. Ora si affrontano due cordate: Draghi preme ma il ministro Franco pone condizioni.Il presidente di Assaeroporti Carlo Borgomeo: il trasferimento farà bene ai lavoratori, ai contribuenti e all’intero sistema.La numero uno delle agenzie di viaggio Ivana Jelinic: azzeccate le scelte commerciali per l’estate.L’esperto di trasporti Ugo Arrigo: «La nuova gestione ha tagliato tutto tranne che le perdite. Ma ha conservato il posto ai sindacalisti».Lo speciale contiene quattro articoliUn’idrovora mangiasoldi, la più lunga telenovela della storia economica italiana che ha attraversato le due Repubbliche con il suo fardello sempre più pesante di debiti. Tutti i governi si sono trovati di fronte al bivio se vendere o ripianare le perdite di Alitalia. Hanno scelto la seconda strada sia per la pressione dei sindacati sia per comodità, perché era più facile buttare in un carrozzone altri miliardi piuttosto che cercare un partner danaroso che si accollasse i debiti senza fiatare e lasciasse al governo potestà sulle decisioni più importanti. L’ultima svolta si è avuta un anno fa, quando cambiando il nome (da Alitalia a Ita), mettendo alle hostess una divisa nuova e tagliando un po’ di rotte si pensava di resuscitare il moribondo. Ma ora per la compagnia di bandiera la resa dei conti sembra arrivata. Il premier Mario Draghi ha promesso di gestire di persona la vendita, facendone l’«happy end» del suo mandato. Ma le elezioni si avvicinano e ancora non si vede l’uscita dal tunnel. Gli aspiranti compratori sono due, la cordata Msc-Lufthansa e il fondo Usa Certares. Il dicastero dell’Economia però ha storto il naso sul prezzo offerto: 850 milioni dalla prima cordata e 600 dagli americani. Il ministro Daniele Franco lo ritiene poco, per quello che resta pur sempre un marchio glorioso. partecipazioni e dirittiNon solo. Pare che Via XX Settembre rivendichi una partecipazione di minoranza, tra il 20 e il 40%, e il diritto di intervenire sulle scelte strategiche. Draghi dovrebbe dipanare la matassa prima delle elezioni, ma pochi credono che ce la farà. Tant’è che Giorgia Meloni ha già detto che il nuovo governo potrebbe non essere d’accordo sulla cessione. Una dichiarazione in linea con uno dei pilastri del programma di FdI in cui si ribadisce la difesa dei gioielli imprenditoriali italiani. Gli altri partiti si sono ben guardati da impantanarsi su questo tema, sperando che Draghi faccia il miracolo e tolga le castagne dal fuoco. Il nodo Ita non ha fatto capolino in nessuna delle promesse elettorali. Enrico Letta sa bene che è un terreno minato da dove è preferibile tenersi lontano. Nel 2013, con Maurizio Lupi ministro dei Trasporti, travasò nella compagnia 150 milioni da Poste Italiane che furono risucchiati come una goccia nel deserto. Al capezzale di Alitalia sono accorsi in passato anche altri politici, adesso candidati eccellenti a guidare il nuovo governo ma che evitano di pronunciarsi sul tema. Matteo Renzi a Palazzo Chigi ebbe la trovata di bussare agli arabi di Etihad che si accollarono Alitalia per poco più di due anni ma, dopo aver perso 1,3 miliardi, dissero arrivederci e grazie.Nel 2017 gli azionisti chiesero al ministero dello Sviluppo economico l’amministrazione straordinaria. Ed è a quel punto che troviamo Carlo Calenda, che da ministro dello Sviluppo pensava di risolvere la questione nominando tre commissari straordinari ed elargendo un prestito ponte prima di 600 milioni e poi di altri 300 milioni. I tre commissari avrebbero dovuto vendere, ma si lasciarono sfuggire l’offerta del fondo Cerberus. dalle fs ad atlantiaAnche il suo successore, Luigi Di Maio, si è cimentato nel risiko Alitalia, lanciando la sinergia con Ferrovie che avrebbe dovuto creare una cordata cercando un partner. A un certo punto spuntò Atlantia, quella del Ponte Morandi, che con la tedesca Lufthansa avrebbe dovuto intervenire. Fu un altro fallimento. In 46 anni di aiuti, la compagnia di bandiera ha assorbito almeno 10 miliardi di euro dallo stato, di cui 500 milioni negli ultimi due anni: un ennesimo prestito ponte di 400 milioni di euro previsto in un decreto del dicembre 2019 più altri 100 milioni nel decreto Sostegni bis (2021) per finanziare il rimborso dei biglietti già venduti da Alitalia ma relativi a voli che sarebbero stati operati dal nuovo vettore.Oggi Ita ha ben poco del gioiellino italico. Il Corriere della Sera ha stimato una perdita operativa di 260 milioni ante ammortamenti nei primi sei mesi del 2022. Sullo scacchiere europeo la compagnia è la ventesima per numero di voli, nonostante il nostro sia il quarto mercato Ue. Mentre altri vettori sono tornati al 99% dell’offerta pre pandemia, secondo i dati Eurocontrol Ita fa solo il 58% dei voli dell’Alitalia commissariata e ha una quota dei mercato dell’8% contro il 13% pre Covid. Significa 330 voli giornalieri mentre la vecchia compagnia ne faceva oltre 570. Eppure al battesimo della newco hanno raccontato che le piccole dimensioni erano una risposta alla debolezza della domanda e che Ita sarebbe cresciuta seguendo la ripresa del mercato. recupero difficileInvece il mercato ha accelerato e la compagnia non è riuscita ad agganciare la corsa. Ne hanno approfittato le low cost. Sui soli voli nazionali, i quattro principali vettori a basso prezzo hanno offerto nel mese di agosto un milione e mezzo di posti in più rispetto al 2019, Ita mezzo milione in meno. Solo Ryanair 766 posti in più. È evidente che si sono avvantaggiate dal ridimensionamento di Alitalia. Sul futuro di Ita pendono anche problemi di organico. Circa 1.300 ex dipendenti di Alitalia hanno fatto ricorso ai tribunali dopo la loro esclusione dagli organici della nuova compagnia facendo leva sull’articolo 2112 del codice civile che tutela i lavoratori nelle situazioni di continuità aziendale tra vecchia e nuova società. Se dovessero vincere le cause, i nuovi acquirenti si troverebbero a dover pagare un migliaio di stipendi in più. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-grande-disastro-lo-scandalo-alitalia-ita-2657892604.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="impossibile-reggere-il-ritmo-delle-low-cost-si-alla-cessione" data-post-id="2657892604" data-published-at="1661060513" data-use-pagination="False"> «Impossibile reggere il ritmo delle low cost». Sì alla cessione Carlo Borgomeo, presidente di Assaeroporti, in estate il traffico aereo è esploso sopra le più ottimistiche previsioni. Quanto di questo traffico, soprattutto nazionale, è stato sottratto a Ita dalle compagnie low cost? «L’aumento del traffico aereo ha riguardato tutti i vettori. È difficilissimo rispondere alla domanda con una percentuale. Il nostro non è più un sistema in cui “naturalmente” i voli nazionali sono appannaggio di Ita con le altre compagnie che le sottraggono passeggeri. In un regime di concorrenza, per fortuna, le quote di mercato vengono decise dalle scelte dei viaggiatori che premiano la qualità del servizio, i prezzi e soprattutto la disponibilità di connessioni». Quali sono i rischi della vendita di Ita? «Nessuno. Il vero rischio è che l’operazione non vada in porto». E quali invece le opportunità? «Quella che l’ennesima operazione di salvataggio dell’ex Alitalia abbia finalmente un epilogo positivo. Ciò sarebbe importante per i lavoratori, per i contribuenti e per l’intero trasporto aereo nazionale». Cosa accadrebbe in caso di mancata vendita? «Quello che tutti temiamo e sappiamo: per le attuali dimensioni (numero di aeromobili e connessioni), Ita non reggerebbe il confronto con le compagnie low cost e gli altri vettori legacy». La cessione avrebbe un impatto negativo sugli scali di Fiumicino e Milano? «Non credo, anzi la maggiore offerta di collegamenti potrebbe avere effetti positivi, considerato che attualmente non tutti gli slot assegnati a Ita sono sempre utilizzati». Con la vendita a Lufthansa, la cordata più accreditata, l’Italia diventerebbe marginale a vantaggio degli aeroporti tedeschi? «No. Le offerte di acquisto presentate e valutate dal governo escludono ipotesi di cannibalizzazione. L’acquisto di Ita significa per la compagnia tedesca integrare e aumentare l’offerta, non certo eliminare un concorrente». E in caso di cessione al fondo americano quali equilibri verrebbero a crearsi? «È presto per una valutazione compiuta. In ogni caso, il futuro di Ita dipenderà dal piano industriale e dalla prevista integrazione con altre realtà. Le uniche chance sono collegate a una partnership valida». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-grande-disastro-lo-scandalo-alitalia-ita-2657892604.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="ce-la-smania-di-svendere-in-fretta-senza-certezze-sui-piani-industriali-no-alla-cessione" data-post-id="2657892604" data-published-at="1661060513" data-use-pagination="False"> «C’è la smania di svendere in fretta senza certezze sui piani industriali». No alla cessione «C’è una smania di vendere velocemente ma i risultati estivi sono positivi. La compagnia ha affrontato il boom di domanda del turismo meglio di altri vettori che hanno dovuto annullare i voli lasciando a terra i passeggeri. Meglio andare cauti con la privatizzazione, non c’è chiarezza sui piani industriali delle due cordate che hanno presentato le offerte». Ivana Jelinic, presidente della Fiavet, la federazione delle imprese di viaggi e turismo, frena sulla cessione: «Mi sembra un salto nel vuoto, mancano i dettagli delle strategie future. Sarebbe meglio aspettare, che fretta c’è?». Ma i conti non sono affatto brillanti. «La vendita poteva avere un senso quando la compagnia era veramente in condizione critica, con grandi perdite, ma oggi la newco nata a ottobre funziona. I risultati estivi sono positivi. Le scelte commerciali sono state azzeccate, sia sulle tratte sia sulla gestione. Le cancellazioni sono state ridotte al minimo e sulle rotte nazionali Ita è stata il vettore la più puntuale. Mentre le low cost sono andate in affanno, Ita si è distinta per risultati brillanti. Forse c’è ancora personale in esubero e il nuovo marchio probabilmente non ha aiutato come previsto: di solito ci vogliono anni prima che un nuovo brand sia ricordato dal mercato». Quindi secondo lei non c’è l’urgenza di vendere? «Non vedo una situazione di emergenza. Sicuramente l’Europa non ha voluto bene alla vecchia Alitalia; togliendole slot importanti e riducendo il volume del traffico, l’ha danneggiata. Ita sta funzionando perché si è concentrata sulle rotte nazionali come farebbe una compagnia di bandiera, riducendo quelle intercontinentali. Dei potenziali acquirenti si conoscono solo le offerte economiche: non vorrei che un domani avessimo sorprese spiacevoli». Di che tipo? «Non sarebbe la prima volta che grandi compagnie acquisiscono realtà più piccole e finiscono per smantellarle o ridurle al rango di low cost». Pessimista? «No, ma consiglio prudenza. Servono più informazioni sui piani futuri. Msc-Lufthansa conta sui capitali del gruppo crocieristico. La cordata americana è più focalizzata sull’internazionale». La vendita di Ita avvantaggerà le low cost? «Le low cost sono già entrate in modo prepotente sul mercato nazionale e spadroneggiano su alcune tratte. Ryanair per anni ha goduto di massicci contributi pubblici erogati dagli aeroporti minori e dalle regioni diventando quasi monopolista su alcuni collegamenti». Si riferisce alla Sardegna? «Esatto. È stata fatta entrare la spagnola Volotea che poi non ha coperto tutta la domanda. Ita è stata costretta a subentrare e garantire la continuità territoriale, cioè la possibilità per i sardi di volare a tariffe più basse ma senza i fondi regionali concessi a Ryanair, meno attenta alle esigenze territoriali perché focalizzata sui profitti. La tratta Roma-Olbia è arrivata a 600-700 euro». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-grande-disastro-lo-scandalo-alitalia-ita-2657892604.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="il-bilancio-e-chiaro-ora-le-cose-vanno-peggio-del-passato" data-post-id="2657892604" data-published-at="1661060513" data-use-pagination="False"> «Il bilancio è chiaro. Ora le cose vanno peggio del passato» La telenovela Alitalia-Ita è davvero alle battute finali, come fa capire Mario Draghi? Ugo Arrigo, docente di economia politica all’università Bicocca di Milano ed esperto di trasporti, non trattiene un tono ironico: «Saperlo...». Draghi ha davvero intenzione di risolvere la vendita o la lascerà al nuovo governo? «Per Draghi chiudere la partita Alitalia significherebbe uscire da Palazzo Chigi alla grande, risolvendo una questione che si trascina da oltre vent’anni». I tempi sono stretti. «Entro il 25 settembre dev’esserci il contratto di cessione. Se si supera la data elettorale senza decidere, l’operazione rischia di bloccarsi: la vittoria del centrodestra sembra sicura e Giorgia Meloni già si è espressa contro la vendita». Però i paletti del Tesoro non facilitano la vendita, le pare? «Non si capisce come mai, pur restando Ita in condizione disastrata, il Mef si ostini a porre condizioni che potrebbero scoraggiare le cordate acquirenti. Dovrebbe piuttosto stendere un tappeto rosso. Per i giornali filogovernativi tutto va bene e sembra ci sia la fila per comprare la compagnia; ma per i dati di bilancio Ita va peggio di Alitalia nel momento più difficile». A che gioco sta giocando il Mef? «Il ministero ha sul groppone una società che va venduta al più presto, altro che chiedere agli acquirenti la quota di minoranza o pretendere un ruolo nelle strategie. Da qui a dicembre, le nuove perdite faranno scendere ancora il valore del vettore e sarà più difficile trovare un acquirente». Siamo tornati alle privatizzazioni caotiche dell’Iri di Romano Prodi di 30 anni fa? «In passato ho lavorato anche al Tesoro e almeno negli anni Novanta sembrava che non capissero granché di imprese pubbliche. Temo che la situazione non sia radicalmente migliorata, tant’è che il Mef si rivolge spesso a costosissimi advisor. Non mi stupirei se qualcuno di questi consulenti avesse suggerito di porre paletti». Si rischia che le due cordate facciano un passo indietro? «Certo, soprattutto se dovesse insediarsi una maggioranza politica ritenuta ostile. Accadde nel 2008 con Air France, che già aveva avuto il via libera da Prodi per l’acquisto di Alitalia ma con l’arrivo di Berlusconi si ritirò. Nessuno va contro il governo». Quale è la situazione di Ita? «Secondo stime preliminari, le perdite dei primi sei mesi dell’anno si attesterebbero su 300 milioni di euro. I ricavi nel semestre sono stati poco più della metà dei costi mentre negli ultimi mesi del 2021 solo un terzo. La vecchia Alitalia perdeva 1 euro ogni 6 di costi, il 16%. Ita quindi va peggio: perde lo stesso in cifra assoluta, ma è dimezzata. Per scelta esplicita del piano industriale, perde rotte e passeggeri. I vettori esteri stanno effettuando sull’Italia il 99% dei voli che realizzavano prima del Covid: circa 3.730 su 3.760 in media al giorno. Ita invece opera 330 voli giornalieri contro 570 dell’Alitalia commissariata. Nelle audizioni ci hanno raccontato che le piccole dimensioni del nuovo vettore statale erano una risposta alla debolezza della domanda e che Ita sarebbe cresciuta seguendo la ripresa del mercato. Questo però non è avvenuto e la sua quota di mercato, misurata sui voli, è scesa dal 13% del 2019 all’8% attuale». È stato lasciato campo libero alle low cost? «Le low cost hanno aumentato passeggeri prendendoli a Ita che invece, scommettendo su una ripresa del settore nel prossimo anno, ha affrontato l’estate sottodimensionata. Sui voli nazionali, i quattro principali vettori low cost hanno offerto ad agosto un milione e mezzo di posti in più rispetto al 2019, Ita mezzo milione in meno». Che vantaggi avrebbero le cordate dall’acquisto di Ita? «A Lufthansa interessa prendere passeggeri del Nord Italia, portarli a Francoforte e Monaco e di lì nel mondo». E il fondo americano? «Porta avanti gli interessi di Air France, Delta e Klm. Secondo me sono in pista soprattutto per contrastare Lufthansa, il principale concorrente». Rischi per il personale? «Penso sia stato già tagliato secondo quanto chiesto da Lufthansa. Ma non escludo altri tagli». I sindacati non sono preoccupati? «Ma quando mai. Ita ha lasciato a casa il 70% dei dipendenti e conservato il posto ai sindacalisti. Dubito si oppongano alla vendita». E se la vendita saltasse? «Sarebbe un bel problema. L’azienda così non regge. Ricomincerebbero le ricapitalizzazioni con il travaso di almeno 400-500 milioni l’anno. Converrebbe di più chiuderla».
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Riduci
Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Riduci
Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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