
Joe Biden frena sulla pubblicazione del rapporto sull'uccisione del giornalista, ma cambiano le relazioni con Riad. Gli imbarazzanti silenzi del Bullo che durante la crisi andò a baciare la babbuccia al principe. Il M5s si scatena. Si avvicina la verità sul caso di Jamal Khashoggi, il giornalista barbaramente ucciso nell'ottobre 2018, all'interno del consolato saudita di Istanbul. Era originariamente attesa ieri la pubblicazione del rapporto dell'intelligence statunitense sulla questione: pubblicazione che è tuttavia slittata, in attesa del colloquio -pare imminente - tra Joe Biden e re Salman. Tuttavia, secondo anticipazioni riportate da Reuters, il documento «rileva che il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman ha approvato l'omicidio del 2018 del giornalista Jamal Khashoggi». Non solo: i funzionari statunitensi, ascoltati da Reuters, hanno anche aggiunto che il principe ereditario avrebbe «probabilmente ordinato» l'assassinio. Pur avendo comminato sanzioni a diciassette sauditi coinvolti nell'omicidio, l'allora presidente americano Donald Trump aveva trattenuto il rapporto, dal momento che la sua politica mediorientale si basava su una salda alleanza con Riad (soprattutto per arginare i Fratelli musulmani). Era comunque trapelato che la Cia avesse individuato il responsabile dell'omicidio in Mbs, il quale ha invece sempre negato un coinvolgimento personale. Tutto questo, mentre l'amministrazione Biden - che punta a un'apertura all'Iran anche attraverso un raffreddamento delle relazioni con l'Arabia Saudita - aveva fin da subito manifestato l'intenzione di rendere pubblico il rapporto. D'altronde, ieri, la Cnn aveva rivelato che i due jet privati utilizzati dagli assassini di Khashoggi appartenevano a una compagnia aerea di cui lo stesso Mbs si era appropriato circa un anno prima. Si trattava di velivoli della Sky prime aviation che, su ordine del principe, era stata trasferita - a fine 2017 - nel Public investment fund: fondo controllato dalla corona saudita e di cui Mbs - operato proprio ieri di appendicite - è presidente. Una serie di circostanze che rischia di mettere seriamente in imbarazzo Matteo Renzi. Non è un mistero che, lo scorso gennaio, il senatore si sia recato in Arabia Saudita, per prendere parte alla Future investment initiative: conferenza annuale, ospitata proprio dal Public investment fund. Renzi non solo ha avuto modo di interloquire pubblicamente con lo stesso Mbs, ma si è anche sperticato in elogi. «È un grande piacere e onore essere con il grande principe ereditario Mohammad bin Salman», dichiarò. «Ci sono le condizioni affinché l'Arabia possa diventare il luogo per un nuovo Rinascimento», aggiunse. Non solo. Per l'occasione, Renzi scrisse un discorso a quattro mani con il businessman marocchino, Richard Attias: membro, come lo stesso Renzi, del board del Future investment initiative institute (una poltrona, tra l'altro, «discretamente» remunerata). La cosa suscitò scalpore non solo perché l'ex premier se n'era andato in Arabia nel mezzo della crisi di governo italiana, ma anche (e soprattutto) per i legami con una figura - quella di Mbs - così controversa. Anche perché parliamo di un senatore in carica della Repubblica italiana: membro, tra l'altro, della commissione Difesa. Finito nella bufera, assicurò che avrebbe spiegato tutto a crisi di governo conclusa. Ebbene, è una settimana che il nuovo esecutivo ha ottenuto la fiducia, ma di spiegazioni -per ora - neanche l'ombra. Il problema per Renzi è adesso duplice. In primis, si pone una questione di politica interna, che rischia di determinare fibrillazioni in seno alla stessa maggioranza di governo. Ieri i deputati del Movimento 5 stelle in commissione Esteri hanno emesso un comunicato molto duro verso l'ex premier per le sue connessioni con Mbs. «Sia nella crisi yemenita che nel rispetto dei diritti umani interni, il comportamento del regime saudita non può essere più tollerato quindi bene la decisione intrapresa dagli Usa. A Renzi invece cosa dire? Adesso dovrà decidere con quale amico schierarsi!», hanno tuonato i parlamentari grillini. Ecco che dunque l'affaire saudita rischia di costituire un casus belli per rompere la (fragile) tregua armata tra Italia viva e i pentastellati: quei pentastellati che non hanno certo perdonato a Renzi di aver innescato la crisi del governo giallorosso. In secondo luogo, si scorge un problema internazionale. Una delle ragioni che hanno spinto il senatore a coltivare i legami sauditi risiede probabilmente nella volontà di rafforzare le connessioni con alcuni settori del Partito democratico americano. Attias vanta del resto storici rapporti con la Fondazione Clinton: una realtà che, negli anni passati, aveva ricevuto donazioni proprio dall'Arabia Saudita. Eppure, il cambio di passo impresso da Biden rischia ora di costituire un problema per Renzi, che si ritrova associato a un leader messo all'angolo dagli Stati Uniti e sul cui capo pendono gravi accuse. Se è infatti improbabile che Washington romperà i propri legami con Riad, è chiaro che la Casa Bianca non abbia intenzione di avere il principe ereditario come proprio interlocutore: Biden ha infatti già fatto sapere di volersi relazionare con re Salman e non con suo figlio. Un elemento tanto più significativo se si guarda all'impegno dichiarato dalla nuova amministrazione americana nella tutela dei diritti umani (nonostante l'oggettivo paradosso dell'apertura all'Iran khomeinista). Il rischio per Renzi è insomma quello di vedersi guastati i rapporti con i dem d'oltreatlantico. Un bel problema, soprattutto se il senatore ha realmente intenzione di puntare a qualche incarico internazionale (magari - chissà - la poltrona di segretario generale della Nato).
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Al Museo Archeologico Regionale di Aosta una mostra (sino al 19 ottobre 2025) che ripercorre la vita e le opere di Pablo Picasso svelando le profonde influenze che ebbero sulla sua arte le sue origini e le tradizioni familiari. Un’esposizione affascinante, fra ceramiche, incisioni, design scenografico e le varie tecniche artistiche utilizzate dall’inarrivabile genio spagnolo.
Jose Mourinho (Getty Images)
Con l’esonero dal Fenerbahce, si è chiusa la sua parentesi da «Special One». Ma come in ogni suo divorzio calcistico, ha incassato una ricca buonuscita. In campo era un fiasco, in panchina un asso. Amava avere molti nemici. Anche se uno tentò di accoltellarlo.