2018-09-13
Il dio dei motori scarica Fenati e incorona il suo opposto Leclerc
La carriera del motociclista ribelle finisce in un incubo: non correrà più per aver toccato il freno di Stefano Manzi, rischiando di ucciderlo. Il sogno del principino monegasco invece si compie: a vent'anni guiderà la Ferrari.Tieni giù le mani. Sarebbe bastato il consiglio a muso duro di un amichetto delle medie, perché certe regole di vita non te le insegnano i genitori; conta il marciapiede. Un «tieni giù le mani» ben assestato dieci anni fa e adesso Romano Fenati invece che un commesso ferramenta nel paradiso della brugola del nonno ad Ascoli sarebbe un potenziale erede di Valentino Rossi, coraggioso, veloce e cattivo quel che serve. Invece è fuori, cacciato via dalla squadra di oggi e da quella di domani (la Mv Agusta di Giovanni Castiglioni), dannato con una patente inutile, a rischio radiazione a 22 anni.A tradire questo irascibile, guascone, purissimo talento sono sempre state le mani, più veloci del pensiero. La sinistra, che domenica a Misano in pieno delirio ha usato per pinzare (nel gergo dei bikers si dice così) il freno di Stefano Manzi, rischiando di causare una caduta rovinosa al rivale. La destra, che nel gran premio d'Argentina del 2015 ha agitato in faccia per un intero di giro di riscaldamento al finlandese Niklas Ajo, condendo l'approccio da rissa con un calcio. Ancora la sinistra che, sempre in quello scenario, ha usato per chiudere il rubinetto della benzina di Ajo alla partenza. Tutte e due sfoderate per insultare i santi e spingere sul petto Fabio Di Giannantonio nella prova partenze del gran premio d'Austria del 2017, colpevole di averlo a suo dire rallentato nel giro buono di qualifica. In fondo agli imbarazzanti show che si contrappongono ai successi d'una classe cristallina (era il giovane di punta dell'Academy di Valentino, secondo posto nel mondiale Moto3, promozione in Moto2) si rimane sconcertati. L'immagine e il suo doppio: il potenziale campione e il bullo di quartiere che sgonfiava il materassino alle ragazze o metteva la puntina sulla sedia al compagno di classe in piedi per l'appello. Per Romano il Cinghialotto, come aveva cominciato a chiamarlo l'entourage di Valentino, ti viene solo una domanda: come fai a essere così bimbominkia? Se gliel'avesse fatta quell'amichetto immaginario, e se fosse stato Charles Leclerc, forse lo avrebbe guarito. Nato a Montecarlo vent'anni fa, l'enfant prodige dei motori del Principato non ha mai appoggiato neppure i gomiti sul tavolo, non si fa. Guardava i bolidi rallentare davanti al Casinò e inchiodare alla curva Mirabeau dal terrazzo di casa; lo stesso giorno della squalifica di Fenati ha firmato con la Ferrari per il prossimo anno. Il sogno e l'incubo, Ettore e Achille, il principino e il reprobo, millennial interpreti opposti di un destino che puzza di gomma bruciata e di vita. E che conduce uno a Maranello in tuta ignifuga e l'altro nella ferramenta del nonno col grembiule. Quella di Leclerc è la storia di un predestinato. Sarà il secondo pilota più giovane ad aver mai guidato una Ferrari in Formula 1, dopo il messicano Ricardo Rodriguez che nel 1961 corse a 19 anni. Fu battezzato fenomeno da Sergio Marchionne quando era deus ex machina di Fca con la frase: «È il giovane più talentuoso della Formula 1, dal perfetto profilo Ferrari». Louis Camilleri e John Elkann hanno confermato tutto, anticipando di un anno l'arrivo del ragazzo dalla succursale della Sauber Alfa Romeo, anche per tamponare gli ultimi dissapori (sempre molto bene mitigati) fra Sebastian Vettel e Kimi Raikkonen. In una stagione dominata dal gioco di squadra - con Lewis Hamilton bravo a sfruttare la disponibilità del numero due della Mercedes, Vallteri Bottas, per fare la differenza -Raikkonen (ultimo driver a portare la Rossa a vincere il Mondiale nel 2007) ha sempre rifiutato un ruolo da subalterno. La vicenda è curiosa perché proprio a Maranello nacque e venne affinata la strategia del pilota gregario, quando Michael Schumacher dominava e Rubens Barrichello fungeva da cameriere. Ruolo che non sarebbe mai stato accettato da rivali come Mika Hakkinen, David Coulthard (McLaren Mercedes), Juan Pablo Montoya e Ralf Schumacher (Williams Bmw). Leclerc è un potenziale campione, dai tempi dei kart e della F2 mostrava una caratteristica del tutto inusuale per un giovane: sapeva gestire le emozioni e le pressioni come un veterano, e come Fenati non riuscirebbe mai. Se ne accorse subito il papà di Jules Bianchi, amico di Leclerc, sfortunatissimo pilota morto nel 2015 dopo nove mesi di coma in seguito a un incidente nel gran premio del Giappone 2014, alla guida di una Marussia. Anche Leclerc ha sfiorato il dramma il 26 agosto scorso sul velocissimo circuito belga di Spa, quando la McLaren di Fernando Alonso gli è volata sulla testa sfiorandolo. Il giovane neoferrarista è stato salvato dall'Halo, barra curva di sicurezza imposta dalla Fia a protezione dell'abitacolo. Finora al massimo è arrivato sesto in Azerbaigian, ma al suo debutto in Formula 1 il monegasco è andato a punti in 5 gare su 14 e ha surclassato in affidabilità la prima guida della scuderia Marcus Ericsson. «Il momento più difficile è quando il cavallo bianco si trasforma in cavallo nero e tu non puoi farci niente, ne sei travolto», racconta un veterano delle due ruote come Andrea Dovizioso. È una metafora calzante: Leclerc sa galoppare sul cavallo bianco della serenità, Fenati viene trascinato negli abissi dal cavallo nero della rabbia. Due giovani dalle pulsioni e dalle reazioni opposte, dai destini dominati dal sistema nervoso. Come Bjorn Borg che sapeva tenere a bada il vulcano delle emozioni e John McEnroe che aveva bisogno di farlo eruttare contro il mondo per provare a diventare invincibile. Ma anche lo svedese, da ragazzino, aveva distrutto racchette e pianto di rabbia; per questo riconosceva nel rivale la debolezza e la comprendeva trasformando quel sentimento in affetto. Non si è mai immuni da sé stessi. Per il divino Leclerc potrebbe essere un monito letterario, per il reietto Fenati un salvagente tardivo. L'ha fatta troppo grossa e domani dovrà presentarsi davanti al tribunale della federazione motociclistica italiana accompagnato dall'avvocato: tira aria di radiazione. Poi dovrà andare a Mies, in Svizzera, dove lo aspettano i vertici della federazione internazionale, ma qualcosa di peggio non esiste. Lui ha per tutti la stessa frase: «Ho sbagliato, chiedo scusa. Volete vedere il mio casco e la tuta? C'è una lunga striscia nera, la gomma di Manzi. Mi ha attaccato tre volte e anche lui avrebbe potuto uccidermi come dite voi. Non volevo fargli male, ma solo dimostrargli di poter essere cattivo come lui». È sempre la stessa storia. Avrebbe dovuto usare la testa, invece ha usato le mani.
Charlie Kirk (Getty Images)