2023-06-13
Il cumenda acchiappavoti diventato statista vincente non lascia eredità politica
Incarnando pregi e difetti dei suoi connazionali, è stato l’uomo più importante di questo Paese negli ultimi 30 anni. Per primo fiutò l’esistenza di un ceto medioborghese stanco della sinistra assistenzialista e pronto a dargli fiducia.Il leone è tornato nella foresta. Se n’è andato a 86 anni sazio di giorni, è entrato nella Storia dopo l’ultima battaglia al San Raffaele, il suo ospedale. Non contro gli avversari politici, non contro i pregiudizi o per imporre la rivoluzione liberale. L’ha combattuta contro la leucemia mielomonocitica cronica che lo accompagnava da due anni. Sull’Arcitaliano per eccellenza, ogni giorno in prima pagina da mezzo secolo, si è spenta la luce della telecamera. Ora al Paese che lo ha amato e lo ha avversato rimane il ricordo di un mattatore inimitabile. «MI DICO: BRAVO»Quel giorno a Madrid, nella sala congressi dell’Hotel Hyatt, c’era tutta la stampa d’Europa. Giornalisti e operatori tv aspettavano, abbarbicati gli uni sugli altri, Silvio Berlusconi da poco uscito dal più surreale degli interrogatori davanti a Baltasar Garzon, un piccolo torquemada a pila, per l’inchiesta Telecinco. Era il 1998 e il Cavaliere fremeva all’opposizione, dinamico dentro la stagione del «mi consenta» mentre l’Ulivo del premier Romano Prodi stava per essere distrutto dalla xylella iniettata da Massimo D’Alema. Apparve sulla soglia abbronzato e con i capelli asfaltati, Berlusconi, ma prima di avanzare verso il centro della sala si fermò davanti a uno specchio appeso alla parete. Si scrutò, sussurrò tre volte «bravo» e poi si consegnò alle domande. A chi gli chiese cosa significasse quel prologo rispose: «Quando passava davanti allo specchio, una mia zia si guardava e diceva: «Marina, cume te se bela». Poi mi spiegava: “Silvio, se non te lo dice nessuno, fallo da solo. Migliora l’autostima”». Si voleva bene, Berlusconi, e ne ha voluto così tanto all’Italia da incarnarne pregi e difetti, sensibilità e ambiguità, sogni e amarissimi risvegli fra il crepuscolo del secolo breve e la giovinezza del secolo matto.da isola a «forbes»Era nato a Milano nel quartiere popolare Isola (oggi la Manhattan d’Italia) il 29 settembre 1936 - titolo di una canzone di Lucio Battisti -, da papà Luigi, bancario, e da mamma Rosa, la più amata. Ha avuto cinque figli da due mogli diverse. Era l’uomo «con il sole in tasca», come si definiva negli anni di Milano 2 della prima Fininvest. È stato tutto. Chitarrista sulle navi da crociera con Fedele Confalonieri al pianoforte. «E con un imperdonabile difetto», spiegava quello che sarebbe stato il suo più prezioso consigliere. «A un certo punto lasciava la pedana e scendeva a ballare. Relazioni pubbliche, diceva». È stato Imprenditore da classifica mondiale di Fortune e Forbes. Pioniere televisivo e inventore della tv commerciale in Italia dove gli altri - compresi i Rizzoli e i Mondadori - fallivano. Politico che per primo fiutò l’esistenza di un’Italia postfordista medioborghese, stanca dei luoghi comuni della sinistra assistenzialista, veterocomunista, da sacrestia. Un’Italia pronta a votarlo. È stato il premier che per tre volte promise la rivoluzione liberale e per tre volte se la dimenticò. E ancora presidente del Milan con 29 trofei in 31 anni, cinque volte campione d’Europa. Al ministro Luigi Spaventa, suo avversario nel collegio elettorale, un giorno chiese in un dibattito: «Ma lei quante Champions ha vinto?». È stato satiro gaudente, seduttore atomico e qualche volta imbarazzante nella stagione delle cene eleganti. Amico dei potenti del mondo. Così italiano da fare le corna nella foto del vertice Ue di Caceres; da gridare a un G8 «mister Obama» mentre la regina Elisabetta si domandava «perché quello lì urla tanto?»; da definire kapò nazista l’europarlamentare socialista tedesco Martin Schultz. Così viveur da farsi immortalare nella dacia di Vladimir Putin. Ma così leader sferico da ottenere ciò che oggi nessuno è capace di fare: portare lo zar (era il 2002) a Pratica di Mare a un vertice Nato, a stringere la mano a George W. Bush. La Guerra fredda era davvero finita.Berlusconi è stato l’uomo più decisivo di questo Paese negli ultimi 40 anni. Con 3.340 giorni da presidente del Consiglio è stato il premier più longevo dopo Benito Mussolini e Giovanni Giolitti; anche i numeri hanno un loro perché. È finito dentro la Storia d’Italia, modellandola, e dentro il frullatore azionato dai nemici, che pur di annientare lui si sono politicamente suicidati. La sinistra lo ha odiato e demonizzato, la conferma oggi è la gastrite permanente sui social. Nel 2009 un fanatico tentò di sfregiarlo con una statuetta del Duomo di Milano. È finito dentro il casellario giudiziario e perfino dentro quattro film antipatizzanti, senza recitarvi. L’ultimo, Loro di Paolo Sorrentino, è stato un flop assoluto. E in fondo, al Cav è dispiaciuto perché il protagonista era lui.Se avesse potuto scegliere una foto pubblica per farsi rappresentare nell’eternità sarebbe stata quella con la coppa dalle grandi orecchie in testa. Atene, 18 maggio 1994: quella sera, mentre Daniele Massaro e Dejan Savicevic umiliavano il Barcellona favoritissimo di Johann Cruijff, lui otteneva la fiducia in Senato. Nasceva il suo primo governo. Il tycoon arrembante, trasposizione moderna del cumenda brianzolo vincente, diventava uno statista. E lanciava la seconda Repubblica.ENERGIA E VISIONEUn traguardo ritenuto impossibile, una vittoria contro la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto, l’imprimatur di una nazione in favore di un centrismo moderato capace di sdoganare e aggregare due estremità scomode: la destra storica di Alleanza nazionale diretta discendente del Movimento sociale di Giorgio Almirante e i barbari sognanti della Lega Nord arrivati dal pratone di Pontida, guidati da Umberto Bossi che prima di diventare suo amico per la pelle lo bollò come «Berluskaz» e gli fece assaggiare il sapore amaro del Ribaltone.Formidabili quegli anni, quando Berlusconi era un catalizzatore, uno straordinario acchiappavoti. Aveva energia e visione, il suo linguaggio diretto spazzava via i minuetti della politica old style, il suo salotto preferito era Porta a porta, il suo elicottero si chiamava I-Spot. Pretendeva di essere il numero uno in tutto. Disse Enzo Biagi: «Se avesse le tette farebbe anche l’annunciatrice». Elemento di corto circuito, amava cambiare le regole del gioco, spiazzava i polverosi travet fantozziani che si erano impadroniti della cosa pubblica. E dopo aver spolverato la sedia nell’iconica immagine tv, annientava l’intera cultura di sinistra - triste e paludata - dicendo a Michele Santoro: «Non sapete neanche scherzare». BATTAGLIE LEGALIFin dall’inizio aveva privilegiato l’intuito. Nel 1985, quando era costruttore nella Milano delle mille occasioni e aveva lanciato Edilnord alla realizzazione di Milano 2 nella piana di Segrate, proprio sotto le rotte degli aerei in decollo e atterraggio su Linate. Una sciagura per l’ufficio vendite, nonostante i doppi vetri. Lì vicino però c’era un prete visionario, don Luigi Verzè, che stava costruendo un ospedale (si sarebbe chiamato San Raffaele, oggi eccellenza mondiale) e aveva bisogno di alcuni terreni per completare il progetto. Soprattutto avrebbe potuto aiutarlo nella battaglia contro le rotte: gli ospedali necessitano di silenzio. L’alleanza fu immediata, gli aerei furono dirottati altrove e decollarono i benefici del valore al metro quadrato delle Berlusconi house. L’amicizia fra i due guerrieri durò per tutta la vita.Oggi l’uomo di Arcore non può essere raccontato che così, dentro il flusso di un impressionismo che privilegia il flash all’enciclopedia, che esalta l’aneddoto e deprime la Navicella parlamentare, che ci restituisce un fremito e un sorriso come avrebbe voluto lui. Senza dimenticare i pellegrinaggi in tribunale, inseguito dagli avvisi di garanzia (indimenticabile il primo a Napoli mentre presiedeva un convegno internazionale con Bill Clinton sulla criminalità organizzata) e dalle accuse deliranti di mafia e strage. Trentasei processi, una sola condanna: il segnale più concreto dell’accanimento giudiziario nei confronti dell’unico imputato che «non poteva non sapere». Poi l’espulsione dal Parlamento e la riabilitazione fortemente voluta. Tutto ciò gli ha comunque inibito il sogno di salire al Quirinale, sul colle più alto della città eterna, come gli imperatori.Il suo più grande trionfo elettorale è del 2001, quando insegue D’Alema fin sulla battigia di Gallipoli, feudo del líder Massimo, scendendo con l’elicottero a mandare in delirio i bagnanti e costringendo il numero uno della sinistra a raccattare voti nelle cucine delle pizzerie (lui che odia la gente) per strappare un posto in Parlamento. Lì Berlusconi ha l’Italia ai suoi piedi, gli elettori gli consegnano una carta di credito a scadenza illimitata per cambiare le regole del gioco e modernizzare il Paese. Non ci riesce, avvitato sui suoi problemi giudiziari e sul boomerang delle leggi ad personam. Il debito pubblico aumenta, l’euro senza controllo arricchisce il commercio e comincia a strangolare il ceto medio. Dirà alla fine di quella stagione: «Marco Follini e Gianfranco Fini non mi hanno lasciato compiere la rivoluzione liberale». Allora citava Winston Churchill: «Con amici come loro non ho bisogno dei nemici». Poi arrivano gli anni del riflusso, le bandane sarde a Villa Certosa, le cene al Tartarughino, il giovanilismo come prigionia dello spirito mentre l’Italia torna a dare credito all’uomo che più di ogni altro Berlusconi deplora: Romano Prodi. Il professore è il suo esatto contrario. Mentre il Cavaliere corre galoppando verso l’orizzonte incerto del bunga bunga (giustificazione per continuare a colpirlo all’infinito nei tribunali), l’altro si riprende Roma stando fermo come un semaforo: grigio, ripetitivo, avvezzo alle sacrestie, al basso profilo e al basso impero. Nel 2009, però, il Cav fa scuola al mondo per come gestisce l’emergenza terremoto all’Aquila, con Guido Bertolaso: rincuora le nonnine di Onna, pretende che gli albergatori che ospitano gli sfollati offrano loro pure il caffè. E dopo aver portato nel capoluogo abruzzese i grandi del mondo, nel giro di pochi mesi inaugura le prime case antisismiche. Amato, odiato, innalzato, diffamato, Berlusconi non lascia eredità politiche, lascia una scia. Un limite comune a molti grandi. Con il suo vellicare il popolo e le reazioni di pancia ha seminato il terreno per Beppe Grillo e se n’è amaramente pentito. Non avrebbe mai voluto vedere al potere l’armata Brancaleone a 5 stelle, inchiodata da una memorabile battuta: «Nella mia azienda non pulirebbero neanche i cessi». Con il suo linguaggio da re del marketing, con la politica-spettacolo e i contratti elettorali firmati da Bruno Vespa apre la porta alla stagione al vapore acqueo di Matteo Renzi. «Sarebbe perfetto per guidare il centrodestra», dice alla vigilia del Patto del Nazareno. Aggiungendo: «È un politico intelligente che ha sbagliato elettori». Fuori dal Parlamento ha saputo costruire torri di pietra. Fininvest e Mondadori sono i gioielli di Marina Berlusconi, Mediaset è un esempio vincente di azienda multimediale che il mondo vorrebbe, e infatti prima Rupert Murdoch, poi Vincent Bolloré hanno tentato di inghiottirla. Quanto a Forza Italia, è in declino non perché lo sia quell’idea moderata e liberale di Paese, ma perché tutti si sono accorti che dopo 30 anni di scatti e corse a perdifiato Gengis Khan era definitivamente stanco. Ha comunque fatto in tempo a vedere e appoggiare lealmente Giorgia Meloni a Palazzo Chigi.GIGANTE DI 1 METRO E 65Ora conta solo il giudizio della Storia. Ci si domanderà a lungo quale fosse, per questo gigante di un metro e 65 con i «tacchetti elettrici» (come ironizzava Bossi), la classifica delle priorità. Eccola: i figli, l’Italia, il Milan, il tubino nero sopra un tacco 12, la crostata di albicocche. Come spiegò Francesco Cossiga, «lui mangia la marmellata e lascia la frolla perché teme di ingrassare». Un giorno, al termine di un’intervista, mi prese da parte e mi disse: «Un piccolo grande cruccio della mia vita è stato vendere Pato per pagare gli alimenti a Veronica». In quel caso neanche la zia Marina gli avrebbe detto bravo.
Il cancelliere tedesco Friedrich Merz (Ansa)
Ursula von der Leyen (Ansa)
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L’area tra Varese, Como e Canton Ticino punta a diventare un laboratorio europeo di eccellenza per innovazione, finanza, sviluppo sostenibile e legalità. Il progetto, promosso dall’associazione Concretamente con Fabio Lunghi e Roberto Andreoli, prevede un bond trans-frontaliero per finanziare infrastrutture e sostenere un ecosistema imprenditoriale innovativo. La Banca Europea per gli Investimenti potrebbe giocare un ruolo chiave, rendendo l’iniziativa un modello replicabile in altre regioni d’Europa.