
Un think tank della destra Usa premia un libro sull'importanza della patria. Da noi, invece, i 5 stelle sono tentati dal globalismo.Ha ancora senso definirsi conservatori nell'era del populismo e del sovranismo? È dubbio che, in un'epoca postideologica, gli «ismi» abbiano ancora qualcosa di dirci. In più, mentre i populisti condividono l'insofferenza verso l'ordine globale liberale (che quindi non vogliono affatto conservare), sono divisi sui temi etici, come dimostrano i litigi tra Lega e 5 stelle sul World congress of families di Verona (e dunque, non c'è accordo su quali radici, valori e tradizioni valga la pena conservare).Eppure, esiste almeno un punto di contatto tra conservatori e populisti. Ed è un aspetto sul quale specie i grillini, scissi tra l'anima sovranista e quella globalista, dovrebbero riflettere. Lo spunto lo offre un autore che ha da poco vinto il premio per il libro conservatore dell'anno, bandito dal think tank americano Isi Institute (le celebrazioni si terranno il 30 marzo prossimo a Chicago). Il saggio si intitola The virtue of nationalism ed è stato scritto dall'israeliano Yoram Hazony. Ecco. Un premio conservatore celebra un libro che elogia le «virtù del nazionalismo». E che accusa le grandi entità sovranazionali, come l'Unione europea, di essere la riedizione dell'antica utopia degli imperi. Temi che dovrebbero toccare le corde dei populisti sovranisti. I quali possono rivendicare una battaglia di continuità storica rispetto alla tradizione che ha caratterizzato la modernità politica occidentale: lo Stato nazionale, appunto, la grande «invenzione» della nostra civiltà. Nella misura in cui i populisti sono anche sovranisti, cioè ritengono che siano gli Stati le uniche autorità legittimate a svolgere la funzione precipua della politica, che è quella di decidere, essi non possono che essere alleati dei conservatori. Non possono, cioè, che condividere una battaglia di principio che è tipicamente conservatrice, per almeno tre ragioni.Primo, perché, come abbiamo visto, il conservatorismo è la teoria politica della continuità storica. E la nostra storia politica è la storia della nascita e dello sviluppo degli Stati nazionali. La fine dell'universalismo religioso medievale e le tragiche conseguenze della Riforma protestante, che fece piombare per decenni l'Europa nella guerra, ci hanno consegnato in eredità la molteplicità delle nazioni, sorte della frammentazione dell'Impero germanico. Il globalismo liberal è un elemento spurio: è sorto dall'ubriacatura della vittoria sul comunismo (internazionalista, ma non globalista) e dall'illusione, non a caso, che la storia fosse finalmente finita. Cioè, che i problemi politici potessero essere ridotti a questioni tecniche e amministrative.Secondo, perché la battaglia per conservare gli Stati nazionali è una battaglia identitaria. Le nazioni siamo noi. Questo non significa scivolare nel nazionalismo aggressivo dei totalitarismi novecenteschi: quello postulava erroneamente che le nazioni fossero dei monoliti, caratterizzati da una perfetta omogeneità di valori. Il nazionalismo europeo, invece, è il nazionalismo del compromesso tra fedi religiose diverse, dei corpi intermedi, del faticoso percorso verso la democrazia come meccanismo per comporre le divergenze culturali. Fatto salvo, ovviamente, il brutale esperimento (totalitario, appunto) della Rivoluzione francese, non a caso aborrita dai conservatori, mentre i suoi padri putativi, come Jean Jacques Rousseau, resta l'eponimo della celebre piattaforma online dei 5 stelle.Terzo, perché le nazioni sono la conditio sine qua non della libertà, intesa come spazio di non interferenza, come la sfera in cui ciascuno è libero di decidere per sé. Il modo in cui i colossi globali e globalisti dell'economia trattano la nostra privacy, o la maniera in cui, nell'Ue, il decisore politico si è svincolato dai meccanismi di controllo democratico (mettendosi «al riparo dai processi elettorali», per dirla con Mario Monti), sono due esempi significativi di quanto il «superamento» degli Stati nazionali, salutato dalla vicepresidente della Camera Mara Carfagna su Twitter, sia pericoloso per la libertà degli individui e delle comunità. Certo, non è detto che le nazioni escano vincitrici dalla sfida con le superpotenze globaliste come la Cina. Ma una cosa è certa: un populismo non nazionale e, quindi, non conservatore, finisce per alimentare gioco forza «un'agenda europea alternativa ai sovranismi nazionali», sempre per citare la Carfagna. Materia di riflessione soprattutto per i grillini.
Emanuele Orsini (Ansa)
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