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2021-10-20
I polacchi sfidano lo strapotere Ue che pretende competenze improprie
Ursula von der Leyen (Asna)
L'aspro confronto andato in scena ieri durante la seduta dell'Europarlamento a Strasburgo prelude molto probabilmente a un serio peggioramento dei rapporti tra l'Unione europea e la Polonia. Le posizioni espresse dal primo ministro polacco Mateusz Morawiecki e dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen appaiono inconciliabili. Due universi separati. Dallo scorso 7 ottobre, in seguito a una sentenza della Corte costituzionale polacca, il livello dello scontro è salito ulteriormente poiché la Corte ha stabilito l'incompatibilità di alcuni articoli dei Trattati europei con la loro Costituzione. Da allora, si sono sprecati i commenti superficiali e grossolani di tutti i «mandarini di Bruxelles» (per usare una felice espressione coniata tempo fa dal Wall Street Journal) per sottolineare l'eversione dell'ordinamento europeo derivante da quella sentenza. Da David Sassoli a Paolo Gentiloni alla stessa von der Leyen, è stato un coro unanime di condanne verso gli eversori polacchi.
La Commissione ora attiverà le sue armi. La prima è già in uso, attraverso l'imbarazzante ritardo nell'approvazione del Recovery fund da 36 miliardi (24 sussidi e 12 prestiti). La seconda è la sospensione dei pagamenti del bilancio ordinario, attivando il regolamento sulla protezione del bilancio Ue approvato a dicembre scorso e già oggetto di ricorso alla Corte di giustizia da parte di Polonia e Ungheria. La terza è l'opzione «nucleare» prevista dall'articolo 7 del Tue che prevede - per lo Stato colpevole della violazione dei valori fondamentali della Ue - la sospensione del diritto di voto.
Ma le cose stanno in modo diverso. I polacchi stanno semplicemente mettendo a nudo le profonde crepe dell'assetto istituzionale dell'Ue. Un «non Stato» che pretende di esserlo, senza essere dotato di una Costituzione - bocciata dai francesi nello storico referendum del 2005 - e con una Corte di giustizia che pretende di essere la Corte suprema Usa senza che esista uno Stato federale. Un guazzabuglio senza né capo né coda, con l'aggiunta che dal 2009 il Trattato di Lisbona è stato chiamato a esercitare le funzioni di una Costituzione europea, come surrogato di quella bocciata. Ed è proprio in quei due Trattati (sull'Unione europea e sul funzionamento della Ue, Tue e Tfue) e nell'interpretazione estensiva fornita dalla Commissione, che ne è il guardiano, e dalla Corte di giustizia con sede a Lussemburgo, che si concentrano le doglianze di Varsavia.
I polacchi si stanno semplicemente chiedendo cosa ci sta ancora a fare la loro Costituzione se la Corte di giustizia deve sindacare - giusto per stare all'ultimo casus belli - circa le procedure di nomina dei loro giudici, senza che ciò sia previsto dai Trattati. Non è questione di gerarchia tra ordinamenti, come goffamente vorrebbero farci credere le veline della propaganda di Bruxelles pedissequamente copiate su tanti giornali italiani. Si tratta di compatibilità e conflitto tra ordinamenti (Ue e nazionale) e relative Corti, con l'aggravante che dei confini, sia pur labili e fatti apposta per essere violati, sono proprio previsti dai Trattati e questi confini sono quelli il cui rispetto chiede la Polonia, opponendosi al trionfo dell'incertezza e della discrezionalità.
L'ordinamento dell'Ue e i suoi rapporti con gli ordinamenti giuridici nazionali sono retti dai principi di attribuzione, sussidiarietà e proporzionalità. I limiti alla competenza Ue sono fissati e si fermano alle materie specificamente attribuite dagli Stati all'Unione stessa, le cosiddette materie esclusive (unione doganale, politica monetaria, politica commerciale, eccetera). Poi ci sono le materie su cui c'è competenza concorrente (mercato interno, sicurezza e giustizia, protezione dei consumatori, e altre) e su di esse gli Stati membri possono legiferare solo «nella misura in cui la Ue ha deciso di cessare di esercitare la propria competenza». In quest'ultimo ruolo, la Ue deve rispettare gli altri due principi, secondo i quali la sua azione può esserci solo in caso di insufficienza dell'azione statale e apporti un effettivo valore aggiunto per il raggiungimento del risultato. In ogni caso, il rispetto del principio di proporzionalità impone che l'azione dell'Ue si limiti a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei Trattati.
Di fatto, soprattutto a partire dal 2009 il principio di attribuzione si è rivelato un elastico estensibile all'infinito. Non c'è materia dell'ordinamento nazionale su cui non siano intervenute norme sovranazionali e la sussidiarietà e stata interpretata con ampia discrezionalità dalla Commissione. Ormai assurta al ruolo di monopolista dell'iniziativa legislativa, pur essendo un organo che non gode dell'investitura dei cittadini, con l'Europarlamento relegato a un ruolo di comprimario. In questo farraginoso quadro istituzionale deve essere collocata l'iniziativa polacca. Stanno semplicemente chiedendo dove siano finiti i confini previsti dai Trattati ai quali hanno aderito e dei quali restano convinti sostenitori. Purché non vengano stravolti. Altrimenti le Costituzioni nazionali a cosa servono? Una domanda che sarebbe opportuno farsi anche a Roma.
Ursula minaccia punizioni ma contro Varsavia le sue armi sono inefficaci
A Strasburgo, dove ieri si è riunita la plenaria del Parlamento europeo, Ursula von der Leyen e Mateusz Morawiecki si danno a vicenda dei dittatori. La presidente della Commissione Ue cita la repressione di Solidarnosc: «Quasi 40 anni fa il regime comunista impose la legge marziale. Gli attivisti furono messi in galera solo perché si battevano per i propri diritti. La gente della Polonia voleva la democrazia, la libertà di scegliere il proprio governo. E hanno voluto unirsi alla famiglia europea per la libertà. […] La recente sentenza» del Tribunale costituzionale di Varsavia, che ha definito non conformi alla Costituzione gli articoli 1 e 19 del Trattato sull'Unione europea, «mette tutto questo in discussione». Il premier, del partito Diritto e giustizia, risponde per le rime: «Non ci facciamo ricattare dall'Ue, abbiamo combattuto il Terzo Reich». Macigni, più che parole. Ma anche una smentita a chi evoca la Polexit: «Il Tribunale costituzionale polacco non ha mai dichiarato che quanto previsto dai trattati Ue è incompatibile con la legge polacca. Ha detto che una specifica interpretazione del diritto Ue» è in conflitto con la Carta fondamentale del Paese. Sullo sfondo, c'è la lite sulla riforma della giustizia polacca: a luglio, la Corte europea ha censurato la Sezione disciplinare della Corte suprema nazionale, incaricata di indagare sugli errori dei magistrati, stabilendo che non è imparziale e minaccia lo Stato di diritto e l'indipendenza delle toghe. Di qui, la rappresaglia polacca contro la supremazia delle sentenze Ue.
Morawiecki conferma: «Per noi è una scelta di civiltà l'integrazione europea. Questo è il nostro posto e non andiamo da nessuna parte». Però - e come si fa a considerarle affermazioni da pericoloso reazionario - il primo ministro polacco denuncia la «rivoluzione strisciante», con la quale Bruxelles sfrutta «la logica del fatto compiuto» per estendere le proprie prerogative. Invece, l'Ue «non è uno Stato, gli Stati membri restano padroni, sovrani dei trattati. Sono gli Stati membri che decidono quali competenze delegare all'Ue». Morawiecki solleva, quindi, un'obiezione di metodo democratico, infilando il dito nell'eterna piaga di Bruxelles: «Se volete un super Stato europeo, dovete chiedere agli Stati e alle popolazioni europee se è questo che vogliono». «Troppo spesso abbiamo a che fare con un'Europa dei doppi standard», tuona ancora il leader polacco. Ma «non possiamo tacere quando il nostro Paese viene attaccato in modo ingiusto e fazioso. È inaccettabile imporre la propria decisione ad altri senza alcuna base legale. Ed è tanto più inaccettabile usare il linguaggio del ricatto finanziario per questo scopo e parlare di sanzioni. Rifiuto questo linguaggio fatto di minacce, avvertimenti e coercizione. Non accetto che la Polonia venga ricattata e minacciata dai politici europei».
La von der Leyen non molla l'osso. E mette sul tavolo le tre opzioni per punire i ribelli di Varsavia: la procedura d'infrazione, l'attivazione dell'articolo 7 del Trattato Ue, che comporterebbe la sospensione del diritto di voto per la Polonia in Consiglio, oppure il blocco dei 36 miliardi del Recovery fund. Le pistole, tuttavia, sono mezze scariche. L'«opzione nucleare» è stata già brandita contro i quattro di Visegrád, senza effetti tangibili: per attivare le sanzioni, occorrono maggioranze qualificate. Una procedura d'infrazione, per ragioni analoghe (la sentenza di Karlsruhe, che intimava alla Bce di giustificare il Quantitative easing, o Berlino avrebbe ritirato il sostegno finanziario all'operazione), è stata aperta contro la Germania. E ciò la rende una via politicamente imbarazzante: o condanni tutti, o nessuno. Lo stop al Recovery può, sì, essere deciso dall'esecutivo Ue, ma serve un supporto degli Stati. Che per ora non è unanime, anche se l'Olanda ha presentato una formale richiesta alla Commissione. Non è un caso se Morawiecki ha ricordato le «grandi opportunità commerciali» offerte dall'ingresso nell'Ue della Polonia a francesi e tedeschi. Giovedì sarà annunciato l'esito del voto dell'Europarlamento su una risoluzione ad hoc. Ma can che abbia non morde, se non gli conviene.
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Durissimo scontro a Strasburgo dopo che la Suprema corte ha stabilito l'incompatibilità di parte dei Trattati con le leggi nazionali. Una battaglia di libertà che mette a nudo le crepe profonde delle istituzioni comunitarie«Solidarnosc voleva l'Europa», dice la von der Leyen. Il premier Moraviecki: combattemmo il Terzo reich, noi mai con i dittatoriLo speciale contiene due articoliL'aspro confronto andato in scena ieri durante la seduta dell'Europarlamento a Strasburgo prelude molto probabilmente a un serio peggioramento dei rapporti tra l'Unione europea e la Polonia. Le posizioni espresse dal primo ministro polacco Mateusz Morawiecki e dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen appaiono inconciliabili. Due universi separati. Dallo scorso 7 ottobre, in seguito a una sentenza della Corte costituzionale polacca, il livello dello scontro è salito ulteriormente poiché la Corte ha stabilito l'incompatibilità di alcuni articoli dei Trattati europei con la loro Costituzione. Da allora, si sono sprecati i commenti superficiali e grossolani di tutti i «mandarini di Bruxelles» (per usare una felice espressione coniata tempo fa dal Wall Street Journal) per sottolineare l'eversione dell'ordinamento europeo derivante da quella sentenza. Da David Sassoli a Paolo Gentiloni alla stessa von der Leyen, è stato un coro unanime di condanne verso gli eversori polacchi.La Commissione ora attiverà le sue armi. La prima è già in uso, attraverso l'imbarazzante ritardo nell'approvazione del Recovery fund da 36 miliardi (24 sussidi e 12 prestiti). La seconda è la sospensione dei pagamenti del bilancio ordinario, attivando il regolamento sulla protezione del bilancio Ue approvato a dicembre scorso e già oggetto di ricorso alla Corte di giustizia da parte di Polonia e Ungheria. La terza è l'opzione «nucleare» prevista dall'articolo 7 del Tue che prevede - per lo Stato colpevole della violazione dei valori fondamentali della Ue - la sospensione del diritto di voto.Ma le cose stanno in modo diverso. I polacchi stanno semplicemente mettendo a nudo le profonde crepe dell'assetto istituzionale dell'Ue. Un «non Stato» che pretende di esserlo, senza essere dotato di una Costituzione - bocciata dai francesi nello storico referendum del 2005 - e con una Corte di giustizia che pretende di essere la Corte suprema Usa senza che esista uno Stato federale. Un guazzabuglio senza né capo né coda, con l'aggiunta che dal 2009 il Trattato di Lisbona è stato chiamato a esercitare le funzioni di una Costituzione europea, come surrogato di quella bocciata. Ed è proprio in quei due Trattati (sull'Unione europea e sul funzionamento della Ue, Tue e Tfue) e nell'interpretazione estensiva fornita dalla Commissione, che ne è il guardiano, e dalla Corte di giustizia con sede a Lussemburgo, che si concentrano le doglianze di Varsavia. I polacchi si stanno semplicemente chiedendo cosa ci sta ancora a fare la loro Costituzione se la Corte di giustizia deve sindacare - giusto per stare all'ultimo casus belli - circa le procedure di nomina dei loro giudici, senza che ciò sia previsto dai Trattati. Non è questione di gerarchia tra ordinamenti, come goffamente vorrebbero farci credere le veline della propaganda di Bruxelles pedissequamente copiate su tanti giornali italiani. Si tratta di compatibilità e conflitto tra ordinamenti (Ue e nazionale) e relative Corti, con l'aggravante che dei confini, sia pur labili e fatti apposta per essere violati, sono proprio previsti dai Trattati e questi confini sono quelli il cui rispetto chiede la Polonia, opponendosi al trionfo dell'incertezza e della discrezionalità.L'ordinamento dell'Ue e i suoi rapporti con gli ordinamenti giuridici nazionali sono retti dai principi di attribuzione, sussidiarietà e proporzionalità. I limiti alla competenza Ue sono fissati e si fermano alle materie specificamente attribuite dagli Stati all'Unione stessa, le cosiddette materie esclusive (unione doganale, politica monetaria, politica commerciale, eccetera). Poi ci sono le materie su cui c'è competenza concorrente (mercato interno, sicurezza e giustizia, protezione dei consumatori, e altre) e su di esse gli Stati membri possono legiferare solo «nella misura in cui la Ue ha deciso di cessare di esercitare la propria competenza». In quest'ultimo ruolo, la Ue deve rispettare gli altri due principi, secondo i quali la sua azione può esserci solo in caso di insufficienza dell'azione statale e apporti un effettivo valore aggiunto per il raggiungimento del risultato. In ogni caso, il rispetto del principio di proporzionalità impone che l'azione dell'Ue si limiti a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei Trattati.Di fatto, soprattutto a partire dal 2009 il principio di attribuzione si è rivelato un elastico estensibile all'infinito. Non c'è materia dell'ordinamento nazionale su cui non siano intervenute norme sovranazionali e la sussidiarietà e stata interpretata con ampia discrezionalità dalla Commissione. Ormai assurta al ruolo di monopolista dell'iniziativa legislativa, pur essendo un organo che non gode dell'investitura dei cittadini, con l'Europarlamento relegato a un ruolo di comprimario. In questo farraginoso quadro istituzionale deve essere collocata l'iniziativa polacca. Stanno semplicemente chiedendo dove siano finiti i confini previsti dai Trattati ai quali hanno aderito e dei quali restano convinti sostenitori. Purché non vengano stravolti. Altrimenti le Costituzioni nazionali a cosa servono? Una domanda che sarebbe opportuno farsi anche a Roma.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/i-polacchi-sfidano-lo-strapotere-ue-che-pretende-competenze-improprie-2655324041.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="ursula-minaccia-punizioni-ma-contro-varsavia-le-sue-armi-sono-inefficaci" data-post-id="2655324041" data-published-at="1634668232" data-use-pagination="False"> Ursula minaccia punizioni ma contro Varsavia le sue armi sono inefficaci A Strasburgo, dove ieri si è riunita la plenaria del Parlamento europeo, Ursula von der Leyen e Mateusz Morawiecki si danno a vicenda dei dittatori. La presidente della Commissione Ue cita la repressione di Solidarnosc: «Quasi 40 anni fa il regime comunista impose la legge marziale. Gli attivisti furono messi in galera solo perché si battevano per i propri diritti. La gente della Polonia voleva la democrazia, la libertà di scegliere il proprio governo. E hanno voluto unirsi alla famiglia europea per la libertà. […] La recente sentenza» del Tribunale costituzionale di Varsavia, che ha definito non conformi alla Costituzione gli articoli 1 e 19 del Trattato sull'Unione europea, «mette tutto questo in discussione». Il premier, del partito Diritto e giustizia, risponde per le rime: «Non ci facciamo ricattare dall'Ue, abbiamo combattuto il Terzo Reich». Macigni, più che parole. Ma anche una smentita a chi evoca la Polexit: «Il Tribunale costituzionale polacco non ha mai dichiarato che quanto previsto dai trattati Ue è incompatibile con la legge polacca. Ha detto che una specifica interpretazione del diritto Ue» è in conflitto con la Carta fondamentale del Paese. Sullo sfondo, c'è la lite sulla riforma della giustizia polacca: a luglio, la Corte europea ha censurato la Sezione disciplinare della Corte suprema nazionale, incaricata di indagare sugli errori dei magistrati, stabilendo che non è imparziale e minaccia lo Stato di diritto e l'indipendenza delle toghe. Di qui, la rappresaglia polacca contro la supremazia delle sentenze Ue. Morawiecki conferma: «Per noi è una scelta di civiltà l'integrazione europea. Questo è il nostro posto e non andiamo da nessuna parte». Però - e come si fa a considerarle affermazioni da pericoloso reazionario - il primo ministro polacco denuncia la «rivoluzione strisciante», con la quale Bruxelles sfrutta «la logica del fatto compiuto» per estendere le proprie prerogative. Invece, l'Ue «non è uno Stato, gli Stati membri restano padroni, sovrani dei trattati. Sono gli Stati membri che decidono quali competenze delegare all'Ue». Morawiecki solleva, quindi, un'obiezione di metodo democratico, infilando il dito nell'eterna piaga di Bruxelles: «Se volete un super Stato europeo, dovete chiedere agli Stati e alle popolazioni europee se è questo che vogliono». «Troppo spesso abbiamo a che fare con un'Europa dei doppi standard», tuona ancora il leader polacco. Ma «non possiamo tacere quando il nostro Paese viene attaccato in modo ingiusto e fazioso. È inaccettabile imporre la propria decisione ad altri senza alcuna base legale. Ed è tanto più inaccettabile usare il linguaggio del ricatto finanziario per questo scopo e parlare di sanzioni. Rifiuto questo linguaggio fatto di minacce, avvertimenti e coercizione. Non accetto che la Polonia venga ricattata e minacciata dai politici europei». La von der Leyen non molla l'osso. E mette sul tavolo le tre opzioni per punire i ribelli di Varsavia: la procedura d'infrazione, l'attivazione dell'articolo 7 del Trattato Ue, che comporterebbe la sospensione del diritto di voto per la Polonia in Consiglio, oppure il blocco dei 36 miliardi del Recovery fund. Le pistole, tuttavia, sono mezze scariche. L'«opzione nucleare» è stata già brandita contro i quattro di Visegrád, senza effetti tangibili: per attivare le sanzioni, occorrono maggioranze qualificate. Una procedura d'infrazione, per ragioni analoghe (la sentenza di Karlsruhe, che intimava alla Bce di giustificare il Quantitative easing, o Berlino avrebbe ritirato il sostegno finanziario all'operazione), è stata aperta contro la Germania. E ciò la rende una via politicamente imbarazzante: o condanni tutti, o nessuno. Lo stop al Recovery può, sì, essere deciso dall'esecutivo Ue, ma serve un supporto degli Stati. Che per ora non è unanime, anche se l'Olanda ha presentato una formale richiesta alla Commissione. Non è un caso se Morawiecki ha ricordato le «grandi opportunità commerciali» offerte dall'ingresso nell'Ue della Polonia a francesi e tedeschi. Giovedì sarà annunciato l'esito del voto dell'Europarlamento su una risoluzione ad hoc. Ma can che abbia non morde, se non gli conviene.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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