2019-02-12
I lumbard sbattono i voti sul tavolo. Il governo tiene se passa l’autonomia
I grillini incassano l'exploit leghista: Luigi Di Maio tace tutto il giorno. Matteo Salvini non infierisce («nessun rimpasto») ma fa capire che il tema delle Regioni va in cima all'agenda. E Conte apre: «Non sottrarremo niente al Sud».La sceneggiatura del film è stata scritta dagli elettori abruzzesi, ed è confermata senza eccezioni da tutti i sondaggi nazionali: la Lega di Matteo Salvini passa dalla situazione di «junior partner» a quella di «senior partner», mentre a Luigi Di Maio tocca il meno gratificante cammino inverso, da azionista di maggioranza a socio di minoranza. Nessuno è così brutale da descrivere le cose in modo troppo crudo: nessuno (sul lato leghista) dà ordini perentori, e nessuno (sul lato grillino) si dispera in modo eccessivamente plateale. Ma la realtà parla da sé. Un primo segnale giunge dall'inusuale silenzio di Luigi Di Maio. Lunghissime ore di mutismo, fino alla tarda serata di ieri: né comunicati né tweet né video. Testimonianza eloquente di quanto sia stato complicato mettere a punto una posizione, uscire da un evidente smarrimento. La stessa coabitazione con Alessandro Di Battista, reduce dal tour in Guatemala, che avrebbe dovuto fornire una marcia in più alla comunicazione grillina, si è rivelata un fattore di confusione, di cacofonia, di fotografia perennemente mossa: con la giacchetta di Di Maio «impallata» da un Dibbah agitato, gesticolante, ipercinetico. Così, il capo politico ha lasciato che a prendere la parola per primo fosse il premier Giuseppe Conte, gran smussatore di angoli: «Sto vedendo i dati, sono elezioni regionali, e le valutazioni spettano ai vari esponenti delle forze politiche. Il dato mi sembra abbastanza chiaro, ma questo non cambia nulla per il governo centrale. Continuiamo a lavorare, non c'è nessun cambiamento all'ordine del giorno». Insomma, un tentativo di accreditare una totale continuità dell'azione dell'esecutivo, senza scossoni. Quanto a Matteo Salvini, si è potuto permettere i toni magnanimi del vincitore indiscusso: non ha chiesto rimpasti («non vogliamo ministeri, non cambia nulla degli equilibri di governo»), ma ha parlato con il tono di chi può dettare l'agenda senza bisogno di alzare la voce. E ha enumerato quattro punti. Il primo è una storica battaglia leghista, la legittima difesa: «Sarà legge entro marzo», ha detto. Si tratta di un provvedimento già incardinato, ed è chiaro che a questo punto nessun malpancista di maggioranza potrà fare scherzi. Il secondo (acqua pubblica, «a difesa dei consumatori», ha chiosato Salvini) non è certo un tema storicamente caro al Carroccio, e sembra semmai una concessione allo statalismo grillino, specie della minoranza che fa capo a Roberto Fico. Il terzo tema è quello da segnare con il circoletto rosso: l'autonomia, che per il segretario leghista «sarà un passaggio storico». Pochi giorni fa, in un'intervista alla Verità, il ministro Erika Stefani aveva fatto chiaramente intendere che il tempo stava scadendo per siglare le intese con le Regioni, e successivamente per far partire i disegni di legge governativi. Ovvio che a questo punto i grillini non potranno permettersi di gettare sabbia negli ingranaggi. Il quarto punto è una sorpresa (positiva) che Salvini ha messo sul tavolo come un'iniziativa del suo partito: una proposta di «riforma fiscale complessiva che presenteremo entro un mese, condividendola prima con le categorie produttive (industriali, edilizia, artigiani, commercianti)». In sostanza, il leader leghista è consapevole che la vera sfida è quella dell'economia, che l'avvio limitatissimo della flat tax per le partite Iva contenuto nella legge di bilancio non basta, e che la Lega deve mostrare pubblicamente l'intenzione di mettere in campo uno «choc fiscale», una proposta forte, uno strumento anti recessione. Salvini ha concluso dicendo di «avere bene in testa la tabella dei prossimi quattro anni». Ovvio che nessuno sa se la legislatura durerà tanto: ma il messaggio è chiarissimo. Volontà di andare avanti con questo esecutivo, nessuna fretta di tornare alle foto di gruppo del centrodestra tradizionale, mantenimento (almeno per ora) dell'attuale geometria, guadagnando forza rispetto ai partner pentastellati, e continuando ad assorbire voti di centrodestra. Operazione che realisticamente proseguirà in Sardegna, e poi in Piemonte e alle europee. Una conferma indiretta della situazione è giunta dallo stesso Conte, che, dopo la conferenza di Salvini, è tornato a parlare da Potenza. A parte una gaffe, quando il premier si è erroneamente autodefinito «presidente della Repubblica» (cosa che qualcuno ha letto come un desiderio inconfessabile e qualcun altro come un lapsus, visto che da tempo Conte ha degli invisibili «auricolari» che lo collegano al Colle), il premier ha scelto proprio il tema delle autonomie. Gli avversari del governo tenteranno di descrivere l'uscita come un «altolà», ma a noi pare invece un'accettazione esplicita dell'agenda leghista, con qualche ovvia puntualizzazione nel tentativo di non spaventare nessuno e anche di autoassegnarsi un ruolo. «Sul fronte delle autonomie» ha detto il premier, «anche se andremo a rafforzare quella di alcune Regioni, lo faremo in modo ragionevole, preservando la coesione nazionale. Io sono garante della coesione nazionale, non andremo a sottrarre nulla al Sud, ma a riconoscere alcune specifiche competenze ad alcune regioni del Nord». Come si vede, nessun «no», ma una garbata e cauta messa a punto sul «come».