2021-10-03
I giudici di Lucano costretti a giustificarsi
Dopo aver condannato a 13 anni l'ex sindaco di Riace poiché speculava sugli immigrati anziché aiutarli, procuratore capo e pm rilasciano interviste surreali in cui difendono il proprio operato: come se per processare un totem di sinistra servisse il permesso.Manco avessero processato Padre Pio. Dopo la condanna di primo grado a 13 anni di reclusione a un santino della sinistra come Domenico Lucano, il procuratore capo di Locri e il pm che lo hanno fatto condannare hanno dovuto giustificarsi pubblicamente. Luigi D'Alessio, capo della procura calabrese, e Michele Permunian, il pm che ha sostenuto l'accusa in processo, a Stampa e Repubblica, oltre a spiegare pazientemente che l'ex sindaco di Riace non è stato condannato per aver aiutato i migranti ma per averci speculato sopra, hanno raccontato «l'odio percepito dai colleghi» di sinistra, le «critiche di magistrati di altre Procure che ci accusavano di farci manipolare» e che, semplicemente «non hanno letto le carte». E se D'Alessio, magistrato che ha militato per 40 anni in Magistratura democratica (la corrente di sinistra delle toghe) è alla vigilia delle pensione, il trentasettenne Permunian ha chiesto di tornare nel Nord Est ed è letteralmente nelle mani del Csm, il sinedrio dei giudici. Sul suo trasferimento, come sulla sua carriera futura, a questo punto sarà giusto che anche i media tengano un faro acceso. D'Alessio parla con il giornale di Torino ed è uno sfogo in piena regola. Venerdì ha riunito i suoi sette pm (in gran parte giovani di prima nomina perché non è che ci sia la fila per andare a Locri) e ha provato a rassicurarli: «Sono il vostro ombrello, la pioggia me la prendo tutta io. Processi così ne capitano un paio in tutta la carriera. Non vi lasciate impressionare, vi servirà per il futuro». Parole nobili e rassicuranti, ma il problema è che D'Alessio, dopo aver chiesto invano la promozione ad altri incarichi direttivi, non ha avuto fortuna con il Csm e allora ha deciso di andarsene in pensione. Il fascicolo su Lucano era stato aperto da quattro anni, la Procura ha ricostruito il suo «sistema clientelare», spacciato per «modello di accoglienza», e aveva chiesto una condanna a 7 anni e 11 mesi di reclusione. Ne ha portati a casa, suo malgrado, 13 anni e 2 mesi, per abuso d'ufficio, truffa, falso ideologico, turbativa d'asta, peculato e malversazione ai danni dello Stato. Anche se compiuti da un benefattore dell'umanità, sono comunque reati gravi. Al procuratore capo tocca ricordare alcuni concetti banali, come il fatto che «non si possono commettere reati a fin di bene», e tira fuori una condotta comunque non simpaticissima del Lucano: «Negli alloggi manteneva sempre gli stessi migranti, sottomessi», anziché provvedere alla rotazione prevista dalla legge, e «gli altri li mandava nell'inferno delle baraccopoli di Rosarno». E tutto il circo di cantanti, concerti e manifestazioni di migranti pro Lucano, continua D'Alessio, «era organizzato per favorire varie cooperative locali, creare clientele, accumulare ricchezze, beneficiare di indotti elettorali». Tutte cose che chi legge La Verità ben conosce. Il magistrato prova anche a spiegare la condanna a 13 anni sollevando un tema che i garantisti veri, e non quelli a giorni alterni della parrocchietta rossa, ben conoscono: il vincolo della continuazione che funziona da moltiplicatore implacabile e «porta anche a condanne a sei anni per un piccolo spacciatore». Ma la parte più interessante dello sfogo del procuratore capo riguarda quello che l'ex collega Luca Palamara chiamerebbe «il sistema». Il sistema per Lucano. D'Alessio premette tranquillamente che «chi è progressista come me e Lucano deve pretendere legalità innanzitutto da se stesso». E ai vecchi amici di Magistratura democratica, racconta di aver confidato per mesi «il personale tormento, oltre che l'imbarazzo, di essermi trovato odiato dai miei storici referenti culturali e blandito da quelli che non lo sono mai stati. Ma questa è la solitudine del magistrato». Tra cinque mesi andrà in pensione, perché ultimamente il Csm gli ha sbarrato tutte le strade. Ed è nell'ultima risposta a Repubblica, che si capisce tutto anche dell'intervista del pm Permunian, che ha fatto tre anni da volontario nella Locride. Gli chiedono se la sua vita cambierà, dopo questo processo eccellente, e lui risponde così: «Il mio periodo in Calabria è finito. Avrei voluto fermarmi di più, ma devo andarmene per motivi personali. Risalirò in Veneto, o in Friuli. Attendo notizie dal Csm». Prima, nel corso dell'inusuale intervista, ha dovuto specificare anch'egli di non essere né una toga nera né un persecutore di neri, ma di avere fatto il volontario in Mozambico nelle missioni e di essere figlio di un'infermiera e di un autista di autobus che faceva anche il sindacalista. E tuttavia, per aver toccato un santino rosso, racconta che ha dovuto subire: «Mi ha fatto male che colleghi di altre Procure mi accusavano di farmi manipolare […] ed emettevano su di me giudizi sferzanti, senza conoscere le carte». Benvenuto tra noi, dottor Permunian.
Il giubileo Lgbt a Roma del settembre 2025 (Ansa)
Mario Venditti. Nel riquadro, da sinistra, Francesco Melosu e Antonio Scoppetta (Ansa)