2019-06-20
I diritti non c’entrano. Il gay pride è un business per le multinazionali
Le sfilate sono un'ottima occasione per conquistare un mercato miliardario Infatti a fare da sponsor ci sono aziende come Coca Cola, Google e Nestlé. Poiché ci troviamo nel pieno delle «settimane dell'orgoglio», nell'aria è tutto un proliferare di parole balsamiche: libertà, diritti, inclusione... Perché, in superficie, il gay pride è questo: una marcia per i diritti degli omosessuali. Per lo meno, si può dire che sia nato così cinquant'anni fa, durante i celebri «moti di Stonewall», a New York, che durarono dal 28 giugno al 2 luglio del 1969. Oggi il carattere politico dei pride è ancora molto presente, anche se molto irregimentato in stile manifestazione di partito. Soprattutto, però, il vero motore delle sfilate è il business. I diritti (veri o presunti) ormai c'entrano poco, e su tutto dominano gli affari. Per averne conferma basta dare un'occhiata allo sterminato elenco di aziende piccole, grandi e grandissime che sponsorizzano il gay pride di Milano previsto per sabato 29 giugno. Troviamo, tra gli altri, AirItaly, Coca Cola, l'immobiliare Idealista, Just Eat, Accenture, Durex, Ebay, Feltrinelli, Foodspring, Gilead, Google, Microsoft, Paypal, Redbull, Tannico, Amazon, Burger King, Danone, Deliveroo, Dell, Diesel, Facebook Italia, LinkedIn, M&C Saatchi, Nestlé, Starbucks... Potremmo continuare ancora a lungo, ma ormai un'idea ve la sarete fatta. Ci sono multinazionali, assicurazioni, colossi del digitale, grandi marchi della moda, praticamente di tutto. Comprese aziende che, mentre da un lato foraggiano gli attivisti Lgbt, dall'altro finanziano pure (soprattutto negli Stati Uniti) rappresentanti politici che alle istanze Lgbt sono decisamente contrari. Perché tutte queste compagnie sponsorizzano il gay pride? Beh, ovviamente per una questione di immagine. Oggi il pensiero dominante impone di essere «gay friendly» e di dare grande spazio al «rispetto delle diversità». Il vero motivo, tuttavia, è economico. Qualche mese fa, Forbes ha stimato che il mercato Lgbtq, nei soli Stati Uniti, valga qualcosa come 1.000 miliardi di dollari, e cresce di centinaia di milioni ogni anno. Per l'Italia le stime sono un po' più difficili. Sappiamo, grazie a una ricerca realizzata da Gfk Eurisko qualche tempo fa, che il solo mercato turistico arcobaleno vale nel nostro Paese 2,7 miliardi di euro circa (a livello globale sono 221 miliardi). Come riporta Gay.it, «secondo Geta (Gay European Tourism Association), i gay in Europa sarebbero circa 22,6 milioni, con una capacità di spesa turistica che varia tra i 48 e i 52 miliardi di euro». Le persone Lgbt viaggiano di più, ma spendono anche molto di più rispetto agli eterosessuali. Sempre la ricerca di Gfk Eurisko forniva dati interessanti. Spiegava che il turista gay «nel 17% dei casi è un libero professionista (contro la media del 3% della popolazione adulta), dirigente nel 12% (contro il 3%), impiegato (26% contro il 16%)». Ciò significa che, mediamente, il consumatore Lgbt ha «una capacità di reddito più alta: il 42% dei gay guadagna da 1.500 a 3.000 euro al mese, contro il 28% della popolazione italiana adulta».Prodotti specialiLa «minoranza perseguitata», insomma, rappresenta un bel tesoretto per le aziende. Le quali, infatti, non perdono l'occasione del gay pride per lanciare prodotti ad hoc. Su Panorama di questa settimana, Antonella Matarrese fornisce alcuni esempi: dal trolley «Cosmopolite pride» di Samsonite agli occhiali rainbow di Ray Ban. Coca Cola ha prodotto fior di lattine arcobaleno, Converse mette in vendita modelli rainbow e glitterati. Perry Williams, manager dell'azienda di scarpe da ginnastica americana Under Armour, ha spiegato pochi giorni fa a una rivista specializzata che nel 2018 le loro sneakers «pride edition» hanno venduto il 90% della produzione nel giro di pochissime settimane dal lancio.Per ritornare nell'ambito turistico, Tripadvisor ha presentato in occasione delle sfilate dell'orgoglio le «guide rainbow» di varie città europee. Un paio di giorni fa, tanto per citare un altro caso, Mastercard ha presentato le carte di credito «true name». In pratica, si tratta di prodotti rivolti ai transgender: anche se di sesso maschile, il cliente potrà scrivere sulla carta un nome femminile e viceversa. «Siamo al lavoro con i nostri partner per realizzare un prodotto che permetterà a tutti di essere riconosciuti in base all'identità di genere», dice il comunicato di Mastercard. «Siamo vicini alla comunità Lgbt e vogliamo che tutti i clienti siano serviti nella maniera più inclusiva, per non ripetere spiacevoli episodi accaduti in passato». Disney, invece - oltre ad aver organizzato per la prima volta nella storia una sfilata arcobaleno nel parco divertimenti di Parigi - ha creato una linea di abbigliamento e gadget ad hoc (il pupazzo multicolore di Topolino è andato quasi immediatamente esaurito). Già: il pride è un'ottima occasione per farsi pubblicità, ma anche per lanciare prodotti specifici che il mercato Lgbt accoglie molto bene. È interessante, a questo proposito, leggere ciò che ha dichiarato recentemente Todd Sears, fondatore di Out Leadership, una società di consulenza che aiuta le compagnie a fare affari nel mondo arcobaleno.Nuovo approccio«Tutte queste aziende», ha spiegato, «comprendono a vari livelli che l'attivismo è un motore di business. Dieci anni fa», ha aggiunto Sears, «non si vedevano aziende e amministratori delegati impegnati su questioni sociali, sarebbe stato un rischio dal punto di vista aziendale. Ora, invece, si rischia se non si fa nulla». Lo scrisse chiaramente The Advocate, la storica rivista gay americana, già un lustro fa: «L'economia globale ha imparato che quello che va bene per Lgbt va bene per il business; stare dalla loro parte vuol dire conquistare i mercati e avere la strada spianata per il successo».Questa è l'era del cosiddetto «capitalismo rosa» o, ancora meglio, «capitalismo arcobaleno». Le aziende piccole e grandi ne beneficiano, e dal loro punto di vista fanno benissimo. Il problema è che puntare sull'attivismo per favorire gli affari ha delle conseguenze. Le rivendicazioni politiche del gay pride milanese di quest'anno, per dire, sono chiarissime, e comprendono il «diritto ai figli» per le coppie omo. Il che comporta lo sdoganamento di pratiche odiose come l'utero in affitto, tra le altre cose. Si parla tanto di «diritti» Lgbt. Ma cala il silenzio sui diritti sacrificati in nome del denaro.