
I renziani che urlano al golpe e Emma Bonino in lacrime fingono di dimenticarsi che da Romano Prodi al Bullo, fino al governo Gentiloni l'anno scorso, la finanziaria è stata sempre approvata così. Con una aggravante: i contenuti erano arrivati sotto la dettatura di Bruxelles.È sempre attuale il monito di Fabrizio De André sull'attitudine a dare buoni consigli quando non si è più in condizione di fornire cattivi esempi. Da 48 ore, è partito il coro (guidato da Emma Bonino e Giorgio Napolitano, con vasta partecipazione di tromboni e voci bianche sui giornaloni) contro l'uso del voto di fiducia e dei maxi emendamenti, contro l'umiliazione del Parlamento, e altre geremiadi: con lacrime nelle pause delle interviste, e interviste nelle pause delle lacrime. Attenzione, però. Rileggiamo un lancio di agenzia (occhio a date e contenuti) di venerdì 15 dicembre 2006: «È stata approvata la fiducia chiesta dal governo riguardo all'emendamento sostituito alla legge finanziaria. 162 i voti a favore, 157 i contrari. Ancora una volta, la differenza si è avuta per mezzo dei senatori a vita. Ora il maxi emendamento ripasserà al vaglio della Camera dei deputati». Ai lettori della Verità non saranno sfuggiti i punti chiave: maxi emendamento sostitutivo del testo precedente, fiducia, e corsa finale pre natalizia (con appena una settimana di anticipo rispetto al calendario attuale). Per sovrammercato, va notato pure lo schieramento militare - pancia a terra - dei senatori a vita di allora, che erano certo parlamentari liberi di votare come credevano, ma avrebbero dovuto pur sempre dare un senso di imparzialità. Ah, dimenticavamo alcuni «dettagli»: il governo era guidato da Romano Prodi; lo scomparso Tommaso Padoa Schioppa (suo il copyright della frase-autogol «le tasse sono bellissime») era il ministro dell'Economia; e di quel governo era ministro (del Commercio internazionale e delle Politiche comunitarie) proprio Emma Bonino. E chi era il presidente della Repubblica? «Proprio lui», direbbero i telecronisti Sky: Giorgio Napolitano, che era stato eletto a maggio di quell'anno. Abbiamo citato un caso. Ma la verità è che da molti anni si tratta di un meccanismo (pessimo, diciamolo subito) ma consolidato. Così, un po' per l'esigenza di abbreviare i tempi parlamentari, un po' per tenere alla frusta deputati e senatori di maggioranza, un po' per la comodità di evitare l'imprevedibile circo degli emendamenti in Aula, praticamente tutti governi hanno fatto in questo modo: a un certo punto arriva il maxi emendamento, e su quello inevitabilmente viene posta la fiducia. Un altro esempio? 2017: maxi emendamento (di 134 pagine e 646 commi), fiducia e approvazione definitiva il 23 dicembre. Premier era il dem Paolo Gentiloni. Ma sui giornali non c'erano prefiche. E la fiducia sulla manovra? A meno di nostri errori, i governi, in epoca recente, non l'hanno posta solo nel 2010 e nel 2011, mentre in tutti gli altri anni c'è stata regolarmente, spesso anche più di una volta. E il maxi emendamento, o comunque forme di riscrittura complessiva del testo? Sempre a meno di nostri errori, dal 2012 a oggi, non lo si è visto soltanto nel 2016.Di più. Chiunque abbia seguito la vita parlamentare di questi anni sa che, per «bypassare dolcemente» le lungaggini del bicameralismo perfetto, che comporta che Camera e Senato facciano esattamente la medesima trafila su ciascun provvedimento, le intese informali tra le presidenze dei due rami del Parlamento e il governo hanno consolidato un meccanismo per cui, quando ci sono due provvedimenti importanti (ad esempio, la legge finanziaria e un contestuale decreto fiscale, oppure due decreti significativi, eccetera) sia un ramo del Parlamento (con un approfondito lavoro in commissione e poi in Aula) a sviscerarlo e modificarlo davvero, con l'altra Camera più o meno tacitamente chiamata a recepirlo, salvo fare il viceversa sull'altro provvedimento. Onestà intellettuale vuole che si sottolineino le differenze che rendono il caso di questo inverno 2018 un po' più grave degli altri. Sarebbe scorretto tacere due novità peggiorative. Primo: con i tempi ci si è spinti ancora più avanti del solito arrivando «in zona Cesarini» come ha detto il premier Giuseppe Conte. Secondo: in genere il maxi emendamento governativo recepiva (in tutto o in larga parte) il lavoro delle commissioni, mentre in questo caso la commissione Bilancio del Senato ha pochissime ore per leggerlo. I gialloblù non possono negare (a proprio danno) questo doppio record. Però attenzione: anche senza queste aggravanti, il meccanismo «prendere o lasciare» è esattamente lo stesso. Tra maxi emendamento e fiducia, è sequestrato il diritto del parlamentare a dire sì a una cosa e no a un'altra. Deve bere o affogare. E questo accade da anni, pressoché senza eccezioni: mica solo in questo dicembre 2018. Detta l'aggravante, va però esplicitata anche l'attenuante a favore di Lega e M5s, e cioè una spossante trattativa con l'Ue, che ha sequestrato due mesi di lavoro. E allora - con altrettanta onestà intellettuale - occorre chiedersi: su cosa avrebbero dovuto votare le commissioni, in assenza dei punti-chiave oggetto del negoziato in corso con Bruxelles? È esattamente la spiacevole situazione che si è verificata durante l'attività della Commissione Bilancio della Camera, il mese scorso: che ha approfonditamente discusso di molte cose, ma non dei punti qualificanti della manovra. Anche questo (per carità) non va bene. Ma gli unici che non hanno titolo per lamentarsene e pontificare sono proprio coloro che vorrebbero cessioni di sovranità ancora maggiori a favore dell'Ue, fino al definitivo «pilota automatico esterno» di un eventuale ministro delle finanze unico Ue. Ma come? Prima volete più potere a Bruxelles e poi vi lamentate se la trattativa con la Commissione ruba tempo al Parlamento italiano? Europeisti nei giorni pari e sovranisti nei giorni dispari? Avrebbe detto Totò: «Qui si esagera».
Christine Lagarde (Ansa)
I tassi restano fermi. Forse se ne parlerà a dicembre. Occhi sulla Francia: «Pronti a intervenire per calmare i mercati».
Peter Mandelson, amico di Jeffrey Epstein, e Keir Starmer (Getty)
Il primo ministro: «Rimosso per rispetto delle vittime». Pochi giorni fa lo difendeva.
Il problema non sono i conti pubblici, ma il deficit della bilancia commerciale. Dovuto a una moneta troppo forte, che ha permesso acquisti all’estero illimitati. Ora per tornare competitivi serve rigore, ma senza poter smorzare le tensioni sociali con la svalutazione.