
Il voto sindacale potrebbe tornare a rivelarsi particolarmente significativo in vista delle presidenziali americane del 2020. Del resto, la mobilitazione delle associazioni sindacali aveva nettamente contribuito a determinare l'esito delle elezioni di tre anni fa.Nel corso delle primarie democratiche di allora, il senatore del Vermont, Bernie Sanders, riuscì ad accattivarsi le simpatie degli operai bianchi iscritti al sindacato, laddove la sua rivale, Hillary Clinton, poté contare maggiormente sull'appoggio dei lavoratori appartenenti alle minoranze etniche (soprattutto afroamericani e ispanici). La situazione si fece tuttavia per lei complicata, quando – in sede di General Election – ottenne risultati peggiori rispetto a quelli conseguiti da Barack Obama nel 2012. Grazie alla sua strenua opposizione ad alcuni trattati internazionali di libero scambio (come il NAFTA o la Trans Pacific Partnership), Donald Trump riuscì infatti a conquistare l'appoggio di numerosi operai bianchi iscritti al sindacato: un fattore che si rivelò determinante per conquistare la Casa Bianca. Si trattò di uno smacco significativo per l'Asinello, visto che – tradizionalmente – l'universo sindacale si ritrova assai spesso schierato proprio a favore del Partito Democratico. Alla luce di tutto questo, è chiaro che anche nel 2020 il sindacato non potrà che giocare un ruolo determinante dal punto di vista elettorale. E, proprio per questo, svariati degli attuali candidati alla nomination democratica stanno cercando di attrarre il sostegno di quel mondo. Un mondo che tuttavia sta mostrando crescenti tensioni interne: tensioni dovute a cambiamenti intestini, soprattutto di natura politica ed etnica.L'ex vicepresidente, Joe Biden, sta tentando di rivolgersi specificamente alla vecchia classe operaia bianca: quella quota elettorale che, dicevamo, nel 2016 ha in buona sostanza appoggiato l'ascesa di Trump. Si tratta di un obiettivo non esattamente facile per lui. Non dimentichiamo infatti che – storicamente – Biden abbia sposato visioni particolarmente inclini agli accordi internazionali di libero scambio. Anche quegli accordi contro cui i sindacati americani si erano assai spesso battuti. Non solo l'ex senatore del Delaware si è sempre mostrato un sostenitore del NAFTA, ma – nel 2016 – appoggiò Barack Obama nella stipulazione della Trans Pacific Partnership. In entrambi i casi, si trattava di intese commerciali particolarmente osteggiate dal sindacalismo statunitense. Due intese contro cui, invece, Trump aveva proferito parole di fuoco nel corso della campagna elettorale del 2016, comportandosi poi coerentemente una volta arrivato alla Casa Bianca: da presidente, Trump ha infatti stracciato la Trans Pacific Partenership e avviato una rinegoziazione del NAFTA, trasformato adesso in un nuovo accordo (lo USMCA), di cui si attende tuttavia la ratifica da parte del Congresso. Inoltre, alcune settimane fa, Biden si era detto scettico sul fatto che la Cina stia attuando una politica commerciale sleale nei confronti degli Stati Uniti, attirandosi per questo le ire proprio degli operai, che considerano Pechino tra le principali cause dei propri guai economici. La posizione dell'ex vicepresidente ha suscitato un tale vespaio di polemiche in seno allo stesso Asinello che, alla fine, Biden si è trovato costretto a fare marcia indietro. Insomma, pare proprio che – almeno in materia di commercio internazionale – il front runner democratico non disponga al momento di un'eccessiva sintonia con quegli operai bianchi che vorrebbe rappresentare.Tra i candidati democratici, altre figure stanno invece cercando di intercettare mondi che, in seno al sindacato statunitense, si rivelano in rapida crescita. Mondi tendenzialmente legati alle minoranze etniche e dalle simpatie politiche di area fondamentalmente progressista. Mondi che, con ogni probabilità, alle presidenziali del 2016 hanno optato per l'astensione, davanti alla scelta tra Donald Trump e Hillary Clinton. A queste realtà stanno per esempio cercando di parlare la senatrice del Massachusetts, Elizabeth Warren, e la senatrice della California, Kamala Harris. Anche Bernie Sanders sembra intenzionato a rivolgersi a queste quote, nonostante la storica diffidenza che le minoranze etniche nutrono nei confronti del senatore del Vermont. Sotto questo aspetto, Sanders potrebbe comunque risultare il candidato democratico meglio posizionato. Il senatore gode infatti già di ampio credito da parte dei lavoratori (alcuni sondaggi hanno mostrato come il suo elettore modello risulti l'impiegato della grande distribuzione) e – qualora fosse in grado di espandersi alle minoranze – potrebbe sbaragliare la concorrenza interna, sottraendo i bianchi a Biden e gli afroamericani alla Harris e alla Warren. Il problema, per lui, sorgerebbe tuttavia in sede di General Election, perché potrebbe riscontrare forti difficoltà nell'attaccare Trump sul commercio internazionale: come l'attuale inquilino della Casa Bianca, Sanders è infatti favorevole alle misure protezionistiche e – in questo senso – ha non a caso polemizzato proprio con Biden nelle ultime settimane. Il senatore del Vermont potrebbe quindi ritrovarsi nella scomodissima posizione di criticare provvedimenti che, in fin dei conti, anche lui di fatto condivide.Un ulteriore dossier che sta molto a cuore ai sindacati è poi quello dell'aumento del salario minimo, attualmente fissato a 7,25 dollari. Su questo fronte, la maggior parte dei candidati alla nomination democratica del 2020 sostiene la proposta di portarlo a 15 dollari (a partire da Biden, Sanders, Warren e Harris). Trump, dal canto suo, non ha mostrato finora una posizione lineare sulla questione: da candidato, disse di volerlo portare a 10 dollari. Una proposta che ha poi messo da parte, una volta arrivato alla Casa Bianca. Lo scorso giugno, il presidente americano si era mostrato parzialmente aperturista sulla proposta legislativa democratica di un salario minimo a 15 dollari. Tuttavia, quando pochi giorni fa la Camera dei Rappresentanti ha approvato una norma che aumenterebbe gradualmente la soglia a 15 dollari entro il 2025, la Casa Bianca ha minacciato il veto in caso di (poco probabile) voto favorevole da parte del Senato. Si tratta, del resto, di una misura controversa. Secondo l'Ufficio di bilancio del Congresso, una simile riforma determinerebbe un aumento salariale per 17 milioni di lavoratori ma comporterebbe al contempo la perdita di 1,3 milioni di posti di lavoro. Uno scenario che Trump non può certo permettersi, visto che – per le prossime elezioni – vuole giocarsi la carta del bassissimo tasso di disoccupazione che attualmente sta caratterizzando gli Stati Uniti.
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Emanuele Orsini (Ansa)
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