
Alessandro Di Battista non chiude al ritorno col Carroccio, poi Beppe Grillo spara sui due ex premier dem e loda il «suo»: «Ci ha ridato la dignità». L'ottimismo dopo il primo incontro è soltanto di facciata: evitati i temi più scottanti, come immigrazione e decreti Sicurezza. In una Roma rovente, anche se per un giorno con il cielo coperto, in uno degli uffici dei grillini a Montecitorio, si è svolto ieri (senza streaming, però: meglio non lasciare tracce…) il primo incontro ufficiale tra le delegazioni Pd e M5s. Presenti per i dem i capigruppo Graziano Delrio e Andrea Marcucci, più il vicesegretario Andrea Orlando; per i pentastellati, i capigruppo Francesco D'Uva e Stefano Patuanelli, con i vice Francesco Silvestri e Gianluca Perilli. Due scuole di pensiero al termine: la prima esprime totale ottimismo sulla conclusione della trattativa, facendo perfino sorgere fondati sospetti sul fatto che già da settimane i dialoghi fossero stati imbastiti; la seconda sottolinea invece le mine e gli ostacoli nei due campi. Molti osservatori presentano le due tesi come opposte e inconciliabili: o l'una o l'altra. Forse è invece intellettualmente onesto descriverle insieme, per molti versi congiungerle e intrecciarle. Se fossimo in una stazione ferroviaria, la cosa potrebbe essere riassunta così: su un binario è effettivamente pronto a partire il treno Pd-M5s; su un altro binario, poco distante, c'è però pure un altro treno, quello Lega-M5s; e su entrambi i convogli sono presenti nuclei di dirottatori pronti a impedire la partenza o a creare un incidente. Questa è la fotografia politica della situazione - confusa ma fedele - che si poteva scattare ieri sera. Cominciamo da chi, tra grillini e dem, si mostra più che possibilista. È in primo luogo il Pd a commentare positivamente, con un inequivocabile «non ci sono problemi insormontabili» fatto circolare subito dopo il confronto. Dello stesso tenore le dichiarazioni del turborenziano Marcucci («Clima positivo e costruttivo, ci fa ben sperare sulle prospettive») e di Delrio, appena più cauto («Ampia convergenza sui punti dell'agenda ambientale e sociale. C'è un lavoro molto serio da fare sulla legge di bilancio»). La questione che ieri i pentastellati agitavano come uno spartiacque decisivo, e cioè il taglio dei parlamentari, è stata molto ridimensionata. Con linguaggio neo Dc, i dem hanno dichiarato: «Siamo sempre stati e rimaniamo a favore» (affermazione contraddetta dai tre voti contrari del Pd nei precedenti passaggi parlamentari). E ancora: «Siamo disponibili a votare la legge ma riteniamo che vada accompagnata da garanzie costituzionali e regole sul funzionamento parlamentare». E, cosa che non hanno messo per iscritto, da una legge elettorale totalmente proporzionale, un'autentica palude che eliminerebbe i collegi e punterebbe a neutralizzare anche un eventuale risultato della Lega pari o superiore al 34% delle europee, rendendo comunque necessarie coalizioni assai ampie per arrivare al 50% più uno in Parlamento. A testimonianza della volontà Pd-M5s di dare segnali positivi, è rimasta abbandonata la pratica più scottante, quella dell'immigrazione e dei decreti Sicurezza (l'ultimo, approvato con un voto di fiducia appena due settimane fa): le due delegazioni hanno fatto finta che l'enorme scoglio non esista. Come pure hanno scansato i nodi dei nomi per le poltronissime: «Ci sono altre cose di altro carattere che vanno rimandate ad altri tavoli, e ai rispettivi capi politici», ha chiosato Francesco D'Uva.Per spargere altro miele, i grillini hanno rassicurato i dem (ma ancora vagamente e blandamente) sulla «prova d'amore» chiesta dal Pd, e cioè la chiusura del «secondo forno» con la Lega: «Non abbiamo tavoli con altre forze politiche. Questo è il tavolo principale», è stata la risposta grillina. Lo stesso Andrea Orlando si è limitato a dire che gli interlocutori grillini «riporteranno questa esigenza del Pd» ai vertici M5s. Un po' pochino, insomma. E allora veniamo alla seconda scuola di pensiero, quella di chi mette in fila le difficoltà. Sul fronte democratico, la bomba dell'attacco ad alzo zero di Matteo Renzi contro Paolo Gentiloni ha ulteriormente devastato il clima, mostrando il Pd - politicamente parlando - come un nido di vipere. Il veleno scorre, nessuno si fida di nessuno, ed è evidente che (con una Leopolda già convocata il 18 ottobre) i parlamentari renziani avrebbero ancora una golden share. Sul fronte grillino, le mine sono almeno cinque. La prima: con una mossa a sorpresa, ieri Beppe Grillo ha solennemente celebrato e rilanciato Giuseppe Conte («Ci ha restituito la dignità persa. Scambiarlo come una figurina sarebbe una disgrazia«). Per elogiare il presidente dimissionario, l'ex comico ha tracciato, per contrasto, una cronistoria immaginifica degli ultimi premier, lanciando bordate contro tutti i predecessori, da Silvio Berlusconi a Mario Monti, fino a Enrico Letta. E, inevitabilmente, le mazzate sono arrivate anche contro Renzi («finto rottamatore», «salito su a furor di europee, mancette e menzogne», «moccioso sempre appiccicato al telefono») e Gentiloni («un'altra pausa di nulla assoluto, difficile ricordarne il nome»). Come vanno interpretate queste sortite? Difficile non leggerla come un poderoso paletto in vista delle scelta del futuro premier giallorosso. La seconda: Di Maio è una sfinge, non chiude del tutto alla Lega, e ieri, dopo l'incontro Pd-M5s, ha gettato acqua gelida: «C'è stata data una disponibilità dal Pd ma vedo che già litigano. Questi li conoscevamo abbastanza, purtroppo. Si chiariscano un po' le idee». La terza: Alessandro Di Battista è scatenato, alza la posta, pone nuove condizioni (la revoca delle concessioni ai Benetton), sembra muoversi per creare imbarazzi ai trattativisti. Su Facebook ha scritto: «Ho visto nuove aperture della Lega al Movimento e mi sembra una buona cosa. Soprattutto perché non mi dispiacerebbe un presidente del Consiglio del Movimento 5 stelle». Frase a cui ha risposto stizzito Luigi Gallo, molto vicino a Roberto Fico: «Di Battista sta facendo una guerra spietata ad 11 milioni di cittadini italiani che ci hanno votato per cambiare l'Italia». La quarta: in Senato ci sarebbe una pattuglia grillina, numericamente consistente, pronta a dissociarsi. La quinta: nelle chat dei parlamentari montano i dubbi, e sui profili social del Movimento esplode un dissenso che sembra incontenibile, con insulti e rabbia contro l'inciucio con il Pd. È in queste contraddizioni che la Lega punta a infilarsi, almeno fino a martedì.
Martin Sellner (Ansa)
Parla il saggista austriaco che l’ha teorizzata: «Prima vanno rimpatriati i clandestini, poi chi commette reati. E la cittadinanza va concessa solo a chi si assimila davvero».
Per qualcuno Martin Sellner, saggista e attivista austriaco, è un pericoloso razzista. Per molti altri, invece, è colui che ha individuato una via per la salvezza dell’Europa. Fatto sta che il suo libro (Remigrazione: una proposta, edito in Italia da Passaggio al bosco) è stato discusso un po’ ovunque in Occidente, anche laddove si è fatto di tutto per oscurarlo.
Giancarlo Giorgetti e Mario Draghi (Ansa)
Giancarlo Giorgetti difende la manovra: «Aiutiamo il ceto medio ma ci hanno massacrati». E sulle banche: «Tornino ai loro veri scopi». Elly Schlein: «Redistribuire le ricchezze».
«Bisogna capire cosa si intende per ricco. Se è ricco chi guadagna 45.000 euro lordi all’anno, cioè poco più di 2.000 euro netti al mese forse Istat, Banca d’Italia e Upb hanno un concezione della vita un po’…».
Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, dopo i rilievi alla manovra economica di Istat, Corte dei Conti e Bankitalia si è sfogato e, con i numeri, ha spiegato la ratio del taglio Irpef previsto nella legge di Bilancio il cui iter entra nel vivo in questa settimana. I conti corrispondono a quelli anticipati dal nostro direttore Maurizio Belpietro che, nell’editoriale di ieri, aveva sottolineato come la segretaria del Pd, Elly Schlein avesse lanciato la sua «lotta di classe» individuando un nuovo nemico in chi guadagna 2.500 euro al mese ovvero «un ricco facoltoso».
Ansa
«Fuori dal coro» smaschera un’azienda che porta nel nostro Paese extra comunitari.
Basta avere qualche soldo da parte, a volte nemmeno troppi, e trovare un’azienda compiacente per arrivare in Italia. Come testimonia il servizio realizzato da Fuori dal coro, il programma di Mario Giordano, che ha trovato un’azienda di Modena che, sfruttando il decreto flussi, importa nel nostro Paese cittadini pakistani. Ufficialmente per lavorare. Ufficiosamente, per tirare su qualche soldo in più. Qualche migliaia di euro ad ingresso. È il business dell’accoglienza, bellezza.
Servizio di «Fuori dal coro» mostra com’è facile arrivare in Italia: aziende compiacenti richiedono stranieri, un connazionale li sceglie e si fa pagare migliaia di euro dall’extracomunitario che, una volta qua, gira incontrollato. Libero di delinquere, come accade ogni giorno. Il Pd in Emilia Romagna chiede più migranti, ma non vuole più curare chi viene dal Sud.
Non c’è il due senza il tre e infatti siamo alla terza violenza consecutiva a opera di clandestini. Prima una modella aggredita sul treno tra la Brianza e Milano, un assalto che solo la pronta reazione della ragazza ha evitato si trasformasse in qualche cosa di peggio. Poi una turista trascinata da due stranieri dietro una macchina in centro a Firenze e violentata. Quindi una commessa che a Cantù, mentre la mattina stava iniziando il turno di lavoro, è stata assalita quando si apprestava ad aprire il supermercato. Tutti e tre gli immigrati non avrebbero dovuto trovarsi sul territorio nazionale, perché irregolari e in qualche caso già autori di violenze.






