
Tutti veicoli prestigiosi, fra cui un Grand cherokee. Aveva a sua disposizione anche 12 uomini dei servizi segreti: ben dieci sono ancora con lui, contro i quattro in media degli ex premier. Ma ora il governo taglia.L'ansia di grandeur di Matteo Renzi non si è manifestata solo con lo sciagurato leasing dell'Airbus A340-500 della Etihad. Nei corridoi di Palazzo Chigi si favoleggia ancora del parco macchine della scorta dell'ex premier. Durante l'ultimo anno del suo mandato si sono aggiunte una Jeep Grand cherokee nera (Suv dell'anno nel 2017) e una Giulia grigia in comodato d'uso. Gratuito? Erano offerte dall'amico Sergio Marchionne, all'epoca ad di Fca, per promuovere i marchi italiani? La risposta la conosce l'entourage del senatore dem. Ma nel garage in uso alla «guardia repubblicana» di Renzi c'erano anche due Lancia Thema blindate blu per gli incontri istituzionali, due Audi A6 nere e una Passat grigia utilizzata dagli uomini del seguito. Non basta. Quando era primo ministro, Matteo aveva a disposizione anche due multivan blindati grigi della Volkswagen, parcheggiati uno a Firenze e uno a Roma, per gli spostamenti domenicali con la famiglia.Un dispiegamento di veicoli che qualche addetto ai lavori ha ironicamente ribattezzato «Ground force Renzi», la «Forza di terra» di Matteo, facendo un parallelismo con l'Air force Renzi e con i mezzi dei presidenti statunitensi. Un paragone che suona particolarmente beffardo se si pensa che l'uomo nuovo di Rignano sull'Arno bruciò tutte le tappe del suo cursus honorum predicando il taglio delle auto blu e annunciando che il popolo sarebbe stata la sua scorta. I mezzi un tempo a sua disposizione sono stati in gran parte dismessi con l'arrivo di Paolo Gentiloni e del nuovo governo, in particolare sono stati restituiti il Grand cherokee, la Giulia e i due multivan. Matteo e i suoi gorilla hanno in dotazione ancora un'Audi e una Passat, avvistabili davanti alla sede del Pd o a Firenze nei pressi della sua abitazione.Sino a un mese fa, nonostante non sia più premier da 21 mesi, Renzi aveva ancora un piccolo esercito di 12 bodyguard dell'Aisi (Agenzia informazioni e sicurezza interna), guidati da due colonnelli, G. S. e G. G., mentre nella squadra di Paolo Gentiloni spiccavano due marescialli. Una distinzione che non può non far venire in mente i film di Totò. Ad agosto il drappello di Matteo è stato ridotto di due unità e presto perderà altri due o più elementi. Infatti siamo di fronte a giorni di tagli feroci delle scorte dei servizi segreti (e non solo di quelle). Per esempio la settimana scorsa è stata revocata la protezione per l'ex direttore dell'Aisi Arturo Esposito, coinvolto nell'inchiesta sull'imprenditore siciliano Antonello Montante, insieme con l'attuale vicedirettore, il renzianissimo Valerio Blengini (testimone non indagato). Ora con l'ex Rottamatore viaggiano l'autista e il capomacchina, mentre su un secondo mezzo si accomodano altri tre uomini che a breve potrebbero essere destinati a un nuovo incarico.Gli altri ex presidenti del Consiglio hanno ancora quattro guardie del corpo a testa dell'Aisi (servizi giornalieri da due) e un'auto, con possibili piccoli innesti di poliziotti e carabinieri. Enrico Letta, quando ritorna da Parigi, può contare su due uomini, che si alternano, ma pare che la macchina sia a sue spese. Paolo Gentiloni ha come angeli custodi gli agenti dell'ispettorato generale della polizia di Stato (Viminale), il premier Giuseppe Conte è protetto dagli uomini dell'ispettorato di Palazzo Chigi.Le scorte dell'Aisi assegnate agli ex capi di governo costano circa 200.000 euro l'anno e hanno diritto a ricchi rimborsi per le trasferte. Con Matteo le note spese erano particolarmente esose visto che il fu Rottamatore amava dormire in alberghi di gran lusso e con lui pernottava pure tutta la scorta. Non è difficile fare due conti e immaginare quanto costasse ospitare sei uomini in stanze da diverse centinaia di euro a notte.I servizi segreti hanno iniziato a occuparsi dei presidenti del Consiglio nel 2009, quando un decreto del governo Berlusconi stabilì che fossero gli 007 a occuparsi dell'incolumità dei primi ministri. I guardaspalle dell'Aisi sono una garanzia di riservatezza e possono rimanere muti qualunque cosa vedano (non sono ufficiali di polizia giudiziaria e per questo non sono costretti a riferire eventuali notizie di reato alla magistratura).Dal 2013, a seguito di una decisione del governo Monti, dovrebbero solo contribuire alla tutela del premier per la sicurezza delle informazioni e delle comunicazioni, ma di fatto, Renzi ha forzato la norma e ha fatto praticamente sostituire i poliziotti dell'ispettorato di Palazzo Chigi con gli 007, creando non pochi dissapori tra i due gruppi. L'ex segretario del Pd ha dimostrato di preferire la discretissima presenza della compagine dell'Aisi. Se Renzi doveva scegliere su quale macchina salire, optava per quella dei due colonnelli. Che, con il tempo, si sono trasformati nella sua ombra. Anche nel recente viaggio a Washington per la commemorazione di Bob Kennedy uno di loro era a bordo del jet privato che ha trasvolato l'oceano. G. S. era stato comandante della compagnia Trionfale di Roma dopo il generale Emanuele Saltalamacchia, indagato nell'inchiesta Consip e legatissimo a Renzi e per questo probabile suggeritore del nome giusto per il ruolo di caposcorta.Il governo Gentiloni ha riapplicato le disposizioni alla lettera e ha riaffidato la salvaguardia del premier alla polizia, affiancata solo per compiti specifici dall'Aisi. Con lui il reparto dell'intelligence era composto da undici agenti: tre (compresi i due marescialli) provenivano dal seguito di Francesco Rutelli di quando era presidente del Copasir e otto dal reparto scorte dei carabinieri del ministero degli Esteri da cui proveniva. Per quasi un anno questi uomini sono rimasti senza un incarico preciso e venivano avvistati davanti a Palazzo Chigi con una non meglio precisata mission. Da oggi il loro servizio cessa e agli undici 007 verranno assegnati nuovi compiti. Uno sciogliete le righe che probabilmente segna la fine di un'epoca.
Giuseppe Cavo Dragone (Ansa)
La paura sta spingendo l’Occidente ad adottare i metodi degli autocrati. Diventando insofferente a principi, come libertà e democrazia, in nome dei quali afferma di lottare.
Quando si fanno i conti con un nemico esistenziale, si corre sempre un rischio: diventare come lui, pur di non lasciarlo vincere. L’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, nell’intervista dell’altro ieri al Financial Times, in cui ha lanciato l’idea di un cyberattacco preventivo della Nato contro la Russia, ha svelato da dove nasce uno slancio che pare rinnegare la natura giuridica dell’Alleanza atlantica. Incursioni di droni, malware, campagne di disinformazione orchestrate dal Cremlino.
Federica Mogherini (Ansa)
Perquisiti l’ex ministro degli Esteri di Renzi, poi Alta rappresentante europea, e l’ex diplomatico noto per aver esposto la bandiera del gay pride all’ambasciata italiana. Una vita all’ombra di Prodi, Veltroni, Franceschini...
Naturalmente le accuse nei confronti di Federica Mogherini sono tutte da dimostrare. Così come devono essere provate quelle mosse dalla Procura europea nei confronti dell’ambasciatore Stefano Sannino. Secondo i magistrati, l’ex ministra degli Esteri della Ue e il diplomatico di stanza a Bruxelles avrebbero fatto un uso improprio dei fondi dell’Unione. Le contestazioni nei loro confronti andrebbero dalla frode in appalti pubblici alla corruzione e tra le imputazioni ci sarebbe pure il conflitto d’interessi. Per questo la polizia avrebbe perquisito le abitazioni e gli uffici di Mogherini e Sannino, sottoponendo entrambi al fermo giudiziario.
Beppe Sala, Matteo Lepore e Stefano Lo Russo (Ansa)
Torino ostaggio dei centri sociali, Milano preda dei maranza, Bologna razziata dai pro Pal: per i primi cittadini è tutto ok.
Mi viene in mente quel che mi diceva la mia mamma quando non sapeva più cosa fare data la mia esuberanza: «’un so più da che parte prenditi». Questo rappresentava il massimo della disperazione. Non sapeva più cosa fare con me e di me. Ecco, mi viene da dire la stessa cosa sulle dichiarazioni e sulle prese di posizione di alcuni sindaci di sinistra riguardo a gruppi di ragazzine e ragazzini che rapinano i coetanei, baby gang e affini.
Putin e Witkoff durante i colloqui a Mosca (Ansa)
Ieri l’incontro tra il delegato americano e lo zar a Mosca. Trump: «Ci stiamo provando, è un casino». Zelensky trema: «Ho paura che gli Usa perdano interesse a negoziare».
Le trattative sulla crisi ucraina sono a un punto di svolta? Ieri sera, Vladimir Putin ha ricevuto al Cremlino l’inviato americano per il Medio Oriente, Steve Witkoff, e il genero di Donald Trump, Jared Kushner. Prima che iniziasse la sessione a porte chiuse, Witkoff - che avrebbe cenato in un ristorante stellato con piatti a base di caviale quaglia e carne di cervo - ha definito Mosca «una città magnifica». Nel momento in cui La Verità andava in stampa, il colloquio, a cui hanno preso parte anche i consiglieri presidenziali russi Kirill Dmitriev e Yuri Ushakov, non era ancora terminato, anche perché, secondo la Cnn, lo zar avrebbe fatto attendere la delegazione Usa, non rispettando la tabella di marcia prevista. Il meeting è del resto iniziato con più di due ore di ritardo. Poco prima dell’incontro, il presidente russo ha accusato i governi europei di sabotare i negoziati di pace. «L’Europa sta impedendo all’amministrazione statunitense di raggiungere la pace in Ucraina», ha tuonato, bollando le richieste europee come «inaccettabili per la Russia». «Se l’Europa vuole combattere la guerra, siamo pronti adesso», ha aggiunto. «Se le forze di Kiev continueranno ad attaccare petroliere e altre navi nel Mar Nero, la Russia risponderà nel modo più radicale, isolando l’Ucraina dal mare», ha continuato il presidente russo.






