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2021-01-16
Gli italiani appesi alla lotteria dei colori. E tre Regioni si ritingono di rosso
Alla fine, la paventata marea arancione è arrivata. Dopo l'approvazione, da parte del Consiglio dei ministri, prima del dl sulle limitazioni agli spostamenti e sulla proroga al 30 aprile dello stato d'emergenza e poi del nuovo dpcm, il ministro della Salute Roberto Speranza ha firmato le ordinanze, che a partire da domani, cambiano di colore a più di metà del territorio nazionale.
Non ci sono grandi sorprese rispetto a quanto filtrato nei giorni scorsi in base all'irrigidimento dei parametri per la classificazione delle diverse aree di rischio, ma ciò non ha evitato comunque uno strascico polemico tra amministratori locali e governo centrale (in particolare il governatore della Lombardia Attilio Fontana e il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, ma soprattutto da parte di ristoratori e baristi). Partiamo dalle ordinanze di Speranza: dopo aver collocato la settimana scorsa in zona arancione Calabria, Emilia Romagna, Lombardia, Veneto e Sicilia, il ministro ha decretato una ulteriore stretta per la Lombardia, che diventa rossa, alla quale si aggiungono la Sicilia (che pur avendo dati da arancione ha chiesto di essere messa in rosso) e la provincia autonoma di Bolzano. Sia la Lombardia che la Provincia autonoma si appellano ai giudici e presenteranno ricorso. Ma è decisamente l'arancione il colore dominante, scorrendo la nuova mappa delle restrizioni decretata dal ministero di Lungotevere: oltre alle citate regioni rosse, diventano o restano infatti arancioni 12 regioni: Abruzzo, Calabria, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Marche, Piemonte, Puglia, Umbria, Val D'Aosta e Veneto.
A rimanere gialle, e quindi nella fascia soggetta a meno restrizioni, saranno la Campania, la Sardegna, la Basilicata, la Toscana, la Provincia Autonoma di Trento e il Molise. A supporto di quella che si può definire certamente l'ennesima stretta, le considerazioni fatte dal presidente dell'Iss, Silvio Brusaferro, in occasione della consueta illustrazione settimanale del monitoraggio sull'andamento dell'epidemia. Pur affermando che, a suo avviso, le restrizioni del periodo festivo hanno consentito di rallentare l'aumento dei casi, Brusaferro ha parlato di un «aumento complessivo del rischio di un'epidemia non controllata» e quindi non gestibile a livello di ricoveri nei reparti ordinari e nelle terapie intensive. In quest'ottica, nel monitoraggio si legge che l'indice Rt è in aumento lento ma costante da cinque settimane ed è giunto a 1,09 come media nazionale.
Ma proprio sui dati e sui moduli matematici relativi alla trasmissione del contagio, si segnala l'iniziativa di un gruppo di accademici, raccolti sotto la sigla «Lettera 150», che ha inoltrato un'istanza di accesso agli atti degli indicatori Covid, che finora il governo non ha voluto rendere pubblici. «Questi indicatori», si legge nella nota diffusa da 250 studiosi, «sono quelli in base ai quali si decide di limitare numerose libertà costituzionali». A questo proposito, è il caso di ricordare il quadro delle misure e delle restrizioni contenute nelle ordinanze, nel Dl e nel Dpcm, che entreranno in vigore da oggi. Anzitutto, è confermato il coprifuoco dalle 22 alle 5 e non si potrà in nessun caso uscire dalla propria Regione di residenza (anche nelle zone gialle) salvo comprovati motivi di necessità. Sarà possibile, una sola volta al giorno, ricevere al massimo due persone non conviventi, che potranno portare con sé minori di 14 anni. Il divieto di raggiungere altre Regioni resterà in vigore fino al 15 febbraio, ma nelle zone gialle sarà possibile muoversi senza autocertificazione su tutto il territorio regionale, mentre nelle zone arancioni ci si potrà muovere liberamente solo all'interno del proprio Comune, con l'eccezione di chi abita in Comuni con meno di 5.000 abitanti. Questi ultimi potranno raggiungere, in un raggio di 30 km, altri piccoli Comuni ma non i capoluoghi. La seconde case si potranno raggiungere solo se collocate all'interno della propria Regione nelle zone gialle o nel proprio comune nelle zone arancioni. Palestre, piscine e impianti sciistici resteranno chiusi ovunque (questi ultimi per il momento fino al 15 febbraio), mentre nelle zone gialle resteranno regolarmente aperti i negozi. È sul fronte degli esercizi che è arrivata la novità più rilevante, con l'introduzione del divieto di asporto dopo le 18 per i bar che, assieme ai ristoranti, nelle zone gialle saranno aperti fino alle 18. A quel punto, però, i ristoranti potranno continuare a fare asporto e consegne e domicilio, mentre i bar dovranno, in sostanza, abbassare le serrande. I centri commerciali resteranno chiusi nei week-end ma l'altra novità è che i musei, nelle zone gialle, riapriranno nei giorni feriali, mentre restano chiusi cinema e teatri. Nelle zone arancioni, invece, bar e ristoranti non potranno aprire al pubblico ma potranno fare solo consegne e asporto. Come detto, però, i bar solo fino alle 18.
Tralasciando la fantomatica zona bianca, resta invece il caos sul fronte scuola: il dpcm parla di ritorno in presenza per le superiori fino al 75% degli studenti da lunedì, ma tra proteste, sentenze del Tar e norme confliggenti, le Regioni andranno in ordine sparso.
Fontana: «Questa è una punizione» Gori chiede di esentare Bergamo
«Una punizione». È così che il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, vede il ritorno in zona rossa a partire da domenica, contro il quale ha già annunciato ricorso (insieme alla provincia di Bolzano: la giunta altoatesina ha anzi deciso di non inasprire le limitazioni attualmente in vigore e di restare di fatto «gialli» nonostante il parere di Roma). Fontana ha dichiarato: «Ho appena parlato con il ministro Speranza, è una punizione che la Lombardia non si merita. Mi ha detto che farà fare ancora dei controlli. Ho fatto presente a Speranza che c'è qualcosa che non funziona nei conti, come vengono fatti e nella determinazione dei parametri». I calcoli del governo a Fontana non quadrano proprio: «Oggettivamente siamo in una fase in cui stiamo migliorando i numeri eppure c'è il rischio che si entri in zona rossa. I cittadini si sono comportati tutti molto bene e sinceramente la zona rossa è estremamente penalizzante», ha spiegato. Persino più duro è il commento dell'assessore regionale allo Sviluppo economico, Guido Guidesi, che parla di una «decisione assurda da parte del governo che avrà conseguenze drammatiche per il sistema produttivo lombardo. Bene ha fatto il governatore Fontana a chiedere con fermezza al ministro Speranza di approfondire la questione con il Comitato tecnico scientifico. Oltre a rivedere la decisione, il governo dovrebbe utilizzare un semplice buonsenso e ristorare immediatamente tutte le attività economiche danneggiate. Questo astio nei confronti delle partite Iva deve finire», ha tuonato Guidesi. Alla decisione si è opposta anche Mariastella Gelmini, capogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati, che in una nota ha dichiarato: «Il ritorno della Lombardia in zona rossa rappresenta una penalizzazione eccessiva per cittadini, famiglie e imprese, provati dalla lunghissima battaglia contro il Covid. Anche perché in larghissima parte i lombardi si sono scrupolosamente attenuti alle regole in questi mesi e hanno mostrato spirito solidale e tempra da combattenti: l'aggravamento della pandemia e delle restrizioni è un colpo al cuore che la Lombardia non si merita».
Chi ha pensato a un modo per svicolare dalle restrizioni regionali è però Giorgio Gori, il sindaco dem di Bergamo, la città che più fu provata nella prima ondata e che ora, forse anche in virtù del dramma vissuto ormai un anno fa, ha valori nettamente migliori del resto della Lombardia. Ecco perché Gori, insieme al presidente della provincia Gianfranco Gafforelli, ha scritto a Fontana per chiedere una deroga per il suo territorio, eventualità peraltro prevista dal Dpcm del 3 novembre. E già il territorio di Cremona starebbe valutando l'opzione di chiedere alla giunta Fontana una deroga analoga. A Gori, tuttavia, Fontana ha risposto così: «Se il sindaco Gori riesce a sollecitare un intervento ai suoi rappresentanti politici, gli unici a poter cambiare le regole e modificare il sistema, non sarà necessario disporre deroghe per Bergamo, in quanto tutta la Lombardia potrà essere, almeno, zona arancione».
Fontana spiega: «Comprendo bene le ragioni del sindaco Gori che, evidenziando come la provincia di Bergamo abbia 61 positivi al Covid ogni 100.000 abitanti, quindi al di sotto della media regionale, chiede una deroga alla zona rossa. Il problema è che tale parametro non è preso in considerazione dal ministero della Salute e dal Cts nazionale, ma solo l'Rt». Per Fontana, «se venisse utilizzato il tasso di incidenza dei positivi su 100.000 abitanti, infatti, oggi la Lombardia non finirebbe in zona rossa».
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In arrivo un cambio di status in quasi tutte le zone del Paese. Lettera di 250 accademici: «Rendete pubblici gli indicatori»Polemiche sulla «retrocessione» lombarda. Pure l'Alto Adige si ribella contro RomaLo speciale contiene due articoliAlla fine, la paventata marea arancione è arrivata. Dopo l'approvazione, da parte del Consiglio dei ministri, prima del dl sulle limitazioni agli spostamenti e sulla proroga al 30 aprile dello stato d'emergenza e poi del nuovo dpcm, il ministro della Salute Roberto Speranza ha firmato le ordinanze, che a partire da domani, cambiano di colore a più di metà del territorio nazionale. Non ci sono grandi sorprese rispetto a quanto filtrato nei giorni scorsi in base all'irrigidimento dei parametri per la classificazione delle diverse aree di rischio, ma ciò non ha evitato comunque uno strascico polemico tra amministratori locali e governo centrale (in particolare il governatore della Lombardia Attilio Fontana e il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, ma soprattutto da parte di ristoratori e baristi). Partiamo dalle ordinanze di Speranza: dopo aver collocato la settimana scorsa in zona arancione Calabria, Emilia Romagna, Lombardia, Veneto e Sicilia, il ministro ha decretato una ulteriore stretta per la Lombardia, che diventa rossa, alla quale si aggiungono la Sicilia (che pur avendo dati da arancione ha chiesto di essere messa in rosso) e la provincia autonoma di Bolzano. Sia la Lombardia che la Provincia autonoma si appellano ai giudici e presenteranno ricorso. Ma è decisamente l'arancione il colore dominante, scorrendo la nuova mappa delle restrizioni decretata dal ministero di Lungotevere: oltre alle citate regioni rosse, diventano o restano infatti arancioni 12 regioni: Abruzzo, Calabria, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Marche, Piemonte, Puglia, Umbria, Val D'Aosta e Veneto. A rimanere gialle, e quindi nella fascia soggetta a meno restrizioni, saranno la Campania, la Sardegna, la Basilicata, la Toscana, la Provincia Autonoma di Trento e il Molise. A supporto di quella che si può definire certamente l'ennesima stretta, le considerazioni fatte dal presidente dell'Iss, Silvio Brusaferro, in occasione della consueta illustrazione settimanale del monitoraggio sull'andamento dell'epidemia. Pur affermando che, a suo avviso, le restrizioni del periodo festivo hanno consentito di rallentare l'aumento dei casi, Brusaferro ha parlato di un «aumento complessivo del rischio di un'epidemia non controllata» e quindi non gestibile a livello di ricoveri nei reparti ordinari e nelle terapie intensive. In quest'ottica, nel monitoraggio si legge che l'indice Rt è in aumento lento ma costante da cinque settimane ed è giunto a 1,09 come media nazionale. Ma proprio sui dati e sui moduli matematici relativi alla trasmissione del contagio, si segnala l'iniziativa di un gruppo di accademici, raccolti sotto la sigla «Lettera 150», che ha inoltrato un'istanza di accesso agli atti degli indicatori Covid, che finora il governo non ha voluto rendere pubblici. «Questi indicatori», si legge nella nota diffusa da 250 studiosi, «sono quelli in base ai quali si decide di limitare numerose libertà costituzionali». A questo proposito, è il caso di ricordare il quadro delle misure e delle restrizioni contenute nelle ordinanze, nel Dl e nel Dpcm, che entreranno in vigore da oggi. Anzitutto, è confermato il coprifuoco dalle 22 alle 5 e non si potrà in nessun caso uscire dalla propria Regione di residenza (anche nelle zone gialle) salvo comprovati motivi di necessità. Sarà possibile, una sola volta al giorno, ricevere al massimo due persone non conviventi, che potranno portare con sé minori di 14 anni. Il divieto di raggiungere altre Regioni resterà in vigore fino al 15 febbraio, ma nelle zone gialle sarà possibile muoversi senza autocertificazione su tutto il territorio regionale, mentre nelle zone arancioni ci si potrà muovere liberamente solo all'interno del proprio Comune, con l'eccezione di chi abita in Comuni con meno di 5.000 abitanti. Questi ultimi potranno raggiungere, in un raggio di 30 km, altri piccoli Comuni ma non i capoluoghi. La seconde case si potranno raggiungere solo se collocate all'interno della propria Regione nelle zone gialle o nel proprio comune nelle zone arancioni. Palestre, piscine e impianti sciistici resteranno chiusi ovunque (questi ultimi per il momento fino al 15 febbraio), mentre nelle zone gialle resteranno regolarmente aperti i negozi. È sul fronte degli esercizi che è arrivata la novità più rilevante, con l'introduzione del divieto di asporto dopo le 18 per i bar che, assieme ai ristoranti, nelle zone gialle saranno aperti fino alle 18. A quel punto, però, i ristoranti potranno continuare a fare asporto e consegne e domicilio, mentre i bar dovranno, in sostanza, abbassare le serrande. I centri commerciali resteranno chiusi nei week-end ma l'altra novità è che i musei, nelle zone gialle, riapriranno nei giorni feriali, mentre restano chiusi cinema e teatri. Nelle zone arancioni, invece, bar e ristoranti non potranno aprire al pubblico ma potranno fare solo consegne e asporto. Come detto, però, i bar solo fino alle 18. Tralasciando la fantomatica zona bianca, resta invece il caos sul fronte scuola: il dpcm parla di ritorno in presenza per le superiori fino al 75% degli studenti da lunedì, ma tra proteste, sentenze del Tar e norme confliggenti, le Regioni andranno in ordine sparso. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/gli-italiani-appesi-alla-lotteria-dei-colori-e-tre-regioni-si-ritingono-di-rosso-2649954599.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="fontana-questa-e-una-punizione-gori-chiede-di-esentare-bergamo" data-post-id="2649954599" data-published-at="1610741649" data-use-pagination="False"> Fontana: «Questa è una punizione» Gori chiede di esentare Bergamo «Una punizione». È così che il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, vede il ritorno in zona rossa a partire da domenica, contro il quale ha già annunciato ricorso (insieme alla provincia di Bolzano: la giunta altoatesina ha anzi deciso di non inasprire le limitazioni attualmente in vigore e di restare di fatto «gialli» nonostante il parere di Roma). Fontana ha dichiarato: «Ho appena parlato con il ministro Speranza, è una punizione che la Lombardia non si merita. Mi ha detto che farà fare ancora dei controlli. Ho fatto presente a Speranza che c'è qualcosa che non funziona nei conti, come vengono fatti e nella determinazione dei parametri». I calcoli del governo a Fontana non quadrano proprio: «Oggettivamente siamo in una fase in cui stiamo migliorando i numeri eppure c'è il rischio che si entri in zona rossa. I cittadini si sono comportati tutti molto bene e sinceramente la zona rossa è estremamente penalizzante», ha spiegato. Persino più duro è il commento dell'assessore regionale allo Sviluppo economico, Guido Guidesi, che parla di una «decisione assurda da parte del governo che avrà conseguenze drammatiche per il sistema produttivo lombardo. Bene ha fatto il governatore Fontana a chiedere con fermezza al ministro Speranza di approfondire la questione con il Comitato tecnico scientifico. Oltre a rivedere la decisione, il governo dovrebbe utilizzare un semplice buonsenso e ristorare immediatamente tutte le attività economiche danneggiate. Questo astio nei confronti delle partite Iva deve finire», ha tuonato Guidesi. Alla decisione si è opposta anche Mariastella Gelmini, capogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati, che in una nota ha dichiarato: «Il ritorno della Lombardia in zona rossa rappresenta una penalizzazione eccessiva per cittadini, famiglie e imprese, provati dalla lunghissima battaglia contro il Covid. Anche perché in larghissima parte i lombardi si sono scrupolosamente attenuti alle regole in questi mesi e hanno mostrato spirito solidale e tempra da combattenti: l'aggravamento della pandemia e delle restrizioni è un colpo al cuore che la Lombardia non si merita». Chi ha pensato a un modo per svicolare dalle restrizioni regionali è però Giorgio Gori, il sindaco dem di Bergamo, la città che più fu provata nella prima ondata e che ora, forse anche in virtù del dramma vissuto ormai un anno fa, ha valori nettamente migliori del resto della Lombardia. Ecco perché Gori, insieme al presidente della provincia Gianfranco Gafforelli, ha scritto a Fontana per chiedere una deroga per il suo territorio, eventualità peraltro prevista dal Dpcm del 3 novembre. E già il territorio di Cremona starebbe valutando l'opzione di chiedere alla giunta Fontana una deroga analoga. A Gori, tuttavia, Fontana ha risposto così: «Se il sindaco Gori riesce a sollecitare un intervento ai suoi rappresentanti politici, gli unici a poter cambiare le regole e modificare il sistema, non sarà necessario disporre deroghe per Bergamo, in quanto tutta la Lombardia potrà essere, almeno, zona arancione». Fontana spiega: «Comprendo bene le ragioni del sindaco Gori che, evidenziando come la provincia di Bergamo abbia 61 positivi al Covid ogni 100.000 abitanti, quindi al di sotto della media regionale, chiede una deroga alla zona rossa. Il problema è che tale parametro non è preso in considerazione dal ministero della Salute e dal Cts nazionale, ma solo l'Rt». Per Fontana, «se venisse utilizzato il tasso di incidenza dei positivi su 100.000 abitanti, infatti, oggi la Lombardia non finirebbe in zona rossa».
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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