2020-06-21
Saranno le imprese e le donne a salvare l’Italia
La classe politica è a un livello bassissimo: non pensa ad altro che salvarsi la poltrona, quindi non vede oltre il proprio naso e produce vuoti proclami. Gli unici impulsi validi arrivano da uomini e donne dell'industria.Nel disastro una speranza: chi lavora e produce, dopo decenni di chiacchere, ha cominciato a farsi sentire. È una novità di grande rilievo, che potrebbe cambiare tutto, o quasi. Una democrazia moderna non funziona se gli industriali non sono convinti della loro identità e si travestono da altro: influencer, sociologi, attivisti sociali, intellettuali. Il consenso/complicità dei ceti produttivi e delle loro organizzazioni ha avuto almeno lo stesso peso del cinismo dalla vista corta della classe politica e dell'alta burocrazia nel far sprofondare l'Italia negli ultimi decenni. Era già tutto detto nel vecchio e sempre valido adagio: «A ognuno il suo mestiere». Quando l'industriale si mette a correre dietro ai politici per ingraziarseli ne escono solo guai, per tutti.Non è un caso se perfino il quotidiano della Confindustria (l'associazione degli industriali italiani) è finito a un certo punto in rosso fuoco, con cause in Tribunale tuttora in corso. Se ti interessa il rosso, allora fa meglio Il Manifesto, più competente in quel campo. A chiarire il cambiamento di passo è stata una dichiarazione di Carlo Bonomi, nuovo presidente della Confindustria (e prima di Assolombarda): al giornalista che gli chiedeva il suo parere sul piano di rinnovamento dell'Italia del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte: «Non ho visto nessun piano», ha risposto Bonomi. «Un piano ha obiettivi ben dettagliati, tempi, scadenze e fonti di finanziamento precisate. Questo piano non c'era, e sarei curioso di leggerlo».Un linguaggio che non si sentiva più da tempo, adeguato alla situazione che è il rilancio dell'Italia e non uno show mediatico. Giuseppi ha subito risposto con il linguaggio del generone politico in uso oggi (che è poi quello del Grande Fratello), ravvisando nel presidente di Confindustria «un'ansia di prestazione politica», mentre lui vorrebbe «un'ansia di prestazione imprenditoriale». Il fatto è che forse (speriamo) quegli industriali che poco c'entrano coi Grandi Fratelli stanno uscendo dal fumettismo televisivo e non hanno nessuna ansia da prestazione. Stanno solo, finalmente, rientrando a casa loro: la produzione e lo sviluppo, i guadagni e le perdite. E cominciano dal linguaggio, che ora torna a parlare dei fatti (cosa è un programma), delle cose (le scadenze, i costi, le risorse) e non a raccontare opinioni o impressioni personali (l'ansia di prestazione dell'altro). Se andasse avanti così si tratterebbe davvero di un cambiamento epocale: il passaggio (certo un po' tardivo) dalle parole ai fatti.Tutti ormai hanno capito che la grande crisi italiana è, soprattutto, una crisi culturale: di idee, di iniziative, di programmi, di valori, di conoscenze. Ma l'alimento e la base della cultura è il linguaggio. È con la perdita della parola significativa, sostituita da quella a effetto (l'«ansia di prestazione» che assilla Giuseppi, che poi la vede negli altri), che si passa dal confronto alla rissa, dal discorso al vaniloquio, e si distrugge ogni cultura, e quindi la presenza di un Paese nel mondo. È così - per esempio - che nascono gaffe sorprendenti come quella del ministro degli Esteri Luigi Di Maio che si presenta a un incontro bilaterale nel Canton Ticino con otto auto blu e quattro van blindati (come raccontato da Giorgio Gandola sulla Verità di giovedì scorso): un gesto che solo qualcuno che non hai mai visto uno svizzero e soprattutto un ticinese (con il suo culto del grotto e del basso profilo) poteva fare. Dopo il corteo da mini presidente americano, Di Maio invece di parlare dei lavoratori frontalieri (tema dell'incontro) ha poi invitato i ticinesi a passare le vacanze in Italia, dove già vanno ogni due per tre, scavalcando una frontiera che (caselli a parte) non esiste neppure. Parole perse, sprecate, che accompagnano il nulla del governo giuseppino, e il suo stile inconsistente. Quindi mortale per una nazione se vuole vivere, e non continuare a parlarsi addosso.Il ritorno degli industriali al loro posto (che Bonomi ha poi crudamente illustrato, elencando tra l'altro i pesantissimi debiti del governo nei confronti delle imprese), aiuterebbe anche i sindacati e le altre associazioni professionali a riprendere il loro ruolo di rappresentanti dei lavoratori delle diverse categorie. Così anche la Confartigianato Imprese ha calcolato che nel solo Veneto i debiti della pubblica amministrazione verso i diversi fornitori sono di 4,5 miliardi di mancati pagamenti. È questo lavoro di controllo e conseguente programmazione che devono fare le diverse organizzazioni dei produttori, e non rimasticare ideologie svanite o rincorrere mode di costume che nulla c'entrano con il mondo produttivo. Questa svolta potrebbe davvero smascherare davanti ai cittadini fin dal posto di lavoro l'insopportabile vacuità e egoriferimento dell'attuale classe politica di governo, che nulla vede (ma neppure guarda e ancora meno sa), al di là del proprio interesse al posto. Rinfrancate dalla fermezza di Bonomi, ora anche le altre confederazioni di imprese portano avanti queste stesse istanze, con i loro rispettivi bisogni e anche programmi di sviluppo; come Unioncamere, che si sta impegnando in tutta Italia in questa direzione. Un mondo che stava franando nella burocrazia parastatale ritrova forse grinta e iniziativa. È interessante poi che nell'elezione di Bonomi in Confindustria fra i seguaci più convinti e agguerriti ci fossero molte donne, diversissime dalle iperfotografate ministre giallorosse, e invece molto determinate e concrete. La concretezza femminile è stata infatti un'altra grande assente delle ultime stagioni politiche, caratterizzate dal travestimento generale, dove tutti fingevano di essere ciò che non erano, lasciando il Paese allo sbando. Forse di fronte a temi come la sopravvivenza, si ridarà più spazio al sapere femminile sulla vita.La questione non è solo economica, anche se nella fase di industrializzazione in cui siamo questo aspetto è dominante. I totalitarismi del '900, con i loro massacri finali, nacquero proprio dallo smarrimento delle identità professionali e di gruppo (le culture di «classe», anche oggi tutt'altro che scomparse, malgrado le profezie di Massimo D'Alema): Hanna Arendt e tanti altri l'hanno documentato da tempo. L'identità professionale (assieme a quella territoriale, linguistica, religiosa) è una delle componenti fondamentali della personalità. Se non possiedi un mestiere, il suo sapere, e l'orgoglio di averlo, sei perso. Il suo sbiadimento o smarrimento crea solo caos nell'individuo e in chi gli sta attorno. Per questo l'evaporazione dell'identità di produttore industriale, svalutata socialmente e per molti anni non più francamente assunta e proposta a livello individuale e di gruppo, ha rappresentato un fattore di grande indebolimento per tutta la società. Se gli industriali ritroveranno la franchezza e la concretezza mostrata da Carlo Bonomi con Giuseppe Conte, al Casino del bel respiro della villa Pamphilij, si comincerà davvero a respirare un po' meglio.
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Un uomo ha travolto pedoni e ciclisti gridando «Allahu Akbar» sull’isola d’Oléron, nella Francia occidentale. Dieci feriti, tre gravi. Arrestato dopo aver tentato di incendiare l’auto con bombole di gas. Indagine per tentato omicidio, esclusa per ora la pista terroristica.