2021-09-27
Gian Marco Centinaio: «L’Europa in preda al delirio verde»
Gian Marco Centinaio (Ansa)
Il sottosegretario all'Agricoltura: «Sono ossessionati dall'ambiente ma non tutelano i prodotti dei campi. Sul cibo è in atto una guerra economica gigantesca che cancella i territori e la cultura che essi esprimono».È un uomo di lotta e di governo. Gli tocca una delle battaglie più dure: difendere l'agroalimentare di qualità - per noi significa tra annessi e connessi 500 miliardi di euro di valore - da attacchi planetari, e allo stesso tempo deve cercare di sostenere gli agricoltori in uno dei momenti più difficili. Gian Marco Centinaio dei suoi 50 anni - li compie il prossimo 31 ottobre - ne ha passati una trentina come militante della Lega dove ha cominciato nel 1990 da consigliere di quartiere a Pavia. Ora che Umberto Bossi fa l'icona, gli tocca il soprannome di «senatur» perché alla politica nazionale si è affacciato direttamente dal seggio di Palazzo Madama dove è entrato nel 2013. Matteo Salvini, che è per lui un amico fraterno, lo ha voluto, appena eletto, alla testa dei laticlavi leghisti per contrastare i governi Pd di Enrico Letta e Paolo Gentiloni. Lì si è allenato alla lotta. Al governo ci è arrivato con il Conte 1, da ministro dell'Agricoltura. Ha voluto anche la delega al turismo persuaso che le due cose devono stare insieme. «È una convinzione che mi sono fatto all'università», spiega, «studiando marketing territoriale e poi da operatore del turismo: credo che serva un ministero al made in Italy, che riunisca sotto un'unica regìa le risorse territoriali per sfruttare al meglio la catena del valore». A occuparsi di vigne e pascoli, ma anche del primo comparto industriale italiano - l'agroalimentare vale 140 miliardi di euro di fatturato, di cui 50 dall'export - ci è tornato con il governo Draghi: è sottosegretario sempre all'Agricoltura e di nuovo il ministro Stefano Patuanelli gli ha dato anche l'incombenza del turismo enogastronomico.Vi pestate i piedi con Massimo Garavaglia, anche lui leghista e ministro del Turismo?«No, lavoriamo allo stesso progetto: dare all'Italia un'economia robusta fondata sulla qualità dei nostri prodotti, sulla nostra capacità di ospitare, sul nostro patrimonio artistico, monumentale e paesistico di cui la ruralità è grande parte, e sulla cultura, perché rivendico al prodotto enogastronomico un altissimo valore culturale. E poi nella Lega non ci si pesta i piedi».D'accordo che lei è appassionato di moto e con la sua «cicciona», così chiama la sua Harley Davidson, è abituato alle gimkane, ma nella Lega ultimamente non andate tutti d'amore e d'accordo. O è un abbaglio?«Capisco che non si sia più abituati ai partiti, al dibattito democratico, ma se un partito discute ora diventa un'eccezione? Matteo (Salvini, ndr) aveva convocato tutti i congressi poi è arrivato il virus, ma li faremo. E di fatto li facciamo tutti i giorni perché i nostri militanti stanno nei territori, discutono, si confrontano. La Lega è un partito vivo e vero, bisognerà che se lo mettano nella testa». Il vostro coinquilino nel gabinetto Draghi Enrico Letta vi rimprovera la doppiezza di essere maggioranza e opposizione allo stesso tempo. Ha ragione?«Forse a qualcuno non piace che la Lega sia di governo, ma resterà deluso. Noi ci stiamo per far passare le nostre idee. Ai tempi di Umberto Bossi e Roberto Maroni era diverso? Noi ci facciamo carico del nostro progetto dentro i ministeri e portiamo avanti la nostra linea politica. Quanto all'essere di governo non c'è solo Roma, ci sono anche le Regioni dove la Lega esprime la sua altissima capacità di amministrare e si confronta con i problemi e con i cittadini. Mi piacerebbe che qualcuno riflettesse sul livello di democrazia che c'è nella Lega. Matteo Salvini ascolta tutti, dà cittadinanza a tutte le posizioni. Se ha un merito è quello d'avere aperto e d'essere aperto al confronto. Nel governo c'è una sintesi rispetto alle cose da fare e c'è l'esigenza, anzi il diritto di discuterne. Forse qualcuno che ha un'idea romantica della prima Lega non si ricorda quando non si poteva aprire bocca in pubblico. Con noi oggi Gianfranco Miglio potrebbe dire ed esprimere le sue posizioni in totale libertà e sarebbe ascoltato».Chi non ascolta pare essere l'Europa. C'è il caso prosecco, che a lei sta a cuore: quest'anno si è sposato lì con Silvia che è di Conegliano. C'è l'aggressione all'aceto balsamico. La Lega europeista non rischia di essere troppo morbida con Bruxelles?«Per il prosecco ci siamo mossi bene e stiamo già predisponendo l'opposizione, l'aggressione al balsamico è gravissima. Ma il punto è che l'Europa non crede più nei prodotti a denominazione, alle sue eccellenze. Quello che succede a noi con il prosecco sta accadendo alla Francia con la Spagna per lo champagne. Anche per l'Europa vale lo stesso discorso del governo: bisogna esserci per contare e contrastare. E la battaglia vera oggi è difendere i nostri prodotti, comunicare ci nostri prodotti, farli conoscere anche con il turismo».Non le pare che ci sia una sottovalutazione in Europa dell'agricoltura e il tentativo di frenare il nostro agroalimentare?«Ne son sicuro. Ursula von der Leyen nel discorso sull'Unione non ha pronunciato neppure una volta la parola agricoltura. E pensare che l'agricoltura è il cardine della politica europea. Il fatto è che a Bruxelles sono in preda a un delirio ambientalista radical chic e sono convinti che l'agricoltura inquini, sia nemica dell'ambiente, sia una faccenda di basso profilo. Ogni volta io gli ribatto: ma se non ci fosse stata l'agricoltura in tempo di pandemia che cosa avreste mangiato? Poi ci sono gli interessi delle multinazionali e questo è un capitolo che vale a livello mondiale. Si stanno affacciando player come Bill Gates e tutta la finanza mondiale che voglio conquistare il mercato alimentare condizionandolo con le loro capacità d'imporre parole d'ordine per vendere prodotti globali che di agricolo non hanno nulla».Non sarà che a Bruxelles non conoscono l'agricoltura e cedono ai signori della fame?«È esattamente così. Grazie a Maurizio Martina e a me quando siamo stati ministri, il precedente commissario agricolo che era irlandese aveva perfettamente capito il valore della nostra biodiversità. Lo abbiamo portato in Italia a fare esperienza, quello di adesso è polacco e non ha alcuna idea di cosa sia la nostra agricoltura. Così come non ce l'hanno né la von der Leyen né Frans Timmermans, il vicepresidente: pensano solo all'ambiente. Hanno distrutto la politica agricola con questa ossessione verde. Il programma Farm to fork con l'etichetta a semaforo è una sciagura. Abbiamo provato a spiegare che l'agricoltura per noi è fondamentale, che è diversa da quella svedese e che in Europa ci sono tante agricolture e non si possono standardizzare. Ma poi scatta la maggioranza Ursula. Loro pensano solo che agricoltura e ambiente sono nemici. Se c'è qualcuno che ha salvaguardato e tutela l'ambiente sono i nostri agricoltori».A proposito di ambiente. Caro benzina, bollette da infarto e la Deutsche Bank dice: se volete il green deal dovete imporre l'ecodittatura. Lei teme tutto questo?«Sì, anzi sono convinto che una sorta di ecodittatura la stiano anche attuando. I prezzi che pagheremo sono altissimi e ci dobbiamo opporre». L'Onu e l'Oms sulla scorta del politically correct - ambiente, fame, etica - provano a mortificare la dieta mediterranea. È preoccupato?«Non sono preoccupato perché abbiamo i diplomatici più bravi e più preparati del mondo su questi argomenti. L'ambasciatore Lamberto De Vito - che è stato mio consigliere diplomatico - è imbattibile, è in grado di smontare l'offensiva sull'etichetta a semaforo e di costruire quell'alleanza mediterranea indispensabile per salvare i nostri prodotti. Però c'è un altro aspetto che mi preoccupa ed è l'offensiva economica che le multinazionali stanno facendo. L'Oms dipende dai finanziamenti di questi signori, primo fra tutti Bill Gates che si è lanciato nel business della carne sintetica: vale 25 miliardi di dollari in prospettiva. E con lui ci sono i produttori dei cibi chimici: vogliono una sola agricoltura che loro controllano e sulla quale lucrano. Ecco, questa offensiva mi preoccupa molto. E per contrastarla serve una fortissima iniziativa politica che l'Europa non sta prendendo, anzi li asseconda».Ivano Vacondio, presidente di Federalimentare, sostiene che l'unico interesse che hanno sono le nostre quote di mercato…«C'è una guerra economica gigantesca attorno al cibo. Ecco perché bisogna prima di tutto difendere l'agricoltura e dare protagonismo ai territori e alla cultura che esprimono».C'è anche un altro pericolo all'orizzonte: i prezzi fuori controllo…«Sì, sono un grande pericolo. Sul grano è in atto una speculazione fortissima. L'Egitto, per dire uno dei Paesi in via di sviluppo sull'orlo di una crisi alimentare con tutte le conseguenze che questo innesca, rischia di non poter comprare grano per anni. Noi rischiamo di non riuscire a importarlo. A questo si somma il costo dei trasporti: un tempo si pagavano e si facevano i noli a tre mesi, ora si fanno a settimana e sono quadruplicati. Queste tensioni sui prezzi si scaricheranno inevitabilmente sui consumatori senza nessun beneficio per gli agricoltori. E l'inflazione potrebbe bruciare la ripresa».Se si brucia la ripresa arrivano più tasse per far tornare i conti?«Finché la Lega sta al governo, e ci starà a lungo, di aumenti di tasse non se ne parla. Questa è la nostra lotta».
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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