2025-04-13
Nella frase manifesto di Sara Campanella la frattura giovanile col resto del mondo
«Mi amo troppo per stare con chiunque», scriveva la ragazza uccisa a Messina. È la «forma mentis» della sua generazione.«Mi amo troppo per stare con chiunque»: è la frase che Sara Campanella, la ragazza uccisa a Messina, aveva scritto sui social come biglietto da visita del suo profilo. È stata affissa alle fermate dei bus della città, sventolata nei cortei di piazza e presentata nei telegiornali come una bandiera di libertà e una rivendicazione dei diritti della donna; una sorta di manifesto, testamento, motto e canone di comportamento. Non si sono resi conto che è una frase terribile. È una dichiarazione di solitudine narcisistica, di egoismo e di egocentrismo assoluto, di onanismo mentale; proclama la rottura col mondo e con gli altri, rinuncia a priori a ogni vero amore, a ogni legame affettivo, e in prospettiva a ogni dedizione e proiezione verso la famiglia, i figli, gli amici, la società. Mi amo troppo, non ho tempo né spazio per voialtri, tutti, dovrei sottrarlo a me stesso. La pietà per la sua precoce, assurda morte, per la sua giovane vita spezzata, vittima di un ragazzo che pretendeva di essere amato e non tollerava di essere respinto, resta intatta e totale. Ma non deve indurre a esaltare quella frase che è invece la rivelazione di una tragica condizione giovanile. Non è il pensiero isolato di una ragazza che si ama troppo ma è piuttosto la forma mentis più preoccupante diffusa tra le ragazze e i ragazzi. È la variante peggiorativa di un’altra frase che si ama ripetere: l’importante è star bene con sé stessi. Se quel che conta è solo quello, allora io posso tranquillamente fregarmene degli altri, lasciarli morire o andare al diavolo, e perfino compiere azioni di ogni tipo, anche criminale, se mi fanno star bene. E se invece fosse vero il contrario, che l’importante è star bene con gli altri, ossia trovare un giusto equilibrio tra la propria vita e quella di chi sta intorno, dare e ricevere, scambiarsi i doni dell’amicizia e dell’affetto, curarsi di chi ci è accanto? Certo, è naturale che l’istinto di autoconservazione ci porti a preoccuparci prima di noi, poi di chi sta più vicino a noi, quindi degli altri. Ma un conto è vivere solo per noi stessi, un altro è vivere a partire da sé stessi e poi allargarsi al mondo, a cominciare da chi ci è più caro e vicino.Amare sé stessi in positivo vuol dire non buttare via la propria vita, non sprecarla, rispettarsi, curarsi, avere anche un po’ di fierezza e amor proprio: ma la proclamazione di un amore esclusivo di sé e autoreferenziale, in cui non c’è posto per gli altri, è l’inizio del male, il passaggio dalla solitudine benefica all’isolamento. Che società potrà nascere da chi adotta quel motto? Già la parola nascere è abusiva in quel contesto, in cui il massimo che ci si può aspettare è autoriprodursi e rispecchiarsi; non certo generare relazioni, amicizie, amori, creature. Una sponda a questo universo autocentrato la dà oggi su la Lettura del Corriere della sera Roberto Saviano che, in un momento di sconforto, appoggiandosi a un libretto mortifero, scrive un articolo dal titolo «L’umanità è una malattia» in cui si professa omovacantista, ovvero auspica la fine dell’umanità e inneggia all’antinatalismo, ovvero al rifiuto di mettere al mondo altri umani. Saviano abbraccia convinto la «filosofia antinatalista» e spera di trovare il coraggio di essere coerente fino in fondo. «Dopo di me il diluvio», è il grido d’angoscia dei narcisisti frustrati, degli egocentrici delusi che scoprono di non essere al centro del mondo e allora «Muoia Sansone con tutti i filistei», perisca l’umanità intera. Ma al di là dello stato mentale di Saviano, del suo maledettismo letterario e dei suoi travagli personali (gli auguriamo di passare questo brutto momento, o come si dice a Napoli, «a nuttata») il tema che qui preme sottolineare riguarda in realtà una generazione allevata ad amare sé stessi sopra ogni altra cosa, persona, principio o valore e a rigettare legami con chiunque. Viviamo nell’epoca dell’individualizzazione tragica, come la definisce Ulrich Beck; l’io si sradica, non si sente erede di nessuno e rifiuta di essere padre/madre di nulla al di fuori di sé stesso; perde la realtà, il mondo, la natura, la storia, la società. S’inabissa nella sua solitudine, munita solo di connessione tecnologica. Salvo poi, contraddittoriamente, nutrire la paura di essere escluso, di essere tagliato fuori, quel che in sigla si chiama Fomo (fear of missing out). Così vive in rete la sua esistenza virtuale, è in rete ma fuori dal reale, è connesso da remoto ma sconnesso dalla vita vera e dalle sue prossimità; ha contatti senza avere legami. A tale proposito segnalo una bella sezione della rivista Formiche dedicata a Teen loneliness machine, quella solitudine adolescenziale e giovanile aggrappata alla macchina, uno smartphone o altri mezzi. In quel contesto fiorisce Narciso, e trova fondamento quella frase «maledetta» che diventa frase di culto, anche perché consacrata dal sacrificio della vittima che l’ha pronunciata.Qui s’innesta come ulteriore deformazione della realtà l’uso becero dei cosiddetti femminicidi per armare il femminismo contro i maschi assassini potenziali e incitare alla lotta per l’autorealizzazione. Dopo ogni femminicidio c’è questa chiamata alle armi per combattere il maschio violento e mobilitarsi in una specie di lotta di genere, succedaneo della lotta di classe. Il presupposto falso e fuorviante di questo esercito della salvezza è che si fronteggi con un esercito di maschi potenziali femminicidi, che è lì di fronte a loro. E invece non c’è nessun esercito maschile contro cui combattere; il 99 per cento dei maschi non usa violenza verso le donne, semmai è intimidito, in fuga o si arrocca sulla difensiva. I femminicidi sono aberrazioni di singoli che hanno perso la testa e non vittime di uno scontro sociale di genere. Non c’è nessun esercito nemico da battere ma ci sono solo individui solitari che uccidono per incapacità di vivere, dipendenza assoluta dalla loro partner e fragilità distruttiva e autodistruttiva. Sono, lo ripeto, uomini-narciso, che vivono specchiandosi nell’altro e quando lo specchio si rompe (porta male) le schegge diventano coltelli per uccidere chi ha infranto la loro immagine proiettata nella vita di lei.Alla fine vivono tra due deserti di solitudine: quella di chi ritiene di dover alzare i ponti col resto del mondo perché ama troppo sé stessa e quella di chi escluso dalla prima si vendica e uccide l’oggetto proibito del suo ego che chiama amore. Narciso contro Narciso, solitudine contro solitudine mentre le tifoserie inveiscono e incitano alla lotta. Ma il vero nemico è l’egolatria di massa. Viva Io, a morte l’Io altrui. Così muore una società, non solo un individuo.
La maxi operazione nella favela di Rio de Janeiro. Nel riquadro, Gaetano Trivelli (Ansa)
Nicolas Maduro e Hugo Chavez nel 2012. Maduro è stato ministro degli Esteri dal 2006 al 2013 (Ansa)
Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico.
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
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Viktor Orbán durante la visita a Roma dove ha incontrato Giorgia Meloni (Ansa)