Francesco condanna l’abbuffata di missili ma stavolta i media spengono i microfoni
In un’intervista rilasciata nell’aprile del 2006, Aleksandr Solzhenitsyn, premio Nobel per la letteratura e figura quasi sacra di dissidente sovietico, citò l’allora metropolita Kirill, proprio lo stesso che nelle scorse settimane è finito nel tritacarne mediatico per via di un sermone considerato omofobo e filoputiniano. «La realizzazione delle libertà», aveva detto il religioso ortodosso, «non deve costituire una minaccia per la patria o essere lesiva dei sentimenti religiosi e nazionali». Solzhenitsyn mostrò di essere molto d’accordo, e rincarò la dose: «I diritti umani illimitati, senza alcun freno morale», dichiarò, «sono proprio quelli di cui godeva il nostro antenato delle caverne, quando niente gli impediva di sottrarre una preda succulenta al cacciatore più fortunato, magari accoppandolo con il randello».
Con queste parole, il grande scrittore intendeva rimarcare la necessità di una «posizione terza». Nessuna nostalgia dell’Unione sovietica che lo aveva spedito nel gulag, ma neppure adesione fanatica e acritica al modello euroatlantico di democrazia liberale. «L’attuale democrazia occidentale versa in una crisi grave ed è difficile prevedere come ne uscirà», disse ancora Solzhenitsyn. «Per noi invece la giusta via non è ricalcare modelli altrui ma, senza allontanarci dai principi democratici essenziali, perseguire il benessere fisico e morale del popolo». E questo benessere fisico e soprattutto morale passava, inevitabilmente, per la difesa dei valori tradizionali, per la conservazione della fede, per la coscienza della «differenza» e dell’originalità russa. Un tema su cui il premio Nobel era tornato con insistenza nel suo discorso all’università di Harvard, il cui senso era (andando con l’accetta): rigettiamo il comunismo, ma non per buttarci fra le braccia di un sistema solo apparentemente libero e puro.
Anche per via di queste sue idee poco utili alla propaganda sulla «fine della storia», Solzhenitsyn fu sostanzialmente dimenticato in Occidente pochi anni dopo la sua uscita dall’Unione sovietica. Anche oggi, qui da noi, i suoi libri (specialmente i saggi) non è che circolino granché. Tendiamo a dimenticare le sue critiche a Boris Eltsin e il fatto che avesse mostrato di riporre più forti speranze in Vladimir Putin. Che cosa potrebbe dire oggi sulla guerra in Ucraina è inutile e perfino ridicolo tentare di immaginarlo, ma frasi come quelle che abbiamo appena citato basterebbero per farlo annoverare tra «i né né» e i sospettati di intelligenza con il Grande nemico zarista.
Eppure i ragionamenti dell’indimenticabile dissidente ci dovrebbero servire di lezione, dimostrando che la ricerca di una «terza via» è possibile e forse è addirittura doveroso intraprenderla. Se davvero vogliamo sovrapporre politica e morale, come di frequente avviene in queste ore, ebbene non possiamo fingere che un atteggiamento morale preveda esclusivamente il sostegno all’Ucraina e, soprattutto, l’appoggio incondizionato all’invio di armi. Se ci sono dei valori da proteggere, ora, sono certo quelli della libertà e della democrazia (possibilmente la vera libertà e la vera democrazia), ma pure quelli del rispetto e della pace.
È proprio sulla pace che insiste con grande equilibrio e lucidità, da giorni, papa Francesco. Il Pontefice, con garbata determinazione, non si è limitato a invocare l’apertura di una «terza via»: si è speso personalmente, e con coraggio, per tracciarla. Ha parlato con il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, e le sue parole hanno evidentemente avuto effetto dato che il comico divenuto eroe ha evitato di chiedere lanciamissili al Parlamento italiano (peccato che poi Mario Draghi gliene abbia ugualmente offerti di nuovi). Contemporaneamente, Francesco ha evitato di dipingere la Russia e Vladimir Putin come l’incarnazione del Male assoluto.
Come già Solzhenitsyn e, soprattutto, Giovanni Paolo II, Bergoglio ha rifiutato la grottesca schematicità del pensiero binario per seguire il sentiero del dialogo. E non si tratta di una scelta opportunista, timida o vigliacca. Anzi, è questa la direzione indicata dal più concreto realismo. Anche ieri è tornato sull’argomento: «Io mi sono vergognato», ha detto, «quando ho letto che non so, un gruppo di Stati si sono compromessi a spendere il 2 per cento, credo, o il 2 per mille del Pil nell’acquisto di armi, come risposta a questo che sta (succedendo, ndr) adesso… La pazzia, eh? La vera risposta, come ho detto, non sono altre armi, altre sanzioni, altre alleanze politico militari, ma un’altra impostazione, un modo diverso di governare il mondo, non facendo vedere i denti, come adesso. Un modo diverso e di impostare le relazioni internazionali».
Se da una parte l’auspicio per un «modo diverso» di impostare le relazioni internazionali che escluda lo scontro di potere può sembrare semplicistico e scontato, da un’altra prospettiva l’invito a non aumentare le spese militari è un segnale molto preciso, e potente (rafforzato dalla notazione sull’inopportunità delle sanzioni).
Peccato solo che il messaggio fatichi leggermente ad arrivare a destinazione. Il fatto è che la gran parte dei quotidiani e dei media italiani, da giorni, ha deciso di far passare in secondo piano le parole del Papa. Dopo aver tentato di camuffarlo da bellicista, il Giornale unico guerrafondaio ha deciso semplicemente di ignorarlo. I siti tacciono, i tg svicolano, i sinceri progressisti e i fantasiosi liberali guardano altrove. Fin quando si parla di diritti a costo zero o di difesa delle minoranze che conviene alla narrazione del capitale «impegnato», tutto bene. Se però si pone concretamente il tema di una pace che può nuocere agli interessi di molti, persino il Pontefice «progressista» risulta indigesto.
Amicus Papa, ma più preziosa è la guerra.