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2022-07-16
TimVision rilancia «For the people» con due nuove stagioni
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«For the people» (TimVision)
For the people, disponibile su TimVision dalla metà di luglio, è una serie stracolma di «ma». Di apparenze smentite, di aspettative tradite e speranze neonate, di subordinate avversative. È il contrario di tutto quel che si sarebbe considerato lecito attendersi e, al contempo, è foriera di altro: qualcosa di nuovo, diverso – in un senso che non è, necessariamente, peggiorativo – da ciò che l’abitudine aveva indotto lo spettatore a credere. For the people è un micromondo alla rovescia, dove il responsabile del caos logico cui la visione può indurre è uno ed uno soltanto, Shonda Rhimes.
Il nome, come la serie cui è legato, può dire tutto e niente. Ma, a chiunque abbia una minima dimestichezza con la serialità televisiva, finirà per suonare familiare. Shonda Rhimes, Shondaland, una sfilza di successi fra i più eclatanti di sempre. Shonda Rhimes, l’apparenza gentile da affabile signora di mezza età, è la maestra delle soap vestite a serie, la più brava a imbellettare prodotti più e meno insulsi per farne fenomeni globali. Grey’s Anatomy, stoicamente in onda dal lontano 2005, di questa perversa mistificazione è l’esempio più eclatante. Non ha nulla di originale, niente che davvero possa giustificare diciassette anni di fedele lealtà. Eppure, non solo regge. Prospera. Grey’s Anatomy, le sue protagoniste un po’ scialbe e gli amorazzi da romanzo harmony è, tuttora, parte dell’immaginario collettivo. E ci si scopre, noi pure che Grey’s Anatomy lo abbiamo ripudiato, a far riferimento al Dottor Stranamore, con quel po’ di stupore e vergogna che è solito accompagnare le epifanie improvvise. La mano, allora, si muove veloce, a coprire la bocca e il pensiero va alla serie, capostipite di una genia ben nutrita. Oltre Grey’s Anatomy, dove i confini dell’ospedale sfumano, c’è un mondo fatto di scandali e intrighi. C’è Scandal, How to get away with murder, c’è Bridgerton e, nel mezzo, un comune denominatore: le donne. Shonda Rhimes, sua Signora dell’artificio televisivo, ha fatto della serialità il viatico di un racconto preciso, femminile. Una storia di indipendenza e di emancipazione, dove la retorica – se presente – è coperta e schiacciata e annichilita dalla mole di avvenimenti esterni: morti, tragedie, complotti, Shonda Rhimes è maestra anche in questo. Approcciando per la prima volta For the people, perciò, ci si sarebbe aspettati di imbattersi in uno stesso schema. In eroine di ferro, più vicine magari alla compianta Annalise Keating che alla noiosa Meredith Grey. In intrallazzi alla Scandal, storie adultere fra avvocati rampanti, Olivia Pope, e il presidente degli Stati Uniti d’America. Ci si sarebbe aspettati di perdersi fra le pieghe di una narrazione così eclatante e ricca da stordire chi tenti di seguirla davvero, domandone il flusso anziché abbandonarvisi. Invece, con i primi episodi, comincia quel che si è definita una storia di «ma», di aspettative tradite.
For the people, nel quale compare il Regé-Jean Page che avrebbe fatto impazzire la platea di Bridgerton, è un legal drama come tanti, lontano dalla magnificenza assolutamente lunare di Scandal e How to geta way with murder. È «normale». E, benché la normalità non sia sempre sovrapponibile alla banalità, c’è una sensazione di straniamento nel guardare le due stagioni esistenti. Un perdersi per non ritrovarsi, non nel disegno della Shonda Rhimes che si credeva di conoscere. For the people, ambientata nel Tribunale del Distretto meridionale della Corte Federale di New York, dove promettenti e giovani avvocati devono dimostrare il proprio valore lavorando ai lati opposti della legge, pare quasi una creatura spuria. Un inganno. Ma è proprio qui, nel gioco delle apparenze, nella dialettica fra quel che si pensava di conoscere e quel che la realtà insegna, che sta l’attrattiva di For the people, il suo divertimento, certo, non paragonabile a quello delle serie targate Shondaland, ma perfetto per riempire i vuoti delle serate estive.
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Riduci
Da giovedì 14 luglio è in onda su TimVision la serie televisiva americana di genere giudiziario, ideata da Paul William Davies e prodotta da Shonda Rhimes. già artefice di grandi successi come Grey's Anatomy, Scandal e Le regole del delitto perfetto.For the people, disponibile su TimVision dalla metà di luglio, è una serie stracolma di «ma». Di apparenze smentite, di aspettative tradite e speranze neonate, di subordinate avversative. È il contrario di tutto quel che si sarebbe considerato lecito attendersi e, al contempo, è foriera di altro: qualcosa di nuovo, diverso – in un senso che non è, necessariamente, peggiorativo – da ciò che l’abitudine aveva indotto lo spettatore a credere. For the people è un micromondo alla rovescia, dove il responsabile del caos logico cui la visione può indurre è uno ed uno soltanto, Shonda Rhimes. Il nome, come la serie cui è legato, può dire tutto e niente. Ma, a chiunque abbia una minima dimestichezza con la serialità televisiva, finirà per suonare familiare. Shonda Rhimes, Shondaland, una sfilza di successi fra i più eclatanti di sempre. Shonda Rhimes, l’apparenza gentile da affabile signora di mezza età, è la maestra delle soap vestite a serie, la più brava a imbellettare prodotti più e meno insulsi per farne fenomeni globali. Grey’s Anatomy, stoicamente in onda dal lontano 2005, di questa perversa mistificazione è l’esempio più eclatante. Non ha nulla di originale, niente che davvero possa giustificare diciassette anni di fedele lealtà. Eppure, non solo regge. Prospera. Grey’s Anatomy, le sue protagoniste un po’ scialbe e gli amorazzi da romanzo harmony è, tuttora, parte dell’immaginario collettivo. E ci si scopre, noi pure che Grey’s Anatomy lo abbiamo ripudiato, a far riferimento al Dottor Stranamore, con quel po’ di stupore e vergogna che è solito accompagnare le epifanie improvvise. La mano, allora, si muove veloce, a coprire la bocca e il pensiero va alla serie, capostipite di una genia ben nutrita. Oltre Grey’s Anatomy, dove i confini dell’ospedale sfumano, c’è un mondo fatto di scandali e intrighi. C’è Scandal, How to get away with murder, c’è Bridgerton e, nel mezzo, un comune denominatore: le donne. Shonda Rhimes, sua Signora dell’artificio televisivo, ha fatto della serialità il viatico di un racconto preciso, femminile. Una storia di indipendenza e di emancipazione, dove la retorica – se presente – è coperta e schiacciata e annichilita dalla mole di avvenimenti esterni: morti, tragedie, complotti, Shonda Rhimes è maestra anche in questo. Approcciando per la prima volta For the people, perciò, ci si sarebbe aspettati di imbattersi in uno stesso schema. In eroine di ferro, più vicine magari alla compianta Annalise Keating che alla noiosa Meredith Grey. In intrallazzi alla Scandal, storie adultere fra avvocati rampanti, Olivia Pope, e il presidente degli Stati Uniti d’America. Ci si sarebbe aspettati di perdersi fra le pieghe di una narrazione così eclatante e ricca da stordire chi tenti di seguirla davvero, domandone il flusso anziché abbandonarvisi. Invece, con i primi episodi, comincia quel che si è definita una storia di «ma», di aspettative tradite. For the people, nel quale compare il Regé-Jean Page che avrebbe fatto impazzire la platea di Bridgerton, è un legal drama come tanti, lontano dalla magnificenza assolutamente lunare di Scandal e How to geta way with murder. È «normale». E, benché la normalità non sia sempre sovrapponibile alla banalità, c’è una sensazione di straniamento nel guardare le due stagioni esistenti. Un perdersi per non ritrovarsi, non nel disegno della Shonda Rhimes che si credeva di conoscere. For the people, ambientata nel Tribunale del Distretto meridionale della Corte Federale di New York, dove promettenti e giovani avvocati devono dimostrare il proprio valore lavorando ai lati opposti della legge, pare quasi una creatura spuria. Un inganno. Ma è proprio qui, nel gioco delle apparenze, nella dialettica fra quel che si pensava di conoscere e quel che la realtà insegna, che sta l’attrattiva di For the people, il suo divertimento, certo, non paragonabile a quello delle serie targate Shondaland, ma perfetto per riempire i vuoti delle serate estive.
Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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La reazione di tanti è però ambigua, come è nella natura degli italiani, scaltri e navigati, e di chi ha uso di mondo. Bello in via di principio ma in pratica come si fa? Tecnicamente si può davvero lasciare loro lo smartphone ma col «parental control» che inibisce alcuni social, o ci saranno sotterfugi, scappatoie, nasceranno simil-social selvatici e dunque ancora più pericolosi, e saremo punto e daccapo? Giusto il provvedimento, bravi gli australiani ma come li tieni poi i ragazzi e le loro reazioni? E se poi scappa il suicidio, l’atto disperato, o il parricidio, il matricidio, del ragazzo imbestialito e privato del suo super-Io in display; se i ragazzi che sono fragili vengono traumatizzati dal divieto, i governi, le autorità non cominceranno a fare retromarcia, a inventarsi improbabili soluzioni graduali, a cominciare coi primi distinguo che poi vanificano il provvedimento? E poi, botta finale: è facile concepire queste norme restrittive quando non si hanno ragazzini in casa, o pretendere di educare gli educatori quando si è ben lontani da quelle gabbie feroci che sono le aule scolastiche! Provate a mettervi nei nostri panni prima di fare i Catoni da remoto!
Avete ragione su tutto, ma alla fine se volete tentare di guidare un po’ il futuro, se volete aiutare davvero i ragazzi, se volete dare e non solo subire la direzione del mondo, dovete provare a non assecondarli, a non rifugiarvi dietro il comodo fatalismo dei processi irreversibili, e dunque il fatalismo dei sì, perché sono assai più facili dei no. Ma qualcosa bisogna fare per impedire l’istupidimento in tenera età e in via di formazione degli uomini di domani. Abbiamo una responsabilità civile e sociale, morale e culturale, abbiamo dei doveri, non possiamo rassegnarci al feticcio del fatto compiuto. Abbiamo criticato per anni il pigro conformismo delle società arcaiche che ripetevano i luoghi comuni e le pratiche di vita semplicemente perché «si è fatto sempre così». E ora dovremmo adottare il conformismo altrettanto pigro, e spesso nocivo, delle società moderne e postmoderne con la scusa che «lo fanno tutti oggi, e non si può tornare indietro». Di questa decisione australiana io condivido lo spirito e la legge; ho solo un’inevitabile allergia per i divieti, ma in questi casi va superata, e un’altrettanto comprensibile diffidenza sull’efficacia e la durata del provvedimento, perché anche in Australia, perfino in Australia, si troveranno alla fine i modi per aggirare il divieto o per sostituire gli accessi con altri. Figuratevi da noi, a Furbilandia. Ma sono due perplessità ineliminabili che non rendono vano il provvedimento che resta invece necessario; semmai andrebbe solo perfezionato.
Il problema è la dipendenza dai social, e la trasformazione degli accessi in eccessi: troppe ore sui social, e questo vale anche per gli adulti e per i vecchi, un po’ come già succedeva con la televisione sempre accesa ma con un grado virale di attenzione e di interattività che rende lo smartphone più nocivo del già noto istupidimento da overdose televisiva.
Si perde la realtà, la vita vera, le relazioni e le amicizie, le esperienze della vita, l’esercizio dell’intelligenza applicata ai fatti e ai rapporti umani, si sterilizzano i sentimenti, si favorisce l’allergia alle letture e alle altre forme socio-culturali. È un mondo piccolo, assai più piccolo di quello descritto così vivacemente da Giovannino Guareschi, che era però pieno di umanità, di natura, di forti passioni e di un rapporto duro e verace con la vita, senza mediazioni e fughe; ma anche con il Padreterno e con i misteri della fede. Quel mondo iscatolato in una teca di vetro di nove per sedici centimetri è davvero piccolo anche se ha l’apparenza di portarti in giro per il mondo, e in tutti i tempi. Sono ipnotizzati dallo Strumento, che diventa il tabernacolo e la fonte di ogni luce e di ogni sapere, di ogni relazione e di ogni rivelazione; bisogna spezzare l’incantesimo, bisogna riprendere a vivere e bisogna saper farne a meno, per alcune ore del giorno.
La stupida Europa che bandisce culti, culture e coltivazioni per imporre norme, algoritmi ed espianti, dovrebbe per una volta esercitarsi in una direttiva veramente educativa: impegnarsi a far passare la legge australiana anche da noi, magari più circostanziata e contestualizzata. L’Europa può farlo, perché non risponde a nessun demos sovrano, a nessuna elezione; i governi nazionali temono troppo l’impopolarità, le opposizioni e la ritorsione dei ragazzi e dei loro famigliari in loro soccorso o perché li preferiscono ipnotizzati sul video così non richiedono attenzioni e premure e non fanno danni. Invece bisogna pur giocare la partita con la tecnologia, favorendo ciò che giova e scoraggiando ciò che nuoce, con occhio limpido e mente lucida, senza terrore e senza euforia.
Mi auguro anzi che qualcuno in grado di mutare i destini dei popoli, possa concepire una visione strategica complessiva in cui saper dosare in via preliminare libertà e limiti, benefici e sacrifici, piaceri e doveri, che poi ciascuno strada facendo gestirà per conto suo. E se qualcuno dirà che questo è un compito da Stato etico, risponderemo che l’assenza di limiti e di interesse per il bene comune, rende gli Stati inutili o dannosi, perché al servizio dei guastatori e dei peggiori o vigliaccamente neutri rispetto a ciò che fa bene e ciò che fa male. È difficile trovare un punto di equilibrio tra diritti e doveri, tra libertà e responsabilità, ma se gli Stati si arrendono a priori, si rivelano solo inutili e ingombranti carcasse. Per evitare lo Stato etico fondano lo Stato ebete, facile preda dei peggiori.
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