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2021-01-13
Fondi neri e tangenti
. Indagati Google e manager di Leonardo
Getty images
Ai dieci funzionari soldi e buoni in cambio di commesse pilotate. Il gigante del Web avrebbe ostacolato le attività investigative
Mazzette digitali per i manager di Leonardo per un ammontare di circa 400.000 euro sarebbero transitate tutte su Google Payment, il portafoglio virtuale del colosso del web che rende le movimentazioni di denaro più difficili da tracciare. Ma oltre a questo ci sarebbero stati anche buoni carburante, buoni per comprare apparecchi digitali nei negozi Mediaworld o ancora penne Mont Blanc e regalie di ogni tipo. Alcuni manager avrebbero avuto anche uno stipendio vero e proprio. Di 1.500 euro al mese in alcuni casi, o una paga di 30.000 euro all'anno, e persino percentuali sulle provvigioni degli appalti assegnati all'azienda Trans Part srl di Milano, specializzata in componentistica nell'industria dell'aerospazio, civile e militare. Il problema è che questi regali come le transazioni, «frutto della corruzione», non sono passate inosservate.
E ora gli investigatori del nucleo di polizia economico finanziaria di Milano della guardia di finanza stanno cercando di riannodare i fili che portano appunto a Leonardo, l'azienda italiana attiva nei settori della difesa, dell'aerospazio e della sicurezza, il cui maggiore azionista è il ministero dell'Economia e delle finanze. Il gruppo ritorna sotto i riflettori della magistratura, dopo le inchieste che nel 2011 travolsero la vecchia dirigenza di Piefrancesco Guarguaglini, poi assolto nei processi. Quattro dirigenti di una società fornitrice, la Trans Part srl, con sede a Milano, e 750.000 euro di capitale sociale (parte di un di una holding specializzata nella distribuzione di componentistica e fornitrice del colosso italiano della difesa), secondo l'ipotesi investigativa, avrebbero corrisposto a dieci funzionari del gruppo ex Finmeccanica (che sono indagati) regalie e compensi per ottenere delle commesse, anche a fronte di contratti fittizi.
Tra gli indagati, oltre a un ex manager scomparso a novembre, compaiono Fernanda Tavecchia, nel consiglio di amministrazione di Trans Part e Emilio Tafuri, sia dipendente di Trans Part sia consulente di Ftb International Corp, quest'ultima con sede a New York, oltre che a Napoli, Torino, Milano e in Germania. Il gruppo si occupa appunto della componentistica per principali costruttori nell'industria aerospaziale, ma opera anche nel settore petrolchimico, marittimo e nell'industria medicale. Stando agli inquirenti, il disegno criminoso sarebbe stato questo: avrebbero pagato i funzionari del gruppo Leonardo per assicurarsi commesse dell'attività del gruppo Trans Part. Stando al decreto di perquisizione, Tavecchia e Tafuri avrebbero ottenuto informazioni privilegiate sui bandi e persino modifiche delle procedure di appalto, come proroghe o la disponibilità a concludere gli accordi. I manager avrebbero anche prorogato le scadenze per partecipare ai bandi, in modo tale che alla fine a spuntarla sarebbe stata sempre Trans Part Srl. Da fonti vicine all'azienda confermano che non ci sono manager indagati e che l'azienda, indicata come parte offesa nel procedimento, sta collaborando con la Procura. Nel decreto di perquisizione si spiega che i reati corruttivi andavano avanti almeno dal 2014 e che sarebbero continuati per tutto il 2019.Ieri pomeriggio i finanzieri si sono presentati nelle sedi di Roma e di Pomigliano d'Arco (Napoli), dove si sviluppano alte tecnologie per applicazioni aerospaziali, radar, ma si producono anche beni e servizi di carattere strategico per la sicurezza e la difesa del Paese.
Lì, neanche un mese fa, sono stati rubati circa 100.000 file, circa 10 gigabyte di dati, tramite un'operazione cybercriminale che, stando a quanto è stato ricostruito, andava avanti da diversi anni. E ieri, come un fulmine a ciel sereno, è caduta la seconda tegola. Il pubblico ministero della Procura di Milano Gaetano Ruta procede per reati fiscali, corruzione tra privati e riciclaggio. In totale nell'inchiesta sono 14 le persone fisiche indagate (tra le quali ci sono i dieci dipendenti di Leonardo), e tre quelle giuridiche. Due delle quali, indagate per la legge 231 sul riciclaggio, ci sono Google Ireland e Google Payment. Perché, ipotizza la Procura, avrebbero «impedito l'identificazione» di chi effettuava i bonifici, ostacolando l'inchiesta giudiziaria.Stando alla ricostruzione investigativa, i fondi neri venivano «distratti» dalle vere commesse pagate da Leonardo alla Trans Part e trasferiti nei paradisi fiscali, e quindi fatti sparire. Si tratterebbe di circa 6 milioni di euro in sei anni (dal 2012 al 2018).
Un mare di denaro finito, tramite una azienda con sede negli Stati Uniti facente parte della holding Trans Part, in società offshore con sede a Panama, Regno Unito e Irlanda. Il valore dei bonifici rientrati in Italia e presumibilmente usati per pagare le mazzette ammonta, invece, a circa 400.000 euro. Il valore complessivo del sistema corruttivo, sottolineano gli investigatori, è comunque ancora da accertare. Anche perché l'inchiesta non è ancora in una fase avanzata. I capitali, avrebbero accertato gli investigatori, sarebbero rientrati con l'appoggio di due riciclatori che usavano prettamente la piattaforma digitale di Google. L'anomalia riscontrata dai finanzieri è questa: nei conti italiani che poi ricevevano le operazioni il nome di chi disponeva il pagamento non veniva specificato, ma dichiarato come Google Payment. Per gli investigatori le due piattaforme digitali di Google avrebbero, con le loro condizioni, ostacolato l'identificazione di chi veramente effettuava i bonifici dall'estero usati poi per corrompere i dirigenti italiani.
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Ai dieci funzionari soldi e buoni in cambio di commesse pilotate. Il gigante del Web avrebbe ostacolato le attività investigativeMazzette digitali per i manager di Leonardo per un ammontare di circa 400.000 euro sarebbero transitate tutte su Google Payment, il portafoglio virtuale del colosso del web che rende le movimentazioni di denaro più difficili da tracciare. Ma oltre a questo ci sarebbero stati anche buoni carburante, buoni per comprare apparecchi digitali nei negozi Mediaworld o ancora penne Mont Blanc e regalie di ogni tipo. Alcuni manager avrebbero avuto anche uno stipendio vero e proprio. Di 1.500 euro al mese in alcuni casi, o una paga di 30.000 euro all'anno, e persino percentuali sulle provvigioni degli appalti assegnati all'azienda Trans Part srl di Milano, specializzata in componentistica nell'industria dell'aerospazio, civile e militare. Il problema è che questi regali come le transazioni, «frutto della corruzione», non sono passate inosservate. E ora gli investigatori del nucleo di polizia economico finanziaria di Milano della guardia di finanza stanno cercando di riannodare i fili che portano appunto a Leonardo, l'azienda italiana attiva nei settori della difesa, dell'aerospazio e della sicurezza, il cui maggiore azionista è il ministero dell'Economia e delle finanze. Il gruppo ritorna sotto i riflettori della magistratura, dopo le inchieste che nel 2011 travolsero la vecchia dirigenza di Piefrancesco Guarguaglini, poi assolto nei processi. Quattro dirigenti di una società fornitrice, la Trans Part srl, con sede a Milano, e 750.000 euro di capitale sociale (parte di un di una holding specializzata nella distribuzione di componentistica e fornitrice del colosso italiano della difesa), secondo l'ipotesi investigativa, avrebbero corrisposto a dieci funzionari del gruppo ex Finmeccanica (che sono indagati) regalie e compensi per ottenere delle commesse, anche a fronte di contratti fittizi. Tra gli indagati, oltre a un ex manager scomparso a novembre, compaiono Fernanda Tavecchia, nel consiglio di amministrazione di Trans Part e Emilio Tafuri, sia dipendente di Trans Part sia consulente di Ftb International Corp, quest'ultima con sede a New York, oltre che a Napoli, Torino, Milano e in Germania. Il gruppo si occupa appunto della componentistica per principali costruttori nell'industria aerospaziale, ma opera anche nel settore petrolchimico, marittimo e nell'industria medicale. Stando agli inquirenti, il disegno criminoso sarebbe stato questo: avrebbero pagato i funzionari del gruppo Leonardo per assicurarsi commesse dell'attività del gruppo Trans Part. Stando al decreto di perquisizione, Tavecchia e Tafuri avrebbero ottenuto informazioni privilegiate sui bandi e persino modifiche delle procedure di appalto, come proroghe o la disponibilità a concludere gli accordi. I manager avrebbero anche prorogato le scadenze per partecipare ai bandi, in modo tale che alla fine a spuntarla sarebbe stata sempre Trans Part Srl. Da fonti vicine all'azienda confermano che non ci sono manager indagati e che l'azienda, indicata come parte offesa nel procedimento, sta collaborando con la Procura. Nel decreto di perquisizione si spiega che i reati corruttivi andavano avanti almeno dal 2014 e che sarebbero continuati per tutto il 2019.Ieri pomeriggio i finanzieri si sono presentati nelle sedi di Roma e di Pomigliano d'Arco (Napoli), dove si sviluppano alte tecnologie per applicazioni aerospaziali, radar, ma si producono anche beni e servizi di carattere strategico per la sicurezza e la difesa del Paese. Lì, neanche un mese fa, sono stati rubati circa 100.000 file, circa 10 gigabyte di dati, tramite un'operazione cybercriminale che, stando a quanto è stato ricostruito, andava avanti da diversi anni. E ieri, come un fulmine a ciel sereno, è caduta la seconda tegola. Il pubblico ministero della Procura di Milano Gaetano Ruta procede per reati fiscali, corruzione tra privati e riciclaggio. In totale nell'inchiesta sono 14 le persone fisiche indagate (tra le quali ci sono i dieci dipendenti di Leonardo), e tre quelle giuridiche. Due delle quali, indagate per la legge 231 sul riciclaggio, ci sono Google Ireland e Google Payment. Perché, ipotizza la Procura, avrebbero «impedito l'identificazione» di chi effettuava i bonifici, ostacolando l'inchiesta giudiziaria.Stando alla ricostruzione investigativa, i fondi neri venivano «distratti» dalle vere commesse pagate da Leonardo alla Trans Part e trasferiti nei paradisi fiscali, e quindi fatti sparire. Si tratterebbe di circa 6 milioni di euro in sei anni (dal 2012 al 2018). Un mare di denaro finito, tramite una azienda con sede negli Stati Uniti facente parte della holding Trans Part, in società offshore con sede a Panama, Regno Unito e Irlanda. Il valore dei bonifici rientrati in Italia e presumibilmente usati per pagare le mazzette ammonta, invece, a circa 400.000 euro. Il valore complessivo del sistema corruttivo, sottolineano gli investigatori, è comunque ancora da accertare. Anche perché l'inchiesta non è ancora in una fase avanzata. I capitali, avrebbero accertato gli investigatori, sarebbero rientrati con l'appoggio di due riciclatori che usavano prettamente la piattaforma digitale di Google. L'anomalia riscontrata dai finanzieri è questa: nei conti italiani che poi ricevevano le operazioni il nome di chi disponeva il pagamento non veniva specificato, ma dichiarato come Google Payment. Per gli investigatori le due piattaforme digitali di Google avrebbero, con le loro condizioni, ostacolato l'identificazione di chi veramente effettuava i bonifici dall'estero usati poi per corrompere i dirigenti italiani.
Trump blocca il petrolio del Venezuela. Domanda elettrica, una questione di sicurezza nazionale. Le strategie della Cina per l’Artico. Auto 2035, l’Ue annacqua ma ormai il danno è fatto.
Dinanzi a tale insipienza strategica, i popoli non rimangono impassibili. Già alla vigilia del vertice dei 27, Politico aveva pubblicato i risultati di un sondaggio, secondo il quale sia in Francia sia in Germania sono aumentati quelli che vorrebbero «ridurre significativamente» il sostegno monetario all’Ucraina. I tedeschi che chiedono tagli drastici sono il 32%, percentuale cui va sommato il 14% di quanti si accontenterebbero di una qualsiasi stretta. Totale: 46%. I transalpini stufi di sborsare, invece, sono il 37% del totale. Per la Bild, l’opinione pubblica di Berlino è ancora più netta sull’opportunità di continuare a inviare armi al fronte: il 58% risponde di no. Infine, una rilevazione di Rtl e Ntv ha appurato che il 75% dei cittadini boccia l’operato del cancelliere Friedrich Merz, principale fautore della poi scongiurata «rapina» dei fondi di Mosca. Non è un caso che, stando almeno alle ricostruzioni del Consiglio Ue proposte da Repubblica, Emmanuel Macron e Giorgia Meloni abbiano motivato le proprie riserve sul piano con la difficoltà di far digerire ai Parlamenti nazionali, quindi agli elettori, una mozza così azzardata. Lo scollamento permanente dalla realtà che caratterizza l’operato della Commissione, a quanto pare, risponde alla filosofia esposta da Sergio Mattarella a proposito del riarmo a tappe forzate: è impopolare, ma è necessario.
La disputa sulle sovvenzioni a Zelensky - e speriamo siano a Zelensky, ovvero al bilancio del Paese aggredito, anziché ai cessi d’oro dei suoi oligarchi corrotti - ha comunque generato pure un’altra forma di divaricazione: quella tra i fatti e le rappresentazioni mediatiche.
I fatti sono questi: Ursula von der Leyen, spalleggiata da Merz, ha subìto l’ennesimo smacco; l’Unione ha ripiegato all’unanimità sugli eurobond, sebbene Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca siano state esentate dagli obblighi contributivi, perché abbandonare i lavori senza alcun accordo, oppure con un accordo a maggioranza qualificata, sarebbe stato drammatico; alla fine, l’Europa si è condannata all’ennesimo salasso. E la rappresentazione?
La Stampa ieri è partita per Plutone: titolava sulla «svolta» del debito comune, descritta addirittura come un «compromesso storico». Il corrispondente da Bruxelles, Marco Bresolin, in verità ha usato toni più sobri, sottolineando la «grande delusione» di chi avrebbe voluto «punire la Russia» e riconoscendo il successo del premier belga, Bart De Wever, ostile all’impiego degli asset; mentre l’inviato, Francesco Malfetano, dava atto alla Meloni di aver pianificato «la sua mossa più efficace». Sul Corriere, il fiasco di Merz si è trasformato in una «vittoria a metà». Repubblica ha borbottato per la «trappola» tesa dal cancelliere e a Ursula. Ma Andrea Bonanni, in un editoriale, ha lodato l’esito «non scontato» del Consiglio. L’Europa, ha scritto, «era chiamata a sostituirsi a Washington per consentire a Kiev di continuare la resistenza contro l’attacco russo. Lo ha fatto. Doveva trovare i soldi. Li ha trovati ricorrendo ancora una volta a un prestito comune, come fece al tempo dell’emergenza Covid». Un trionfo. Le memorie del regimetto pandemico avranno giocato un ruolo, nel convincere le firme di largo Fochetti che, «stavolta», l’Ue abbia «battuto un colpo».
Un colpo dev’essere venuto ai leader continentali. Costoro, compiuto il giro di boa, forse si convinceranno a smetterla di sabotare le trattative. Prova ne sia la sveglia di Macron, che ha avvisato gli omologhi: se fallisce la mediazione Usa, tocca agli europei aprire un canale con Vladimir Putin. Tutto sommato, avere gli asset in ostaggio può servire a scongiurare l’incubo dell’Ue: sparire di scena.
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Volodymyr Zelensky (Ansa)
La soluzione del prestito dunque salva capra e cavoli, ovvero gli interessi di chi ritiene giusto dover alimentare con aiuti e armi la resistenza di Kiev e anche quelli di quanti temevano la reazione russa all’uso dei fondi. Una mediazione soddisfacente per tutti, dunque? Non esattamente, visto che la soluzione escogitata non è affatto gratis. Già: mentre i vertici della Ue si fanno i complimenti per aver raggiunto un’intesa, a non congratularsi dovrebbero essere i cittadini europei, perché l’accordo raggiunto non è gratis, ma graverà ancora una volta sulle tasche dei contribuenti. Lasciate perdere per un momento come e quando l’Ucraina sarà in grado di restituire il prestito che le verrà concesso. Se Kiev fosse un comune cittadino nessuna banca la finanzierebbe, perché agli occhi di qualsiasi istituto di credito non offrirebbe alcuna garanzia di restituzione del mutuo concesso. Per molti anni gli ucraini non saranno in grado di restituire ciò che ricevono. Dunque, i soldi che la Ue si prepara a erogare rischiano di essere a fondo perduto, cioè di non ritornare mai nelle tasche dei legittimi proprietari, cioè noi, perché il prestito non è garantito da Volodymyr Zelensky, in quanto il presidente ucraino non ha nulla da offrire in garanzia, ma dall’Europa, vale a dire da chi nel Vecchio continente paga le tasse.
Lasciate perdere che, con la corruzione che regna nel Paese, parte dei soldi che diamo a Kiev rischia di sparire nelle tasche di una serie di politici e burocrati avidi prima ancora di arrivare a destinazione. E cancelliamo pure dalla memoria le immagini dei cessi d’oro fatti installare dai collaboratori mano lesta del presidente ucraino: rubinetti, bidet, vasca e tutto il resto lo abbiamo pagato noi, con i nostri soldi. Il grande reset della realtà, per come si è fin qui palesata, tuttavia non può cancellare quello che ci aspetta.
Il prestito della Ue, come ogni finanziamento, non è gratis: quando voi fate il mutuo per la casa, oltre a rimborsare mese dopo mese parte del capitale, pagate gli interessi. Ma in questo caso il tasso non sarà a carico di chi riceve i soldi, come sempre capita, ma - udite, udite - di chi li garantisce, ovvero noi. Politico, sito indipendente, ha calcolato che ogni anno la Ue sarà costretta a sborsare circa 3 miliardi di interessi, non proprio noccioline. Chi pagherà? È ovvio: non sarà lo Spirito Santo, ma ancora noi. Dividendo la cifra per il numero di abitanti all’interno della Ue si capisce che ogni cittadino dovrà mettere mano al portafogli per 220 euro, neonati e minorenni inclusi. Se poi l’aliquota la si vuol applicare sopra una certa soglia di età, si arriva a 300.
Ecco, la pace sia con voi la pagheremo cara e probabilmente pagheremo cari anche i 90 miliardi concessi all’Ucraina, perché quasi certamente Kiev non li restituirà mai e toccherà a noi, intesi come Ue, farcene carico. Piccola noticina: com’è che, quando servivano soldi per rilanciare l’economia e i salari, Bruxelles era contraria e adesso, se c’è da far debito per sostenere l’Ucraina, invece è favorevole? Il mistero delle scelte Ue continua. Ma soprattutto, si capisce che alla base di ogni decisione, a differenza di ciò che ci hanno raccontato per anni, non ci sono motivazioni economiche, ma solo politiche.
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Kirill Budanov (Ansa)
Sicuramente nei potenziali colloqui è prevista la partecipazione americana, ma potrebbero aggiungersi anche gli europei, visto che si trovano sul suolo americano. Il presidente ucraino, nell’annunciare questa opportunità, ha dichiarato che Washington «ha proposto il seguente formato: Ucraina, America, Russia e, dato che ci sono rappresentanti dell’Europa, probabilmente anche l’Europa». E in tal caso a prendere parte sarebbero i consiglieri per la sicurezza nazionale. Pare però che la decisione finale spetti a Zelensky: sarà l’Ucraina a stabilire la configurazione della riunione in base all’esito dell’incontro di venerdì tra i negoziatori americani, la delegazione ucraina e quella europea. E per questo il presidente ucraino, che si mostra già scettico, ha comunicato che ne parlerà con Rustem Umerov. D’altronde, Zelensky ha spiegato che deve ancora essere aggiornato sui risultati raggiunti a Miami: «Il nostro team si metterà in contatto con me: mi comunicheranno l’esito del primo blocco di dialogo e poi capiremo cosa fare». Poco dopo ha riferito che la proposta americana potrebbe essere accettata qualora faciliti lo scambio di prigionieri e sia il preludio di un incontro «tra i leader». Ha poi avvertito che Washington deve chiarire «se c’è una via diplomatica», altrimenti, in caso contrario «ci sarà una pressione totale» su Mosca.
Ma prima dell’eventuale trilaterale o quadrilaterale, ieri l’inviato americano, Steve Witkoff, il genero di Donald Trump, Jared Kushner, e il segretario di Stato americano, Marco Rubio, la cui presenza però, quando siamo andati in stampa, non era ancora confermata, si sono incontrati a Miami con la delegazione russa guidata da Kirill Dmitriev. L’inviato del presidente russo, Vladimir Putin, prima dei colloqui, ha condiviso su X un video girato durante la precedente missione in Florida, scrivendo: «In viaggio per Miami. Mentre i guerrafondai continuano a fare gli straordinari per indebolire il piano di pace degli Stati Uniti per l’Ucraina, mi sono ricordato di questo video della mia precedente visita. La luce che irrompe attraverso le nuvole temporalesche». Più tardi, mentre era in viaggio verso la Florida, ha aggiunto che la Russia è «pronta a collaborare con gli Stati Uniti nell’Artico».
Ma oltre agli interessi già noti in quell’area, Mosca avrebbe altri obiettivi. In una versione che stride con la visione della Casa Bianca, sei fonti vicine all’intelligence americana hanno infatti rivelato a Reuters che la Russia mira a conquistare tutta l’Ucraina e i Paesi dell’ex Unione sovietica. Il membro democratico della Commissione intelligence della Camera, Mike Quigley, interpellato dall’agenzia britannica, ha dichiarato: «Le informazioni di intelligence hanno sempre indicato che Putin vuole di più. Gli europei ne sono convinti. I polacchi ne sono assolutamente convinti. I baltici pensano di essere i primi». Che tra i target russi ci siano gli Stati baltici ne è certo anche il capo del servizio segreto militare ucraino, Kirill Budanov. In un’intervista rilasciata a LB.ua. ha annunciato che «il piano originale» di Mosca prevedeva «di iniziare le operazioni» di conquista «nel 2030», ma «ora i piani sono stati modificati e rivisti per anticipare la tempistica al 2027».
Guardando invece al presente, l’apertura dello zar russo a un cessate il fuoco in Ucraina qualora si tenessero le elezioni non è stata apprezzata dal leader di Kiev. Zelensky ha detto che «non spetta a Putin decidere quando e in quale forma si terranno le elezioni in Ucraina». Tuttavia, ha già comunicato che il ministero degli Esteri è al lavoro per organizzare il voto all’estero. Immediata è stata la risposta del Cremlino, con il suo portavoce Dmitry Peskov che ha bollato Zelensky come «confuso» e «contradditorio» dato che ha già chiesto il sostegno americano proprio per garantire che le eventuali elezioni si svolgano in sicurezza.
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