2023-07-19
Il film «trumpiano» batte «Indiana Jones»
Malgrado il boicottaggio di Hollywood e una furiosa campagna denigratoria sulla stampa, «Sound of freedom» incassa più del sequel con Harrison Ford. La pellicola, interpretata dal cattolico Jim Caviezel, è una denuncia contro il traffico di minori.Carriera alias a scuola, il portavoce di Pro Vita Jacopo Coghe: «Siamo stupiti da questa norma, ne chiediamo subito il ritiro».Lo speciale contiene due articoli.Mentre Hollywood è ancora alle prese con il clamoroso sciopero degli attori e la Disney ha licenziato una nuova versione di Biancaneve e i sette nani in cui Biancaneve non è più bianca e i nani non sono più nani, lo scettro di re dell’estate al botteghino lo ha conquistato Sound of freedom. E cioè proprio il film che Hollywood ha rifiutato di produrre e che la stampa progressista sta ricoprendo di tonnellate di fango ed ettolitri di bile.In effetti, la pellicola diretta dal regista messicano Alejandro Monteverde è stata realizzata con soli 14 milioni di dollari: noccioline, se paragonate ai fondi stanziati per le produzioni hollywoodiane di punta, che superano tranquillamente gli otto zeri. E nonostante tutto, Sound of freedom, lanciato non a caso il 4 luglio, festa dell’indipendenza americana, ha superato ogni più rosea aspettativa, quintuplicando (per ora) i costi di produzione e sbaragliando ogni concorrenza: il primo giorno di proiezione, il film ha incassato ben 14 milioni di dollari, mentre il più quotato (e costoso) Indiana Jones non si era spinto oltre gli 11. Con una differenza non da poco: Sound of freedom, anche a causa dei boicottaggi woke, era presente in sole 2.600 sale, mentre il colossal disneyano con Harrison Ford è stato visto in 4.600 cinema, quasi il doppio.Ma di che cosa parla questa pellicola della discordia? La trama, basata su una storia vera, ripercorre la storia di Tim Ballard, un ex agente governativo che ha dedicato la sua vita alla lotta contro il traffico di bambini. La sua organizzazione, l’Operation underground railroad (Our), fondata nel 2013, ha portato finora all’arresto di 6.500 criminali coinvolti nella tratta e nello sfruttamento di minori. Riassunto così, sembra il copione perfetto per le compagnie cinematografiche di Hollywood, che sui buoni sentimenti e le storie strappalacrime hanno edificato un impero. Eppure, benché le riprese siano terminate nel 2018, cioè ben cinque anni fa, la Disney, che aveva acquistato il materiale dalla 20th Century Fox, ha deciso misteriosamente di non procedere alla distribuzione del film. «In questi anni molte porte ci sono state chiuse in faccia», ha raccontato il produttore Eduardo Verástegui. «Disney, Netflix, Amazon e altre case di distribuzione», ha aggiunto, «hanno detto «no, questo film non fa per noi, non è un buon affare, nessuno vedrà un film sul traffico di bambini».A giudicare dal recente successo al botteghino, non è stata una scelta lungimirante. E a raccogliere gli allori sono stati gli Angel Studios, una piccola casa produttrice dello Utah che si occupa principalmente di streaming e video on demand. Qui, però, non si tratta affatto di una banale cantonata o di un investimento sbagliato da parte delle major hollywoodiane. È una questione puramente ideologica. Il film, infatti, è stato accusato dalla stampa progressista di strizzare l’occhio a QAnon, ossia quella nebulosa internettiana vicina alla destra alternativa americana che sostiene varie teorie del complotto. Tra cui, ad esempio, anche il cosiddetto «Pizzagate», ossia l’ipotesi che funzionari americani e dirigenti del Partito democratico siano coinvolti in crimini di pedofilia e traffico di minori. Scorrendo i titoli delle testate liberal, sembra non ci siano dubbi: Sound of freedom sarebbe, a seconda dei gusti, un «film di successo al botteghino la cui star abbraccia le teorie di QAnon» (Washington Post), un «thriller vicino a QAnon» (Guardian) o un «fantasy anti tratta dei bambini adatto a QAnon» (Jezebel).Al di là di queste accuse, più suggestive che argomentate, non è difficile capire perché il film non piace affatto ai «fiocchi di neve» del wokismo militante. Tanto per cominciare, il produttore, il messicano Eduardo Verástegui, da anni sostiene in America Latina i movimenti pro vita: alla fine del 2019, ha girato il Messico in lungo e in largo per promuovere la versione spagnola di Unplanned, film di grande successo (malgrado i boicottaggi liberal) basato sul libro di memorie dell’attivista anti abortista Abby Johnson. Senza contare che il protagonista di Sound of freedom è impersonato da Jim Caviezel. Attore fieramente cattolico e attivista pro life, è famoso soprattutto per aver recitato la parte di Gesù ne La passione di Cristo di Mel Gibson: i due, anzi, a breve licenzieranno La resurrezione, il secondo capitolo della saga. Tra l’altro, anche se non ha partecipato direttamente ai lavori, il noto regista australiano ha benedetto senza remore la pellicola: «Uno dei problemi più gravi nel mondo di oggi è il traffico di esseri umani e, nello specifico, il traffico di bambini. Ora, il primo passo per sradicare questo crimine è prenderne coscienza. Andate a vedere Sound of freedom», è stato il messaggio di Mel Gibson. Da parte sua, Tim Ballard ha rispedito ai vari mittenti tutte le accuse di cospirazionismo. Anche perché, fa notare, «gli Stati Uniti sono il consumatore numero uno al mondo di video di stupri infantili. E ora siamo tra i primi due anche nella produzione». Un problema effettivamente ben più grave dei deliri del wokismo militante, che sulla pedofilia, peraltro, hanno fatto più volte aperture timide ma sconcertanti. Intanto però, a giudicare dai risultati al botteghino, oggi il «suono della libertà» si ode un po’ più forte. Era ora.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/film-trumpiano-batte-indiana-jones-2662299104.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="scuola-un-rischio-la-carriera-alias-dopo-i-docenti-tocca-agli-studenti" data-post-id="2662299104" data-published-at="1689729656" data-use-pagination="False"> «Scuola, un rischio la carriera alias. Dopo i docenti, tocca agli studenti?» Nel nuovo contratto collettivo nazionale di lavoro del comparto istruzione, università e ricerca, come raccontava ieri La Verità, è spuntata una disposizione che, all’articolo 21, prevede l’identità alias e i bagni neutri per i docenti transgender, e che ha sollevato alcune perplessità nel mondo pro family. Tra chi non ha accolto con favore questa previsione contrattuale, c’è Jacopo Coghe, portavoce di Pro Vita & Famiglia Onlus. La Verità l’ha contattato per capire meglio le sue ragioni. Coghe, è una novità che non vi aspettavate? «No, non ce l’aspettavamo e siamo abbastanza stupiti che sia stato inserito questo regolamento all’interno del contratto collettivo nazionale dei lavoratori, perché fondamentalmente è tutto quello contro cui ci siamo battuti nella scorsa legislatura e il motivo per cui è stato affossato il ddl Zan, ossia la questione sull’identità di genere. Anche perché all’interno del contratto si parla di questa possibilità di attivare una carriera alias nel mondo in cui si intraprende un percorso di transizione e di rettificazione del sesso. Ma se c’è una legge che permette la rettifica del sesso, sarebbe normale che questo avvenisse al termine del percorso e non invece a percorso avviato; anche perché andrà capito chi certificherà l’avvio di questo percorso?». La novità introdotta prevede la richiesta tramite la «sottoscrizione di un accordo di riservatezza confidenziale». «Sì, ma in base a che cosa la scuola o l’ente che deve dare l’accesso alla carriera alias lo farà? Un certificato medico, un atto del giudice che dica che sia stato intrapreso un percorso di rettificazione del sesso?». Vi preoccupa la possibilità che questa novità possa essere un primo passo per la carriera alias per gli studenti? «Assolutamente, perché qualcuno potrebbe dire: perché ai professori sì e agli studenti no? Il prossimo passo rischia ebbe così di essere per gli studenti maggiorenni e quello successivo anche per gli altri. Sottolineo che qui c’è anche di mezzo il concetto di salute e di benessere dei nostri ragazzi nelle scuole, perché il contratto dei docenti: quindi anche quello delle scuole delle medie e dell’infanzia. Chiediamo quindi una revisione e abrogazione della norma in questione, anche se abbiamo scoperto che in realtà essa è stata già introdotta contrattualmente anche in altri contratti nazionali, come quello della sanità». Come Pro Vita & Famiglia, alcuni mesi fa, avete lanciato un’operazione legale con 150 diffide inviate alle scuole che hanno adottato la Carriera Alias, per chiederne l’annullamento. Avete per caso avuto dei riscontri? «Sì, abbiamo avuto dei riscontri. Alcune scuole che hanno ricevuto le nostre diffide hanno infatti deciso di annullare la carriera alias - poche, ma alcune scuole l’hanno fatto -, anche se altre hanno deciso comunque di andare avanti. Stiamo comunque continuando a fare diffide a tutte le scuole di cui abbiamo notizia e che stanno adottando il regolamento alias». Lo scorso gennaio il New York Times ha pubblicato un articolo dal titolo «Quando gli studenti cambiano identità di genere e i genitori non lo sanno», raccontando le insidie della carriera alias. Forse anche nel mondo progressista ci potrebbe essere un ripensamento al riguardo? «Secondo me sì. Si arriverà ad un ripensamento di tutto questo, basti pensare a quello che è successo in Inghilterra con la chiusura del Tavistock Center, del suo centro per la disforia di genere. Ci sono i Paesi più progressisti anche d’Europa che, di fatto, si stanno rendendo conto del pericolo di tutta questa ideologia per i più giovani e in alcuni casi, non a caso, stanno facendo passi indietro. Per questo trovo sarebbe importante che anche l’Italia, da questo punto di vista, prendesse esempio da chi già ci è passato ed ora, appunto, sta compiendo dei passi indietro».
Francesca Albanese (Ansa)
Andrea Sempio. Nel riquadro, l'avvocato Massimo Lovati (Ansa)
Ecco #DimmiLaVerità del 15 ottobre 2025. Ospite Daniele Ruvinetti. L'argomento di oggi è: "Tutti i dettagli inediti dell'accordo di pace a Gaza".