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2023-07-19
Il film «trumpiano» batte «Indiana Jones»
«Sound of freedom»
Mentre Hollywood è ancora alle prese con il clamoroso sciopero degli attori e la Disney ha licenziato una nuova versione di Biancaneve e i sette nani in cui Biancaneve non è più bianca e i nani non sono più nani, lo scettro di re dell’estate al botteghino lo ha conquistato Sound of freedom. E cioè proprio il film che Hollywood ha rifiutato di produrre e che la stampa progressista sta ricoprendo di tonnellate di fango ed ettolitri di bile.
In effetti, la pellicola diretta dal regista messicano Alejandro Monteverde è stata realizzata con soli 14 milioni di dollari: noccioline, se paragonate ai fondi stanziati per le produzioni hollywoodiane di punta, che superano tranquillamente gli otto zeri. E nonostante tutto, Sound of freedom, lanciato non a caso il 4 luglio, festa dell’indipendenza americana, ha superato ogni più rosea aspettativa, quintuplicando (per ora) i costi di produzione e sbaragliando ogni concorrenza: il primo giorno di proiezione, il film ha incassato ben 14 milioni di dollari, mentre il più quotato (e costoso) Indiana Jones non si era spinto oltre gli 11. Con una differenza non da poco: Sound of freedom, anche a causa dei boicottaggi woke, era presente in sole 2.600 sale, mentre il colossal disneyano con Harrison Ford è stato visto in 4.600 cinema, quasi il doppio.
Ma di che cosa parla questa pellicola della discordia? La trama, basata su una storia vera, ripercorre la storia di Tim Ballard, un ex agente governativo che ha dedicato la sua vita alla lotta contro il traffico di bambini. La sua organizzazione, l’Operation underground railroad (Our), fondata nel 2013, ha portato finora all’arresto di 6.500 criminali coinvolti nella tratta e nello sfruttamento di minori. Riassunto così, sembra il copione perfetto per le compagnie cinematografiche di Hollywood, che sui buoni sentimenti e le storie strappalacrime hanno edificato un impero. Eppure, benché le riprese siano terminate nel 2018, cioè ben cinque anni fa, la Disney, che aveva acquistato il materiale dalla 20th Century Fox, ha deciso misteriosamente di non procedere alla distribuzione del film. «In questi anni molte porte ci sono state chiuse in faccia», ha raccontato il produttore Eduardo Verástegui. «Disney, Netflix, Amazon e altre case di distribuzione», ha aggiunto, «hanno detto «no, questo film non fa per noi, non è un buon affare, nessuno vedrà un film sul traffico di bambini».
A giudicare dal recente successo al botteghino, non è stata una scelta lungimirante. E a raccogliere gli allori sono stati gli Angel Studios, una piccola casa produttrice dello Utah che si occupa principalmente di streaming e video on demand.
Qui, però, non si tratta affatto di una banale cantonata o di un investimento sbagliato da parte delle major hollywoodiane. È una questione puramente ideologica. Il film, infatti, è stato accusato dalla stampa progressista di strizzare l’occhio a QAnon, ossia quella nebulosa internettiana vicina alla destra alternativa americana che sostiene varie teorie del complotto. Tra cui, ad esempio, anche il cosiddetto «Pizzagate», ossia l’ipotesi che funzionari americani e dirigenti del Partito democratico siano coinvolti in crimini di pedofilia e traffico di minori. Scorrendo i titoli delle testate liberal, sembra non ci siano dubbi: Sound of freedom sarebbe, a seconda dei gusti, un «film di successo al botteghino la cui star abbraccia le teorie di QAnon» (Washington Post), un «thriller vicino a QAnon» (Guardian) o un «fantasy anti tratta dei bambini adatto a QAnon» (Jezebel).
Al di là di queste accuse, più suggestive che argomentate, non è difficile capire perché il film non piace affatto ai «fiocchi di neve» del wokismo militante. Tanto per cominciare, il produttore, il messicano Eduardo Verástegui, da anni sostiene in America Latina i movimenti pro vita: alla fine del 2019, ha girato il Messico in lungo e in largo per promuovere la versione spagnola di Unplanned, film di grande successo (malgrado i boicottaggi liberal) basato sul libro di memorie dell’attivista anti abortista Abby Johnson. Senza contare che il protagonista di Sound of freedom è impersonato da Jim Caviezel. Attore fieramente cattolico e attivista pro life, è famoso soprattutto per aver recitato la parte di Gesù ne La passione di Cristo di Mel Gibson: i due, anzi, a breve licenzieranno La resurrezione, il secondo capitolo della saga. Tra l’altro, anche se non ha partecipato direttamente ai lavori, il noto regista australiano ha benedetto senza remore la pellicola: «Uno dei problemi più gravi nel mondo di oggi è il traffico di esseri umani e, nello specifico, il traffico di bambini. Ora, il primo passo per sradicare questo crimine è prenderne coscienza. Andate a vedere Sound of freedom», è stato il messaggio di Mel Gibson.
Da parte sua, Tim Ballard ha rispedito ai vari mittenti tutte le accuse di cospirazionismo. Anche perché, fa notare, «gli Stati Uniti sono il consumatore numero uno al mondo di video di stupri infantili. E ora siamo tra i primi due anche nella produzione». Un problema effettivamente ben più grave dei deliri del wokismo militante, che sulla pedofilia, peraltro, hanno fatto più volte aperture timide ma sconcertanti. Intanto però, a giudicare dai risultati al botteghino, oggi il «suono della libertà» si ode un po’ più forte. Era ora.
«Scuola, un rischio la carriera alias. Dopo i docenti, tocca agli studenti?»
Nel nuovo contratto collettivo nazionale di lavoro del comparto istruzione, università e ricerca, come raccontava ieri La Verità, è spuntata una disposizione che, all’articolo 21, prevede l’identità alias e i bagni neutri per i docenti transgender, e che ha sollevato alcune perplessità nel mondo pro family. Tra chi non ha accolto con favore questa previsione contrattuale, c’è Jacopo Coghe, portavoce di Pro Vita & Famiglia Onlus. La Verità l’ha contattato per capire meglio le sue ragioni.
Coghe, è una novità che non vi aspettavate?
«No, non ce l’aspettavamo e siamo abbastanza stupiti che sia stato inserito questo regolamento all’interno del contratto collettivo nazionale dei lavoratori, perché fondamentalmente è tutto quello contro cui ci siamo battuti nella scorsa legislatura e il motivo per cui è stato affossato il ddl Zan, ossia la questione sull’identità di genere. Anche perché all’interno del contratto si parla di questa possibilità di attivare una carriera alias nel mondo in cui si intraprende un percorso di transizione e di rettificazione del sesso. Ma se c’è una legge che permette la rettifica del sesso, sarebbe normale che questo avvenisse al termine del percorso e non invece a percorso avviato; anche perché andrà capito chi certificherà l’avvio di questo percorso?».
La novità introdotta prevede la richiesta tramite la «sottoscrizione di un accordo di riservatezza confidenziale».
«Sì, ma in base a che cosa la scuola o l’ente che deve dare l’accesso alla carriera alias lo farà? Un certificato medico, un atto del giudice che dica che sia stato intrapreso un percorso di rettificazione del sesso?».
Vi preoccupa la possibilità che questa novità possa essere un primo passo per la carriera alias per gli studenti?
«Assolutamente, perché qualcuno potrebbe dire: perché ai professori sì e agli studenti no? Il prossimo passo rischia ebbe così di essere per gli studenti maggiorenni e quello successivo anche per gli altri. Sottolineo che qui c’è anche di mezzo il concetto di salute e di benessere dei nostri ragazzi nelle scuole, perché il contratto dei docenti: quindi anche quello delle scuole delle medie e dell’infanzia. Chiediamo quindi una revisione e abrogazione della norma in questione, anche se abbiamo scoperto che in realtà essa è stata già introdotta contrattualmente anche in altri contratti nazionali, come quello della sanità».
Come Pro Vita & Famiglia, alcuni mesi fa, avete lanciato un’operazione legale con 150 diffide inviate alle scuole che hanno adottato la Carriera Alias, per chiederne l’annullamento. Avete per caso avuto dei riscontri?
«Sì, abbiamo avuto dei riscontri. Alcune scuole che hanno ricevuto le nostre diffide hanno infatti deciso di annullare la carriera alias - poche, ma alcune scuole l’hanno fatto -, anche se altre hanno deciso comunque di andare avanti. Stiamo comunque continuando a fare diffide a tutte le scuole di cui abbiamo notizia e che stanno adottando il regolamento alias».
Lo scorso gennaio il New York Times ha pubblicato un articolo dal titolo «Quando gli studenti cambiano identità di genere e i genitori non lo sanno», raccontando le insidie della carriera alias. Forse anche nel mondo progressista ci potrebbe essere un ripensamento al riguardo?
«Secondo me sì. Si arriverà ad un ripensamento di tutto questo, basti pensare a quello che è successo in Inghilterra con la chiusura del Tavistock Center, del suo centro per la disforia di genere. Ci sono i Paesi più progressisti anche d’Europa che, di fatto, si stanno rendendo conto del pericolo di tutta questa ideologia per i più giovani e in alcuni casi, non a caso, stanno facendo passi indietro. Per questo trovo sarebbe importante che anche l’Italia, da questo punto di vista, prendesse esempio da chi già ci è passato ed ora, appunto, sta compiendo dei passi indietro».
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Malgrado il boicottaggio di Hollywood e una furiosa campagna denigratoria sulla stampa, «Sound of freedom» incassa più del sequel con Harrison Ford. La pellicola, interpretata dal cattolico Jim Caviezel, è una denuncia contro il traffico di minori.Carriera alias a scuola, il portavoce di Pro Vita Jacopo Coghe: «Siamo stupiti da questa norma, ne chiediamo subito il ritiro».Lo speciale contiene due articoli.Mentre Hollywood è ancora alle prese con il clamoroso sciopero degli attori e la Disney ha licenziato una nuova versione di Biancaneve e i sette nani in cui Biancaneve non è più bianca e i nani non sono più nani, lo scettro di re dell’estate al botteghino lo ha conquistato Sound of freedom. E cioè proprio il film che Hollywood ha rifiutato di produrre e che la stampa progressista sta ricoprendo di tonnellate di fango ed ettolitri di bile.In effetti, la pellicola diretta dal regista messicano Alejandro Monteverde è stata realizzata con soli 14 milioni di dollari: noccioline, se paragonate ai fondi stanziati per le produzioni hollywoodiane di punta, che superano tranquillamente gli otto zeri. E nonostante tutto, Sound of freedom, lanciato non a caso il 4 luglio, festa dell’indipendenza americana, ha superato ogni più rosea aspettativa, quintuplicando (per ora) i costi di produzione e sbaragliando ogni concorrenza: il primo giorno di proiezione, il film ha incassato ben 14 milioni di dollari, mentre il più quotato (e costoso) Indiana Jones non si era spinto oltre gli 11. Con una differenza non da poco: Sound of freedom, anche a causa dei boicottaggi woke, era presente in sole 2.600 sale, mentre il colossal disneyano con Harrison Ford è stato visto in 4.600 cinema, quasi il doppio.Ma di che cosa parla questa pellicola della discordia? La trama, basata su una storia vera, ripercorre la storia di Tim Ballard, un ex agente governativo che ha dedicato la sua vita alla lotta contro il traffico di bambini. La sua organizzazione, l’Operation underground railroad (Our), fondata nel 2013, ha portato finora all’arresto di 6.500 criminali coinvolti nella tratta e nello sfruttamento di minori. Riassunto così, sembra il copione perfetto per le compagnie cinematografiche di Hollywood, che sui buoni sentimenti e le storie strappalacrime hanno edificato un impero. Eppure, benché le riprese siano terminate nel 2018, cioè ben cinque anni fa, la Disney, che aveva acquistato il materiale dalla 20th Century Fox, ha deciso misteriosamente di non procedere alla distribuzione del film. «In questi anni molte porte ci sono state chiuse in faccia», ha raccontato il produttore Eduardo Verástegui. «Disney, Netflix, Amazon e altre case di distribuzione», ha aggiunto, «hanno detto «no, questo film non fa per noi, non è un buon affare, nessuno vedrà un film sul traffico di bambini».A giudicare dal recente successo al botteghino, non è stata una scelta lungimirante. E a raccogliere gli allori sono stati gli Angel Studios, una piccola casa produttrice dello Utah che si occupa principalmente di streaming e video on demand. Qui, però, non si tratta affatto di una banale cantonata o di un investimento sbagliato da parte delle major hollywoodiane. È una questione puramente ideologica. Il film, infatti, è stato accusato dalla stampa progressista di strizzare l’occhio a QAnon, ossia quella nebulosa internettiana vicina alla destra alternativa americana che sostiene varie teorie del complotto. Tra cui, ad esempio, anche il cosiddetto «Pizzagate», ossia l’ipotesi che funzionari americani e dirigenti del Partito democratico siano coinvolti in crimini di pedofilia e traffico di minori. Scorrendo i titoli delle testate liberal, sembra non ci siano dubbi: Sound of freedom sarebbe, a seconda dei gusti, un «film di successo al botteghino la cui star abbraccia le teorie di QAnon» (Washington Post), un «thriller vicino a QAnon» (Guardian) o un «fantasy anti tratta dei bambini adatto a QAnon» (Jezebel).Al di là di queste accuse, più suggestive che argomentate, non è difficile capire perché il film non piace affatto ai «fiocchi di neve» del wokismo militante. Tanto per cominciare, il produttore, il messicano Eduardo Verástegui, da anni sostiene in America Latina i movimenti pro vita: alla fine del 2019, ha girato il Messico in lungo e in largo per promuovere la versione spagnola di Unplanned, film di grande successo (malgrado i boicottaggi liberal) basato sul libro di memorie dell’attivista anti abortista Abby Johnson. Senza contare che il protagonista di Sound of freedom è impersonato da Jim Caviezel. Attore fieramente cattolico e attivista pro life, è famoso soprattutto per aver recitato la parte di Gesù ne La passione di Cristo di Mel Gibson: i due, anzi, a breve licenzieranno La resurrezione, il secondo capitolo della saga. Tra l’altro, anche se non ha partecipato direttamente ai lavori, il noto regista australiano ha benedetto senza remore la pellicola: «Uno dei problemi più gravi nel mondo di oggi è il traffico di esseri umani e, nello specifico, il traffico di bambini. Ora, il primo passo per sradicare questo crimine è prenderne coscienza. Andate a vedere Sound of freedom», è stato il messaggio di Mel Gibson. Da parte sua, Tim Ballard ha rispedito ai vari mittenti tutte le accuse di cospirazionismo. Anche perché, fa notare, «gli Stati Uniti sono il consumatore numero uno al mondo di video di stupri infantili. E ora siamo tra i primi due anche nella produzione». Un problema effettivamente ben più grave dei deliri del wokismo militante, che sulla pedofilia, peraltro, hanno fatto più volte aperture timide ma sconcertanti. Intanto però, a giudicare dai risultati al botteghino, oggi il «suono della libertà» si ode un po’ più forte. Era ora.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/film-trumpiano-batte-indiana-jones-2662299104.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="scuola-un-rischio-la-carriera-alias-dopo-i-docenti-tocca-agli-studenti" data-post-id="2662299104" data-published-at="1689729656" data-use-pagination="False"> «Scuola, un rischio la carriera alias. Dopo i docenti, tocca agli studenti?» Nel nuovo contratto collettivo nazionale di lavoro del comparto istruzione, università e ricerca, come raccontava ieri La Verità, è spuntata una disposizione che, all’articolo 21, prevede l’identità alias e i bagni neutri per i docenti transgender, e che ha sollevato alcune perplessità nel mondo pro family. Tra chi non ha accolto con favore questa previsione contrattuale, c’è Jacopo Coghe, portavoce di Pro Vita & Famiglia Onlus. La Verità l’ha contattato per capire meglio le sue ragioni. Coghe, è una novità che non vi aspettavate? «No, non ce l’aspettavamo e siamo abbastanza stupiti che sia stato inserito questo regolamento all’interno del contratto collettivo nazionale dei lavoratori, perché fondamentalmente è tutto quello contro cui ci siamo battuti nella scorsa legislatura e il motivo per cui è stato affossato il ddl Zan, ossia la questione sull’identità di genere. Anche perché all’interno del contratto si parla di questa possibilità di attivare una carriera alias nel mondo in cui si intraprende un percorso di transizione e di rettificazione del sesso. Ma se c’è una legge che permette la rettifica del sesso, sarebbe normale che questo avvenisse al termine del percorso e non invece a percorso avviato; anche perché andrà capito chi certificherà l’avvio di questo percorso?». La novità introdotta prevede la richiesta tramite la «sottoscrizione di un accordo di riservatezza confidenziale». «Sì, ma in base a che cosa la scuola o l’ente che deve dare l’accesso alla carriera alias lo farà? Un certificato medico, un atto del giudice che dica che sia stato intrapreso un percorso di rettificazione del sesso?». Vi preoccupa la possibilità che questa novità possa essere un primo passo per la carriera alias per gli studenti? «Assolutamente, perché qualcuno potrebbe dire: perché ai professori sì e agli studenti no? Il prossimo passo rischia ebbe così di essere per gli studenti maggiorenni e quello successivo anche per gli altri. Sottolineo che qui c’è anche di mezzo il concetto di salute e di benessere dei nostri ragazzi nelle scuole, perché il contratto dei docenti: quindi anche quello delle scuole delle medie e dell’infanzia. Chiediamo quindi una revisione e abrogazione della norma in questione, anche se abbiamo scoperto che in realtà essa è stata già introdotta contrattualmente anche in altri contratti nazionali, come quello della sanità». Come Pro Vita & Famiglia, alcuni mesi fa, avete lanciato un’operazione legale con 150 diffide inviate alle scuole che hanno adottato la Carriera Alias, per chiederne l’annullamento. Avete per caso avuto dei riscontri? «Sì, abbiamo avuto dei riscontri. Alcune scuole che hanno ricevuto le nostre diffide hanno infatti deciso di annullare la carriera alias - poche, ma alcune scuole l’hanno fatto -, anche se altre hanno deciso comunque di andare avanti. Stiamo comunque continuando a fare diffide a tutte le scuole di cui abbiamo notizia e che stanno adottando il regolamento alias». Lo scorso gennaio il New York Times ha pubblicato un articolo dal titolo «Quando gli studenti cambiano identità di genere e i genitori non lo sanno», raccontando le insidie della carriera alias. Forse anche nel mondo progressista ci potrebbe essere un ripensamento al riguardo? «Secondo me sì. Si arriverà ad un ripensamento di tutto questo, basti pensare a quello che è successo in Inghilterra con la chiusura del Tavistock Center, del suo centro per la disforia di genere. Ci sono i Paesi più progressisti anche d’Europa che, di fatto, si stanno rendendo conto del pericolo di tutta questa ideologia per i più giovani e in alcuni casi, non a caso, stanno facendo passi indietro. Per questo trovo sarebbe importante che anche l’Italia, da questo punto di vista, prendesse esempio da chi già ci è passato ed ora, appunto, sta compiendo dei passi indietro».
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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