2022-12-06
Feticisti del bavaglio: fa danni? Va usato di più
Complici i malanni stagionali, la falange di esperti ha un nuovo obiettivo, far tenere la mascherina quasi ovunque. Poco importa se stiamo pagando il fatto di averla indossata troppo. Come per il vaccino: se il modello è sbagliato, invece di cambiarlo, insistono.È una sorta di gigantesco mostro che si morde la coda. Un drago ideologico che, una volta evocato, non si riesce più a sconfiggere. Peggio: è un’Idra, e ogni volta che le si taglia la testa altre ne rispuntano sempre più insidiose. In effetti funziona più o meno così: non appena riesci a smontare uno dei dogmi ripetuti ossessivamente dalla Cattedrale sanitaria, ecco che quella ne produce subito altri due e la battaglia ricomincia da capo.Sta andando esattamente in questa maniera con la surreale faccenda delle mascherine. Da qualche giorno, i soliti esperti e profeti del culto medicalizzato si stanno cimentando in una nuova impresa: sostenere la necessità di indossare la mascherina anche durante l’inverno in arrivo. A che scopo? Proteggersi dall’influenza, che quest’anno sarebbe particolarmente feroce. Massimo Ciccozzi, responsabile dell’Unità di Statistica medica ed epidemiologia molecolare al Campus Bio-Medico di Roma, ha fornito all’Adnkronos un quadro piuttosto dettagliato sull’influenza cosiddetta Australiana: «È normale che ci sia, sono oltre due anni che non la vediamo. Gli ultimi dati Influnet ci dicono che sta colpendo molto i bambini sotto i 5 anni, con un’incidenza di 40 casi su 1.000 assistiti, anticipando un po’ i numeri che vediamo a fine dicembre-inizio gennaio. Ma dobbiamo anche capire», aggiunge il medico, «che nel calderone influenza finiscono anche altri virus parainfluenzali, quelli sinciziali e anche coronavirus umani come l’Oc43 che da 100 anni è tra noi e ci porta il raffreddore. A questo punto il consiglio è che, se aumentano i casi, forse terrei la mascherina sui mezzi pubblici e nei luoghi affollati, soprattutto per gli anziani e i fragili». Per lo meno Ciccozzi, bontà sua, non suggerisce di rendere obbligatorio il dispositivo di protezione, cosa a cui invece stanno pensando in Francia (ma per via dell’aumento di contagi da Covid). Analoga l’opinione di un’altra grande star della virologia cotta e mangiata, cioè Fabrizio Pregliasco, il quale spiega al Messaggero che «senza più l’uso della mascherina facilitiamo la diffusione di tutti i virus respiratori. Non dimentichiamo che non solo il Sars-Cov-2 ma anche gli altri virus, in particolare nei soggetti fragili, possono ancora rappresentare un rischio per la vita». Logica conclusione: «Quando serve è meglio quindi utilizzare ancora la mascherina». Sorge il sospetto che questi medici (e non sono purtroppo i soli) non si rendano conto del clamoroso cortocircuito logico di cui sono prigionieri e in cui intendono gettarci tutti quanti. Nel Regno Unito va sviluppandosi un dibattito sul cosiddetto «debito immunitario» o immunity gap. Di che si tratti lo ha spiegato di recente il pediatra Alasdair Munro: in sostanza, le misure restrittive e l’utilizzo massivo di dispositivi di protezione per il Covid ci hanno reso più vulnerabili ad altri patogeni, i quali normalmente si manifestano con meno forza perché circolano senza ostacoli, rendendo la popolazione più immunizzata. Di studi su questo fenomeno ce ne sono parecchi, e in Italia anche alcuni dei più strenui difensori dell’ideologia sanitaria si spingono a dire che la più potente influenza e la diffusione dei virus sinciziali potrebbero essere una conseguenza delle restrizioni. Ed è qui che arriva l’esplosivo cortocircuito. Prima ci viene detto che dobbiamo usare i dispositivi di protezione in ogni situazione, anche all’aperto, e si insiste fino a produrre fenomeni discutibili (vedi gli individui che indossano il dispositivo di protezione anche nel chiuso della propria auto). Poi all’uso della copertura facciale si sommano i lockdown e le varie forme di coprifuoco, sulla cui efficacia si potrebbe e dovrebbe discutere a lungo. Ebbene, dopo che queste misure combinate hanno prodotto - tra i tanti effetti - anche un ritorno di fiamma dell’influenza e di altri patogeni, i geni della sanità hanno pronta la soluzione: continuiamo a utilizzare le mascherine, usiamole di più. Ecco fatto: in pochi, semplici passaggi si è scatenato l’uroboro sanitario, una stravagante forma di pensiero circolare che si autogiustifica. Si pretende di sanare l’errore ripetendolo, ed è un meccanismo che ricorre negli ultimi decenni. Prima si applica una modifica allo stile di vita, e quando tale modifica produce effetti negativi, si teorizza che ormai di quella modifica non si può fare a meno, e anzi si aggiunge che i guai nascono dalla applicazione fin troppo blanda della modifica in questione. Esempio di scuola: entriamo in Europa, l’ingresso produce crisi, per risolvere la crisi ci vuole più Europa, all’Europa non c’è alternativa. Nel caso delle mascherine e dell’influenza c’è poi da considerare un’ulteriore sfumatura. Come si giustifica il ricorso al dispositivo di protezione? Con il fatto che gli ospedali sono in sofferenza a causa dei «nuovi» virus, evento prevedibilissimo su cui il nostro giornale mette in guardia da mesi. Poiché il modello demente di gestione del covid ha prodotto risultati atroci provocando una lunga serie di danni collaterali, ora si ragiona sul possibile utilizzo dello stesso modello per gestire altre emergenze vere o presunte. Per altro, lo si fa mentre il ministro della Salute, Orazio Schillaci (dimostrando di non essere affatto immune ai mefitici influssi della Cattedrale sanitaria), dichiara a Libero che l’emergenza covid non è ancora finita, e che forse ce la lasceremo alle spalle «nella prossima primavera». In realtà, l’unica vera emergenza negli ospedali italiani è la mancanza di personale e di posti letto, un disastro causato dalle politiche di austerità degli anni passati e da altri errori che non sono stati corretti, e di cui non si discute mai seriamente. Ma che volete farci, imporre restrizioni è più semplice che ricostruire un settore devastato da scelte scriteriate. Parafrasando un vecchio slogan, mistificare è meglio che curare.
(Guardia di Finanza)
I peluches, originariamente disegnati da un artista di Hong Kong e venduti in tutto il mondo dal colosso nella produzione e vendita di giocattoli Pop Mart, sono diventati in poco tempo un vero trend, che ha generato una corsa frenetica all’acquisto dopo essere stati indossati sui social da star internazionali della musica e del cinema.
In particolare, i Baschi Verdi del Gruppo Pronto Impiego, attraverso un’analisi sulla distribuzione e vendita di giocattoli a Palermo nonché in virtù del costante monitoraggio dei profili social creati dagli operatori del settore, hanno individuato sette esercizi commerciali che disponevano anche degli iconici Labubu, focalizzando l’attenzione soprattutto sul prezzo di vendita, considerando che gli originali, a seconda della tipologia e della dimensione vengono venduti con un prezzo di partenza di circa 35 euro fino ad arrivare a diverse migliaia di euro per i pezzi meno diffusi o a tiratura limitata.
A seguito dei preliminari sopralluoghi effettuati all’interno dei negozi di giocattoli individuati, i finanzieri ne hanno selezionati sette, i quali, per prezzi praticati, fattura e packaging dei prodotti destavano particolari sospetti circa la loro originalità e provenienza.
I controlli eseguiti presso i sette esercizi commerciali hanno fatto emergere come nella quasi totalità dei casi i Labubu fossero imitazioni perfette degli originali, realizzati con materiali di qualità inferiore ma riprodotti con una cura tale da rendere difficile per un comune acquirente distinguere gli esemplari autentici da quelli falsi. I prodotti, acquistati senza fattura da canali non ufficiali o da piattaforme e-commerce, perlopiù facenti parte della grande distribuzione, venivano venduti a prezzi di poco inferiori a quelli praticati per gli originali e riportavano loghi, colori e confezioni del tutto simili a questi ultimi, spesso corredati da etichette e codici identificativi non conformi o totalmente falsificati.
Questi elementi, oltre al fatto che in alcuni casi i negozi che li ponevano in vendita fossero specializzati in giocattoli originali di ogni tipo e delle più note marche, potevano indurre il potenziale acquirente a pensare che si trattasse di prodotti originali venduti a prezzi concorrenziali.
In particolare, in un caso, l’intervento dei Baschi Verdi è stato effettuato in un negozio di giocattoli appartenente a una nota catena di distribuzione all’interno di un centro commerciale cittadino. Proprio in questo negozio è stato rinvenuto il maggior numero di pupazzetti falsi, ben 3.000 tra esercizio e magazzino, dove sono stati trovati molti cartoni pieni sia di Labubu imbustati che di scatole per il confezionamento, segno evidente che gli addetti al negozio provvedevano anche a creare i pacchetti sorpresa, diventati molto popolari proprio grazie alla loro distribuzione tramite blind box, ossia scatole a sorpresa, che hanno creato una vera e propria dipendenza dall’acquisto per i collezionisti di tutto il mondo. Tra gli esemplari sequestrati anche alcune copie più piccole di un modello, in teoria introvabile, venduto nel mese di giugno a un’asta di Pechino per 130.000 euro.
Soprattutto in questo caso la collocazione all’interno di un punto vendita regolare e inserito in un contesto commerciale di fiducia, unita alla cura nella realizzazione delle confezioni, avrebbe potuto facilmente indurre in errore i consumatori convinti di acquistare un prodotto ufficiale.
I sette titolari degli esercizi commerciali ispezionati e destinatari dei sequestri degli oltre 10.000 Labubu falsi che, se immessi sul mercato avrebbero potuto fruttare oltre 500.000 euro, sono stati denunciati all’Autorità Giudiziaria per vendita di prodotti recanti marchi contraffatti.
L’attività s’inquadra nel quotidiano contrasto delle Fiamme Gialle al dilagante fenomeno della contraffazione a tutela dei consumatori e delle aziende che si collocano sul mercato in maniera corretta e che, solo nell’ultimo anno, ha portato i Baschi Verdi del Gruppo P.I. di Palermo a denunciare 37 titolari di esercizi commerciali e a sequestrare oltre 500.000 articoli contraffatti, tra pelletteria, capi d’abbigliamento e profumi recanti marchi delle più note griffe italiane e internazionali.
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