2024-06-12
«Voto di scambio mafioso»: inchiesta sul sindaco Pd di Reggio Calabria
Giuseppe Falcomatà (Imagoeconomica)
Giuseppe Falcomatà inguaiato dalle intercettazioni: uno degli indagati guidava un circolo «dem» e tesserava persone legate ai clan.A Reggio Calabria hanno aspettato la fine delle elezioni europee per far scattare gli arresti in un’inchiesta che coinvolge anche la politica. Ieri su ordine del gip Vincenzo Quaranta e su richiesta della Procura guidata da Giovanni Bombardieri, sono state emesse 14 misure cautelari, sette arresti in carcere, quattro ai domiciliari e tre obblighi di firma. I reati sono a vario titolo associazione di stampo ’ndranghetista, estorsione aggravata dal metodo mafioso, reati elettorali, corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio, falsito ideologico. Tra gli indagati per cui è stato chiesto l’arresto, negato dal gip, il capogruppo di Fratelli d’Italia in Regione Giuseppe Neri e il capogruppo nel Comune di Reggio Calabria del Pd Giuseppe Sera. Sotto inchiesta (ma per lui non sono state chieste le manette) anche il sindaco del capoluogo Giuseppe Falcomatà, che aveva ripreso il suo posto di primo cittadino nell’ottobre del 2023, dopo l’assoluzione in un processo per abuso d’ufficio. Le accuseI politici avrebbero usufruito dell’aiuto elettorale garantito dal clan Araniti, guidato da Domenico Araniti detto «il Duca», finito ieri in manette (il fratello Santo è già in carcere). Le preferenze sarebbero arrivate anche grazie a uno «stratagemma» scoperto dai carabinieri del Ros, in base al quale venivano, con la complicità di alcuni scrutatori, inseriti voti nelle urne di elettori fantasma. Il filone elettorale dell’inchiesta ruota intorno a un circolo del Pd di Reggio Calabria e al suo uomo forte, Daniel Barillà (genero del «Duca» e accusato dal pentito Mario Chindemi), il quale si definisce un grande elettore della sinistra dai tempi del Pds. L’ordinanza raconta cheBarillà «è da tempo attivo sul fronte politico locale di centrosinistra e figura tra i membri del direttivo del Circolo Pd Gallico-Sambatello», dal 2013. Nel mese marzo del 2017, il tesseramento operato dal circolo venne annullato a causa delle polemiche legate all’«adesione al circolo di soggetti "imparentati" con il clan Araniti». Un alert scattato perchè le tessere erano passate dalle 60 del 2014 alle 140 del 2017. Dopo il commissariamento del circolo venne nominato un nuovo segretario, Giuseppe Neri che lo guiderà fino al 2018».Quindi anche l’uomo del partito di Giorgia Meloni coinvolto viene dal Pd e, a un certo punto, è tentato di andarsene. In una telefonata si lamenta della gogna mediatica a cui è costantemente sottoposto e Barillà gli consiglia di andarsene. Neri replica: «Così mi ammazzano definitivamente, prima ero del Pd, poi me ne sono andato a Fratelli d’Italia, ora che faccio, torno dove? Da Italia viva?». Barillà gli suggerisce il discorso da fare: «Io in questo partito non mi sento valorizzato per la persona che sono [...] perché la mia onorabilità non la mettono in discussione né la Meloni, né il presidente del Consiglio dei ministri». Ma se Neri non si sente apprezzato in Fratelli d’Italia nonostante le sue 7.500 preferenze, la verità è che il fulcro dell’indagine è il quartiere di Sambatello e la passione della cosca Araniti per il Pd. Ma alcuni approfondimenti investigativi non sono stati possibili anche per lo scarso aiuto arrivato dagli archivi del dem. Nell’ordinanza si legge: « Al fine di approfondire questo primo dato relativo all’influenza esercitata dal Barillà nel circolo del Pd di Sambatello-Gallico, sono stati chiesti alla sede centrale del Pd i relativi dati di tesseramento nel periodo di interesse (2014-2017): tuttavia il dato del periodo 2015-2017 non è stato reperito dalla sede centrale del partito, mentre in base ai dati del 2014 non era possibile identificare gli specifici iscritti alla sezione di Gallico-Sambatello, essendo presenti solo i dati globali comunali».Ma dalle intercettazioni di un altro procedimento, il cosiddetto processo Mammasantissima, annotano i giudici, «si evinceva che lo stesso Barillà era stato nominato responsabile del tesseramento per il suddetto circolo in periodo coincidente con le problematiche legate all’incremento delle tessere nella zona sotto il controllo della cosca Araniti. Altrettanto rilevanti sono poi le conversazioni in cui il Barillà, consapevole del suo dominio sui tesseramenti, fa valere le sue posizioni per cercare di imporre la sua linea ai vertici locali del Pd».Insomma il signore delle tessere dem era il genero del boss e faceva pesare il ruolo con la dirigenza del partito di Elly Schlein. Il territorio di Barillà veniva definito dai compagni di partito «la tana del lupo», «il luogo più adatto per lo svolgimento delle primarie del Pd», ma anche il posto dove non sgarrare perché se no «succede un casino». Lo stesso Barillà spiega a un interlocutore di essere in grado di monitorare i voti nelle singole sezioni. E quando deve cercare voti per Neri spiega che lo sta facendo per la persona, anche perché prima il candidato era uno di loro, e non per tradire il Pd. A questo punto Neri chiede a Barillà perché si «stia fissando» con i dem e l’arrestato dà una spiegazione quasi sconcertante. Lo fa praticamente per abitudine: «È da una vita, è da quindici anni che vado e cerco per il Pd e Pds prima. Giusto? Ma ora che faccio il voltagabbana?». Ed ecco allora il discorsetto pronto per sponsorizzare Neri, il compagno che ha tradito: «Quando Peppe è stato eletto lì alla Provincia da noi, ha risposto, sul territorio ha dato risposte - ed è vero - quindi voto una persona seria, visto che il centrosinistra perde». Ma poi domanda: «Ma siamo sicuri che perde questo centrosinistra Peppe?».La spinta per un candidato del centro-destra da parte di Barillà, però, sarebbe stata avversata da alcuni famigliari del boss. Nell’ordinanza il gip spiega: «La scelta non veniva condivisa dalla moglie dello stesso Domenico Araniti che votava senza tradire il proprio "colore" politico, pur sapendo delle sicure sorti del Pd, rivolgendo al marito parole di "disgusto" per quello che stavano facendo, ovvero votare per il centrodestra (si intuisce che la famiglia Araniti ha sempre manifestato idee politiche di sinistra)». Ma la cosca in realtà distribuisce i suoi voti così da «accontentare almeno all’apparenza, tutti i soggetti politici ritenuti utili». E un sostegno, «in misura minore», sarebbe stato garantito anche ad altri due esponenti dem, Mimmo Battaglia (attuale assessore del Comune di Reggio Calabria e componente dimissionario del comitato di Gestione dell’autorità di sistema portuale dello Stretto, candidato dem all’uninominale della Camera nel 2022) e Giovanni Muraca, non indagati. Barillà, a un certo punto, prova a piazzare il suo candidato, Peppe Sera, come detto attuale capogruppo pd in Consiglio comunale, e i suoi presunti 800 voti, con Fratelli d’Italia, perché Battaglia non saprebbe dove metterlo in lista.Le parole esatte sarebbero state queste: «Ma se non si candida con chi vince questi voti se li mette nel culo. Se mi dicono a me di candidarlo nel Pd, non ha dove andare» A un certo punto Barillà chiede al suo protetto in quale lista abbia scelto di candidarsi e lui risponde sicuro: «Mi candido nel Pd». Ottenendo un’imprecazione di rimando: «Ma mannaia la madosca Peppe, sempre nel Pd ti candidi?». E Sera spiega: «Poi ti spiego che è una cosa importante… mi sono incontrato con Luca Lotti… abbiamo fatto un ragionamento […] sennò resti sempre né carne né pesce, almeno ho un riferimento nazionale, hai bisogno del ministro? Vai da Guerini… hai bisogno del sottosegretario… vai e trovi».Per gli inquirenti Sera era un candidato politico di «sicura fiducia come dimostrato dall’omaggio» reso al capocosca Mimmo Araniti, quando si sarebbe recato «nella sua dimora in una fase nevralgica della campagna elettorale». La cricca, stando alla versione degli inquirenti, tramite sera, avrebbe cercato invano di «inserire il figlio del Duca nella struttura politica locale del Pd» e, al contempo, avrebbe provato, inutilmente «di evitarne il licenziamento per motivi disciplinari». In compenso la squadretta sarebbe riuscita a ottenere nella giunta comunale la nomina di un assessore di fiducia, Mariangela Cama, all’Urbanistica. Barillà, invece sarebbe stato nominato componente dell’organo interno di valutazione con decreto firmato da Falcomatà. Lo stesso signore delle tessere da Neri avrebbe ottenuto un incarico nella struttura politica del consigliere regionale, giudicato di «modestissimo valore economico».Dagli atti Barillà risulta particolarmente operativo. E si muove anche negli ambienti cattolici per tirare la volata a Neri. Ma senza lasciare per strada «Battaglia».La strategia emerge in una conversazione intercettata mentre il grande elettore parla a telefono con don Antonello, che poi si è scoperto essere monsignor Foderaro, uno che sul sito Web della Diocesi di Reggio Calabria-Bova viene presentato come «promotore di giustizia del Tribunale ecclesiastico diocesano» oltre che «canonico teologo del Capitolo metropolitano». «Barillà», ricostruiscono gli inquirenti, «chiedeva al sacerdote di indirizzare i consensi elettorali verso Neri, rendendolo partecipe della sua strategia di non «abbandonare completamente l’altro candidato, Battaglia». Il rapporto tra i due appare così stretto che dopo le elezioni Barillà lo rende edotto sui risultati. E se per Battaglia alla fine «era mancato l’appoggio di tutto il mio gruppo», spiega Barillà, «Peppe Neri a Gallico ha preso 600 voti», mentre a Gallico Marina «dove votiamo noi tutti», aggiunge, «Peppe forse 120 e Mimmo 35».Il sacerdote compare di nuovo durante la campagna elettorale per le amministrative. Questa volta il sostegno è per Sera e Falcomatà. In un incontro tra i due, secondo gli inquirenti, «si evinceva la conferma del sostegno elettorale a Sera». E per «accreditarsi» con il candidato sindaco Barillà organizza un incontro con Falcomatà. A fare da testimone è proprio don Foderaro. Creato il link tra i due gli inquirenti registrano una telefonata che il gip definisce «fondamentale» nella sua ordinanza: il candidato sindaco chiama Barillà e «gli chiede espressamente il suo aiuto»: «Che vogliamo fare? Ho bisogno di una grande, grande mano». Barillà risponde: «Dobbiamo vincere, noi ci dobbiamo vedere... facciamo due incontri e via, poi non dobbiamo vederci più». E uno degli incontri è risultato essere particolarmente imbarazzante. Barillà e Falcomatà, ricostruiscono gli investigatori, arrivano con la Smart coupé del primo. L’appuntamento è in un bar di proprietà di Antonino Araniti, figlio di Domenico. Ma non è finita. «L’attivismo di Barillà nel reperire consensi elettorali in favore di Falcomatà» emergerebbe da una ulteriore telefonata. «Sindaco buongiorno, allora io mi sono fatto una chiacchierata con un paio di persone... poiché bisogna essere operativi, è inutile fare cene, cenette e incontri e aperitivi, cioé bisogna fare incontri singoli, quindi se tu mi dici il giorno, io mi fisso dieci appuntamenti e ci vediamo, capito? Poi magari tutto il mio gruppo, quello stretto, giusto per... per dirglielo, alla fine ci vediamo tutti... con tutti quanti».Le preferenze fantasma erano state denunciate pubblicamente dall’opinionista Klaus Davi. «La sera stessa del voto», racconta alla Verità, «ho denunciato il broglio a Reggio nord. Ho fatto quello che i magistrati dicono di fare, denunciare. Il lavoro dello Stato arriva tardi ma arriva». Ma se per il presunto broglio le denunce di Davi sono andate a segno, l’opinionista ricorda che «per minacce e pallottole che ho ricevuto lo Stato non si è fatto più sentire (in diverse ordinanze di custodia cautelare che hanno colpito le cosche calabresi gli indagati parlano di lui in modo minaccioso, ndr). Mi chiedo se è perché sono fuori dai circuiti dell’Antimafia. Questo silenzio mi fa paura più della ’ndrangheta».