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2020-03-07
Erdogan attacca i greci con i droni e apre ai migranti la frontiera Ue
Ansa
Non accenna a diminuire la tensione esplosa al confine tra Grecia e Turchia dopo che, la scorsa settimana, Recep Erdogan ha permesso a ingenti flussi di migranti di dirigersi verso Ovest: flussi che stanno cercando di forzare la frontiera greca, dove da giorni si verificano scontri. Atene ha infatti optato per la linea dura e ha dichiarato di non avere alcuna intenzione di consentire arrivi illegali sul proprio territorio. La Grecia sostiene inoltre che Ankara starebbe cercando di aiutare i profughi ad accedere al suolo europeo. In particolare, dalla frontiera turca sarebbero partite bombe fumogene contro il confine greco. «Gli attacchi sono coordinati dai droni» ha affermato un funzionario greco all'agenzia Reuters. «Al di là dell'aspetto intimidatorio, la polizia turca attacca per aiutare i migranti ad attraversare la linea di frontiera». I turchi fornirebbero addirittura tenaglie ai profughi «per tagliare le reti».
Atene ha intanto sospeso le domande di asilo per un mese, attirandosi la condanna delle Nazioni unite. La situazione si sta tuttavia facendo sempre più insostenibile. Negli scorsi giorni, c'è stato un notevole incremento degli arrivi a Lesbo, Chio, Samo, Coo e Lero. In particolare Lesbo - isola di 86.000 abitanti - ospita al momento circa 20.000 profughi.
I ministri degli Esteri europei hanno frattanto criticato, a Zagabria, la linea di Erdogan. «L'Ue ribadisce la sua seria preoccupazione per la situazione al confine tra Grecia e Turchia e rifiuta fortemente l'uso della pressione migratoria da parte della Turchia per scopi politici», hanno affermato in una dichiarazione congiunta. «Questa situazione alle frontiere esterne dell'Ue non è accettabile», hanno proseguito, aggiungendo che «i migranti non dovrebbero essere incoraggiati a tentare attraversamenti illegali via terra o via mare». L'Europa, insomma, prova a fare la voce grossa. Peccato che il suo potere contrattuale non sia poi particolarmente significativo. Anche perché - come riportava ieri il Financial Times - pare che a Zagabria la linea dura della Grecia abbia incontrato le resistenze di Germania e Olanda, favorevoli a un atteggiamento più morbido verso Ankara. L'Ue appare quindi tutt'altro che coesa. Erdogan, dal canto suo, non sembra intenzionato a fare marcia indietro. «La questione è chiusa, abbiamo aperto le porte, non abbiamo più tempo di discutere», ha detto ieri, accusando inoltre la polizia greca di aver ucciso almeno 5 migranti al confine.
Sullo sfondo (ma neanche troppo) restano le delicate relazioni tra Ankara e il Cremlino. Quali fossero i rapporti di forza tra Russia e Turchia, nel corso del vertice tra Erdogan e Vladimir Putin dell'altro ieri a Mosca, è emerso da un dettaglio. Il capo del Cremlino ha accolto il Sultano in una sala in cui giganteggiava la statua di Caterina la Grande: la zarina che sconfisse militarmente l'Impero Ottomano, sottraendogli la Crimea nel 1792. Giovedì, i due presidenti hanno raggiunto un accordo per un cessate il fuoco in Siria, entrato in vigore ieri. Nell'intesa, è stata inclusa la realizzazione di un corridoio di sicurezza di 6 chilometri lungo l'autostrada M4, nella zona di Idlib, mentre dovrebbero iniziare dei pattugliamenti russo-turchi dal prossimo 15 marzo. Che il vincitore alla fine sia Putin è testimoniato dal fatto che Erdogan abbia ottenuto ben poco. Congelando la situazione attuale, lo Zar ha nei fatti ribadito il suo netto appoggio al presidente siriano, Bashar al Assad, oltre a confermare le recenti conquiste territoriali delle truppe di Damasco.
Ricordiamo che le tensioni tra Mosca e Ankara sono esplose dopo che la settimana scorsa le forze di Damasco avevano bombardato, uccidendo oltre 30 militari turchi, proprio l'area di Idlib: l'ultimo baluardo dei ribelli siriani, appoggiati dalla Turchia. L'attacco aveva innescato la reazione di Ankara, che aveva risposto avviando l'operazione militare «Scudo di primavera», volta a contrastare la campagna di riconquista in Siria, attuata da Assad. È difficile credere che Putin non fosse coinvolto nel bombardamento contro Idlib. Anche perché il presidente russo - nelle scorse settimane - aveva accusato Ankara di non aver rispettato gli accordi di Sochi. Nulla di più verosimile dell'ipotesi che lo Zar abbia voluto dare a Erdogan una dimostrazione di forza, facendo leva sulla scarsa disponibilità americana a sostenere concretamente la politica siriana della Turchia. Il Sultano - che non può certo permettersi di tirare troppo la corda con Mosca - alla fine ha ceduto. E sta adesso cercando di far passare per un compromesso quella che - nei fatti - è stata una capitolazione. Ciononostante, se lo scenario resta per ora cristallizzato, non è che l'altro ieri siano emersi troppi dettagli su come si voglia procedere per sciogliere il nodo di Idlib. Il futuro resta pertanto incerto. O Erdogan si convincerà a chinare definitivamente la testa, acconsentendo alle pretese siriane (e russe) sull'area. Oppure, a breve, la tensione sarà destinata nuovamente a salire.
Usano Ratzinger per la resa alla Cina
Una pagina intera di Agostino Giovagnoli su Avvenire è venuta ieri a sostegno della lettera scritta a tutti i confratelli cardinali dal neo decano del collegio cardinalizio, Giovanni Battista Re, per stimgatizzare il porporato emerito di Hong Kong, Joseph Zen, reo di non approvare il nuovo corso dei rapporti tra Cina e Vaticano.
Zen ripete in ogni modo e circostanza che lo storico accordo tra Pechino e Vaticano, firmato nel 2018 per la nomina dei vescovi, accordo a tutt'oggi ancora secretato, è in realtà una consegna della Chiesa cinese al governo comunista. E consiglia alla cosiddetta Chiesa clandestina, quella che negli ultimi 70 anni ha pagato un tributo di persecuzione tremendo al regime cinese, di ritirarsi nelle catacombe pur di non cedere a questo accordo.
Il punto su cui l'articolessa di Giovagnoli e la lettera del cardinale Re puntano l'idrante è quello della «continuità tra i diversi pontefici» riguardo alla Cina. Il cardinale Zen, infatti, ha scritto chiaramente che l'accordo del 2018, alla cui regia ci sarebbe, sempre secondo Zen, il segretario di Stato Pietro Parolin, è avvenuto operando una «manipolazione del pensiero del Papa emerito» così come espresso nella Lettera ai cattolici cinesi scritta nel 2007 da Benedetto XVI.
Ma il cardinale Re ha messo nero su bianco un bel colpo di teatro, perché ha affermato che «papa Benedetto XVI aveva approvato il progetto di accordo sulla nomina dei vescovi in Cina, che soltanto nel 2018 è stato possibile firmare». E dice di poterlo scrivere dopo «aver preso conoscenza di persona dei documenti esistenti» presso l'archivio. Giustamente il cardinale Zen ha già risposto: «Basta mostrarmi il testo firmato, che fino ad oggi non mi è stato concesso di vedere, e l'evidenza dell'archivio, che Ella ha potuto verificare. Rimarrebbe solo ancora da spiegare perché allora non è stato firmato».
Ma non importa. Anche se allora non fosse stato firmato, scrive Giovagnoli tutto teso alla custodia dell'asserita «continuità», che due papi «si siano applicati in tempi differenti e con collaboratori diversi al problema Cina per giungere alla stessa decisione attribuisce a quest'ultima una particolare forza».
Leggendo però la Lettera ai cattolici cinesi di Benedetto XVI, ma anche scavando un po' nell'approccio verso la Cina di Giovanni Paolo II, è difficile dire che si sarebbe arrivati proprio alla stessa decisione. Pur nella ricerca di un dialogo, per i due predecessori di Francesco la Chiesa non avrebbe mai dovuto cedere sul terreno della libertà religiosa, compresa ovviamente la completa libertà di nominare i vescovi da parte del Vaticano. Tema quest'ultimo su cui non è ancora chiaro che cosa stabilisca l'accordo del 2018, e su cui vertono le maggiori perplessità.
Ma la difesa della «sacra» continuità tra papi sembra ora l'unico assoluto trascendente da difendere. Nessuna svendita al governo di Pechino, assicura Giovagnoli su Avvenire, mentre proprio ieri l'altro in un'intervista concessa all'Observatorio para la libertad religiosa y de conciencia padre Bernardo Cervellera, direttore di Asianews, ha dichiarato che «l'accordo tra Cina e Vaticano ha distrutto le possibilità della Chiesa clandestina, perché l'incontro nelle case è diventato molto difficile, anche svolgere il ministero del sacerdozio è un po' complicato, persino stare semplicemente con le persone nelle case. E il controllo di tutti gli aspetti della vita dei credenti è molto forte. Quindi ci sono praticamente le nuove regole per la nomina dei vescovi, ma il resto della situazione è nelle mani dei ministeri degli affari religiosi, che non vogliono che la Chiesa sia libera e indipendente nel suo mandato».
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Le forze di Atene schierate al confine: «Ankara aiuta i clandestini a passare con proiettili fumogeni e cesoie per tagliare le reti». Iniziato in Siria il cessate il fuoco ingoiato dal «Sultano» dopo le bombe di Putin su Idlib.Usano Ratzinger per la resa alla Cina. Avvenire schiera Benedetto XVI con Francesco sulla linea docile verso Pechino. Ma la sua Lettera ai cattolici del Paese rivela che il suo pensiero geopolitico è opposto.Lo speciale comprende due articoli.Non accenna a diminuire la tensione esplosa al confine tra Grecia e Turchia dopo che, la scorsa settimana, Recep Erdogan ha permesso a ingenti flussi di migranti di dirigersi verso Ovest: flussi che stanno cercando di forzare la frontiera greca, dove da giorni si verificano scontri. Atene ha infatti optato per la linea dura e ha dichiarato di non avere alcuna intenzione di consentire arrivi illegali sul proprio territorio. La Grecia sostiene inoltre che Ankara starebbe cercando di aiutare i profughi ad accedere al suolo europeo. In particolare, dalla frontiera turca sarebbero partite bombe fumogene contro il confine greco. «Gli attacchi sono coordinati dai droni» ha affermato un funzionario greco all'agenzia Reuters. «Al di là dell'aspetto intimidatorio, la polizia turca attacca per aiutare i migranti ad attraversare la linea di frontiera». I turchi fornirebbero addirittura tenaglie ai profughi «per tagliare le reti». Atene ha intanto sospeso le domande di asilo per un mese, attirandosi la condanna delle Nazioni unite. La situazione si sta tuttavia facendo sempre più insostenibile. Negli scorsi giorni, c'è stato un notevole incremento degli arrivi a Lesbo, Chio, Samo, Coo e Lero. In particolare Lesbo - isola di 86.000 abitanti - ospita al momento circa 20.000 profughi.I ministri degli Esteri europei hanno frattanto criticato, a Zagabria, la linea di Erdogan. «L'Ue ribadisce la sua seria preoccupazione per la situazione al confine tra Grecia e Turchia e rifiuta fortemente l'uso della pressione migratoria da parte della Turchia per scopi politici», hanno affermato in una dichiarazione congiunta. «Questa situazione alle frontiere esterne dell'Ue non è accettabile», hanno proseguito, aggiungendo che «i migranti non dovrebbero essere incoraggiati a tentare attraversamenti illegali via terra o via mare». L'Europa, insomma, prova a fare la voce grossa. Peccato che il suo potere contrattuale non sia poi particolarmente significativo. Anche perché - come riportava ieri il Financial Times - pare che a Zagabria la linea dura della Grecia abbia incontrato le resistenze di Germania e Olanda, favorevoli a un atteggiamento più morbido verso Ankara. L'Ue appare quindi tutt'altro che coesa. Erdogan, dal canto suo, non sembra intenzionato a fare marcia indietro. «La questione è chiusa, abbiamo aperto le porte, non abbiamo più tempo di discutere», ha detto ieri, accusando inoltre la polizia greca di aver ucciso almeno 5 migranti al confine.Sullo sfondo (ma neanche troppo) restano le delicate relazioni tra Ankara e il Cremlino. Quali fossero i rapporti di forza tra Russia e Turchia, nel corso del vertice tra Erdogan e Vladimir Putin dell'altro ieri a Mosca, è emerso da un dettaglio. Il capo del Cremlino ha accolto il Sultano in una sala in cui giganteggiava la statua di Caterina la Grande: la zarina che sconfisse militarmente l'Impero Ottomano, sottraendogli la Crimea nel 1792. Giovedì, i due presidenti hanno raggiunto un accordo per un cessate il fuoco in Siria, entrato in vigore ieri. Nell'intesa, è stata inclusa la realizzazione di un corridoio di sicurezza di 6 chilometri lungo l'autostrada M4, nella zona di Idlib, mentre dovrebbero iniziare dei pattugliamenti russo-turchi dal prossimo 15 marzo. Che il vincitore alla fine sia Putin è testimoniato dal fatto che Erdogan abbia ottenuto ben poco. Congelando la situazione attuale, lo Zar ha nei fatti ribadito il suo netto appoggio al presidente siriano, Bashar al Assad, oltre a confermare le recenti conquiste territoriali delle truppe di Damasco.Ricordiamo che le tensioni tra Mosca e Ankara sono esplose dopo che la settimana scorsa le forze di Damasco avevano bombardato, uccidendo oltre 30 militari turchi, proprio l'area di Idlib: l'ultimo baluardo dei ribelli siriani, appoggiati dalla Turchia. L'attacco aveva innescato la reazione di Ankara, che aveva risposto avviando l'operazione militare «Scudo di primavera», volta a contrastare la campagna di riconquista in Siria, attuata da Assad. È difficile credere che Putin non fosse coinvolto nel bombardamento contro Idlib. Anche perché il presidente russo - nelle scorse settimane - aveva accusato Ankara di non aver rispettato gli accordi di Sochi. Nulla di più verosimile dell'ipotesi che lo Zar abbia voluto dare a Erdogan una dimostrazione di forza, facendo leva sulla scarsa disponibilità americana a sostenere concretamente la politica siriana della Turchia. Il Sultano - che non può certo permettersi di tirare troppo la corda con Mosca - alla fine ha ceduto. E sta adesso cercando di far passare per un compromesso quella che - nei fatti - è stata una capitolazione. Ciononostante, se lo scenario resta per ora cristallizzato, non è che l'altro ieri siano emersi troppi dettagli su come si voglia procedere per sciogliere il nodo di Idlib. Il futuro resta pertanto incerto. O Erdogan si convincerà a chinare definitivamente la testa, acconsentendo alle pretese siriane (e russe) sull'area. Oppure, a breve, la tensione sarà destinata nuovamente a salire.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/erdogan-attacca-i-greci-con-i-droni-e-apre-ai-migranti-la-frontiera-ue-2645412847.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="usano-ratzinger-per-la-resa-alla-cina" data-post-id="2645412847" data-published-at="1765818381" data-use-pagination="False"> Usano Ratzinger per la resa alla Cina Una pagina intera di Agostino Giovagnoli su Avvenire è venuta ieri a sostegno della lettera scritta a tutti i confratelli cardinali dal neo decano del collegio cardinalizio, Giovanni Battista Re, per stimgatizzare il porporato emerito di Hong Kong, Joseph Zen, reo di non approvare il nuovo corso dei rapporti tra Cina e Vaticano. Zen ripete in ogni modo e circostanza che lo storico accordo tra Pechino e Vaticano, firmato nel 2018 per la nomina dei vescovi, accordo a tutt'oggi ancora secretato, è in realtà una consegna della Chiesa cinese al governo comunista. E consiglia alla cosiddetta Chiesa clandestina, quella che negli ultimi 70 anni ha pagato un tributo di persecuzione tremendo al regime cinese, di ritirarsi nelle catacombe pur di non cedere a questo accordo. Il punto su cui l'articolessa di Giovagnoli e la lettera del cardinale Re puntano l'idrante è quello della «continuità tra i diversi pontefici» riguardo alla Cina. Il cardinale Zen, infatti, ha scritto chiaramente che l'accordo del 2018, alla cui regia ci sarebbe, sempre secondo Zen, il segretario di Stato Pietro Parolin, è avvenuto operando una «manipolazione del pensiero del Papa emerito» così come espresso nella Lettera ai cattolici cinesi scritta nel 2007 da Benedetto XVI. Ma il cardinale Re ha messo nero su bianco un bel colpo di teatro, perché ha affermato che «papa Benedetto XVI aveva approvato il progetto di accordo sulla nomina dei vescovi in Cina, che soltanto nel 2018 è stato possibile firmare». E dice di poterlo scrivere dopo «aver preso conoscenza di persona dei documenti esistenti» presso l'archivio. Giustamente il cardinale Zen ha già risposto: «Basta mostrarmi il testo firmato, che fino ad oggi non mi è stato concesso di vedere, e l'evidenza dell'archivio, che Ella ha potuto verificare. Rimarrebbe solo ancora da spiegare perché allora non è stato firmato». Ma non importa. Anche se allora non fosse stato firmato, scrive Giovagnoli tutto teso alla custodia dell'asserita «continuità», che due papi «si siano applicati in tempi differenti e con collaboratori diversi al problema Cina per giungere alla stessa decisione attribuisce a quest'ultima una particolare forza». Leggendo però la Lettera ai cattolici cinesi di Benedetto XVI, ma anche scavando un po' nell'approccio verso la Cina di Giovanni Paolo II, è difficile dire che si sarebbe arrivati proprio alla stessa decisione. Pur nella ricerca di un dialogo, per i due predecessori di Francesco la Chiesa non avrebbe mai dovuto cedere sul terreno della libertà religiosa, compresa ovviamente la completa libertà di nominare i vescovi da parte del Vaticano. Tema quest'ultimo su cui non è ancora chiaro che cosa stabilisca l'accordo del 2018, e su cui vertono le maggiori perplessità. Ma la difesa della «sacra» continuità tra papi sembra ora l'unico assoluto trascendente da difendere. Nessuna svendita al governo di Pechino, assicura Giovagnoli su Avvenire, mentre proprio ieri l'altro in un'intervista concessa all'Observatorio para la libertad religiosa y de conciencia padre Bernardo Cervellera, direttore di Asianews, ha dichiarato che «l'accordo tra Cina e Vaticano ha distrutto le possibilità della Chiesa clandestina, perché l'incontro nelle case è diventato molto difficile, anche svolgere il ministero del sacerdozio è un po' complicato, persino stare semplicemente con le persone nelle case. E il controllo di tutti gli aspetti della vita dei credenti è molto forte. Quindi ci sono praticamente le nuove regole per la nomina dei vescovi, ma il resto della situazione è nelle mani dei ministeri degli affari religiosi, che non vogliono che la Chiesa sia libera e indipendente nel suo mandato».
La risposta alla scoppiettante Atreju è stata una grigia assemblea piddina
Il tema di quest’anno, Angeli e Demoni, ha guidato il percorso visivo e narrativo dell’evento. Il manifesto ufficiale, firmato dal torinese Antonio Lapone, omaggia la Torino magica ed esoterica e il fumetto franco-belga. Nel visual, una cosplayer attraversa il confine tra luce e oscurità, tra bene e male, tra simboli antichi e cultura pop moderna, sfogliando un fumetto da cui si sprigiona luce bianca: un ponte tra tradizione e innovazione, tra arte e narrazione.
Fumettisti e illustratori sono stati il cuore pulsante dell’Oval: oltre 40 autori, tra cui il cinese Liang Azha e Lorenzo Pastrovicchio della scuderia Disney, hanno accolto il pubblico tra sketch e disegni personalizzati, conferenze e presentazioni. Primo Nero, fenomeno virale del web con oltre 400.000 follower, ha presentato il suo debutto editoriale con L’Inkredibile Primo Nero Show, mentre Sbam! e altre case editrici hanno ospitato esposizioni, reading e performance di autori come Giorgio Sommacal, Claudio Taurisano e Vince Ricotta, che ha anche suonato dal vivo.
Il cosplay ha confermato la sua centralità: più di 120 partecipanti si sono sfidati nella tappa italiana del Nordic Cosplay Championship, con Carlo Visintini vincitore e qualificato per la finale in Svezia. Parallelamente, il propmaking ha permesso di scoprire il lavoro artigianale dietro armi, elmi e oggetti scenici, rivelando la complessità della costruzione dei personaggi.
La musica ha attraversato generazioni e stili. La Battle of the Bands ha offerto uno spazio alle band emergenti, mentre le icone delle sigle tv, Giorgio Vanni e Cristina D’Avena, hanno trasformato l’Oval in un grande palco popolare, richiamando migliaia di fan. Non è mancato il K-pop, con workshop, esibizioni e karaoke coreano, che ha coinvolto i più giovani in una dimensione interattiva e partecipativa. La manifestazione ha integrato anche dimensioni educative e culturali. Il Dipartimento di Matematica dell’Università di Torino ha esplorato il ruolo della matematica nei fumetti, mostrando come concetti scientifici possano dialogare con la narrazione visiva. Lo chef Carlo Mele, alias Ojisan, ha illustrato la relazione tra cibo e animazione giapponese, trasformando piatti iconici degli anime in esperienze reali. Il pubblico ha potuto immergersi nella magia del Villaggio di Natale, quest’anno allestito nella Casa del Grinch, tra laboratori creativi, truccabimbi e la Christmas Elf Dance, mentre l’area games e l’area videogames hanno offerto tornei, postazioni libere e spazi dedicati a giochi indipendenti, modellismo e miniature, garantendo una partecipazione attiva e immersiva a tutte le età.
Con 28.000 visitatori in due giorni, Xmas Comics & Games conferma la propria crescita come festival della cultura pop, capace di unire creatività, spettacolo e narrazione, senza dimenticare la componente sociale e educativa. Tra fumetti, cosplay, musica e gioco, Torino è diventata il punto d’incontro per chi vuole vivere in prima persona il racconto pop contemporaneo, dove ogni linguaggio si intreccia e dialoga con gli altri, trasformando la fiera in una grande esperienza culturale condivisa.
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i,Hamza Abdi Barre (Getty Images)
La Somalia è intrappolata in una spirale di instabilità sempre più profonda: un’insurrezione jihadista in crescita, un apparato di sicurezza inefficiente, una leadership politica divisa e la competizione tra potenze vicine che alimenta rivalità interne. Il controllo effettivo del governo federale si riduce ormai alla capitale e a poche località satelliti, una sorta di isola amministrativa circondata da gruppi armati e clan in competizione. L’esercito nazionale, logorato, frammentato e privo di una catena di comando solida, non è in grado di garantire la sicurezza nemmeno sulle principali rotte commerciali che costeggiano il Paese. In queste condizioni, il collasso dell’autorità centrale e la caduta di Mogadiscio nelle mani di gruppi ostili rappresentano scenari sempre meno remoti, con ripercussioni dirette sulla navigazione internazionale e sulla sicurezza regionale.
La pirateria somala, un tempo contenuta da pattugliamenti congiunti e operazioni navali multilaterali, è oggi alimentata anche dal radicamento di milizie jihadiste che controllano vaste aree dell’entroterra. Questi gruppi, dopo anni di scontri contro il governo federale e di brevi avanzate respinte con l’aiuto delle forze speciali straniere, hanno recuperato terreno e consolidato le proprie basi logistiche proprio lungo i corridoi costieri. Da qui hanno intensificato sequestri, assalti e sabotaggi, colpendo infrastrutture critiche e perfino centri governativi di intelligence. L’attacco del 2025 contro una sede dei servizi somali, che portò alla liberazione di decine di detenuti, diede il segnale dell’audacia crescente di questi movimenti.
Le debolezze dell’apparato statale restano uno dei fattori decisivi. Nonostante due decenni di aiuti, investimenti e programmi di addestramento militare, le forze somale non riescono a condurre operazioni continuative contro reti criminali e gruppi jihadisti. Il consumo interno di risorse, la corruzione diffusa, i legami di fedeltà clanici e la dipendenza dall’Agenzia dell’Unione africana per il supporto alla sicurezza hanno sgretolato ogni tentativo di riforma. Nel frattempo, l’interferenza politica nella gestione della missione internazionale ha sfiancato i donatori, ridotto il coordinamento e lasciato presagire un imminente disimpegno. A questo si aggiungono le tensioni istituzionali: modifiche costituzionali controverse, una mappa federale contestata e tentativi percepiti come manovre per prolungare la permanenza al potere della leadership attuale hanno spaccato la classe politica e paralizzato qualsiasi risposta comune alla minaccia emergente. Mentre i vertici si dividono, le bande armate osservano, consolidano il controllo del territorio e preparano nuovi colpi contro la navigazione e le città costiere. Sul piano internazionale cresce il numero di governi che, temendo un collasso definitivo del sistema federale, sondano discretamente la possibilità di una trattativa con i gruppi armati. Ma l’ipotesi di una Mogadiscio conquistata da milizie che già controllano ampie aree della costa solleva timori concreti: un ritorno alla pirateria sistemica, attacchi oltre confine e una spirale di conflitti locali che coinvolgerebbe l’intero Corno d’Africa.
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Il presidente eletto del Cile José Antonio Kast e sua moglie Maria Pia Adriasola (Ansa)
Un elemento significativo di queste elezioni presidenziali è stata l’elevata affluenza alle urne, che si è rivelata in aumento del 38% rispetto al 2021. Quelle di ieri sono infatti state le prime elezioni tenute dopo che, nel 2022, è stato introdotto il voto obbligatorio. La vittoria di Kast ha fatto da contraltare alla crisi della sinistra cilena. Il presidente uscente, Gabriel Boric, aveva vinto quattro anni fa, facendo leva soprattutto sull’impopolarità dell’amministrazione di centrodestra, guidata da Sebastián Piñera. Tuttavia, a partire dal 2023, gli indici di gradimento di Boric sono iniziati a crollare. E questo ha danneggiato senza dubbio la Jara, che è stata ministro del Lavoro fino allo scorso aprile. Certo, Kast si accinge a governare a fronte di un Congresso diviso: il che potrebbe rappresentare un problema per alcune delle sue proposte più incisive. Resta tuttavia il fatto che la sua vittoria ha avuto dei numeri assai significativi.
«La vittoria di Kast in Cile segue una serie di elezioni in America Latina che negli ultimi anni hanno spostato la regione verso destra, tra cui quelle in Argentina, Ecuador, Costa Rica ed El Salvador», ha riferito la Bbc. Lo spostamento a destra dell’America Latina è una buona notizia per la Casa Bianca. Ricordiamo che, alcuni giorni fa, Washington a pubblicato la sua nuova strategia di sicurezza nazionale: un documento alla cui base si registra il rilancio della Dottrina Monroe. Per Trump, l’obiettivo, da questo punto di vista, è duplice. Innanzitutto, punta a contrastare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. In secondo luogo, mira ad arginare l’influenza geopolitica della Cina sull’Emisfero occidentale. Vale a tal proposito la pena di ricordare che Boric, negli ultimi anni, ha notevolmente avvicinato Santiago a Pechino. Una linea che, di certo, a Washington non è stata apprezzata.
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