2019-04-01
Elogio delle radici. Altro che «cittadini del mondo». Abbiamo bisogno di appartenenza
Nell'era dei migranti, dai libri, al Web, alla musica, va di moda il cosmopolitismo. Contro questa cultura dell'alienazione, si deve rivendicare il «ritorno alla terra».L'esperto di genitorialità: «Oggi domina la disgregazione: aborti, famiglie lacerate, natura aggredita a scopi di lucro. Così aumentano ansia, depressione e suicidi».Lo speciale contiene due articoliTra altri altrettanto pericolosi, c'è un preciso tabù che negli ultimi anni la cultura progressista è riuscita a edificare: il tabù delle radici. Va per la maggiore la retorica dello sradicamento. Da ogni parte ci arrivano inviti a essere «cittadini del mondo», a valicare i confini, a non stabilirsi da nessuna parte. Ci sono i progressisti che tifano per l'Europa contrapponendosi ai sovranisti italiani. Ci sono i no borders, ovvero gli antagonisti che difendono l'immigrazione di massa e che, da quando Matteo Salvini è diventato ministro dell'Interno, non perdono occasione per manifestare. Ci sono gli «italiani 2.0» (i richiedenti asilo, gli immigrati regolari, gli immigrati di prima e seconda generazione) che entusiasmano testate giornalistiche e programmi radio e tv, in contrapposizione agli italiani 1.0, quasi colpevoli di essere «soltanto» nati qui da genitori a loro volta nati qui. La canzone di grande successo No roots, cantata da Alice Merton, è il perfetto inno di questo incessante lavaggio del cervello: Fabio Fazio ha ospitato la cantante a Che tempo che fa nel 2018, anno in cui ha vinto l'European border breaking awards 2018, e attualmente è la colonna sonora di uno spot televisivo. La Merton, tedesca con cittadinanza canadese e britannica, canta che «stare ferma è solo un desiderio ambizioso». E nel ritornello ripete che lei non ha radici, ma ha tanti ricordi perché ha viaggiato «come gli zingari nella notte»…A qualunque livello si esamini lo sradicato - dal migrante sul barcone all'expat con trolley, laptop e master – l'idea che essere un no roots porti nella propria vita solo positività è una enorme bugia. In realtà, senza radici si può vivere molto male, da tutti i punti di vista. Prima di tutto, non avere radici fa male all'anima. E non sono solo i sovranisti a sostenerlo. Nel 2017, commentando una lettura tratta dal Libro di Neemia, papa Francesco ha spiegato: «Senza le radici non si può vivere: un popolo senza radici o che lascia perdere le radici, è un popolo ammalato». «Una persona senza radici, che ha dimenticato le proprie radici, è ammalata», ha ribadito il Pontefice. «Ritrovare, riscoprire le proprie radici e prendere la forza per andare avanti, la forza per dare frutto e, come dice il poeta, “la forza per fiorire perché - dice - quello che l'albero ha di fiorito viene da quello che ha di sotterrato". Proprio quel rapporto tra la radice e il bene che noi possiamo fare». Non sono poche le difficoltà, talvolta le sofferenze psicologiche, in cui incorre lo sradicato. Lo raccontava comicamente Checco Zalone nell'intelligente Quo vado? Nel film, Checco, il buzzurro italiano maschilista e nullafacente parassita del posto fisso, deve confrontarsi con la realtà norvegese. Cerca di appropriarsi della cultura che lo circonda, partecipa al matrimonio omosessuale dell'ex compagno della sua attuale fidanzata, fa il padre dei figli che lei ha avuto da uomini diversi (e di diverse religioni), si tinge di biondo come un novello vichingo e si trasforma in casalingo felice perché ha imparato a menadito i dettami della parità uomo-donna. Ma poi gli basta scoprire dalla tv che, nel frattempo, in Italia Al Bano e Romina Power sono tornati a cantare insieme per crollare. Sente il richiamo delle sue radici e molla d'un colpo la terra nordica nella quale si era rimodellato progressista. Il Web è pieno di psicologi online che lavorano con gli expat italiani all'estero via Skype: emigrare non è esattamente una passeggiata. «Shock culturale» è il termine con il quale si indicano sentimenti come ansia, smarrimento, disorientamento e confusione che una persona vive a causa del trasferimento in un ambiente socioculturale differente, quale è, per eccellenza, il Paese straniero. Coniato dall'antropologa statunitense Cora DuBois nel 1951, il concetto venne poi perfezionato dal canadese Kalervo Oberg nel 1954, che lo rubricò come vera e propria malattia professionale: l'expat per motivi economici è soggetto allo shock culturale. Che consta di quattro fasi. Fase luna di miele (Honeymoon phase), nella quale il luogo nuovo rapisce la nostra attenzione proprio perché diverso. La fase successiva è detta Fase di alienazione (Negotiation phase), solitamente avviene dopo 3-4 mesi dal trasferimento, colpisce anche chi si era trasferito con gioia ed entusiasmo: le differenze tra Paese di origine e nuovo Paese si manifestano e si possono provare frustrazione, rabbia, depressione e senso di disadattamento sociale, con una complessiva sensazione di essere, appunto, fuori luogo. Addirittura, si possono sviluppare arroganza e aggressività verso i nativi come meccanismo di autodifesa e sfogo del senso di disagio. A queste due fasi, se si realizza la vera integrazione, seguono la Fase di regolazione (Adjustment phase) e la Fase di padronanza (Mastery phase). Nella prima la persona inizia ad accettare usi e costumi della nuova cultura con positività. Nella seconda li ha fatti suoi: si sente a suo agio e dentro di sé padroneggia la nuova cultura. È purtroppo evidente che molta immigrazione «da barcone» si ferma alla fase di alienazione e vive come un'enclave della sua propria cultura dentro una nazione troppo diversa da quella di provenienza. Tutto questo la dice la dice lunga sul fatto che le radici, volenti o nolenti, siano dentro di noi. Per rendersene conto basta leggere ciò che scrisse la filosofa Simone Weil in un libro (da poco ripubblicato da Edizioni di comunità) intitolato La prima radice. Scrive la Weil: «Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell'anima umana. Mediante la sua partecipazione reale, attiva e naturale all'esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro, l'essere umano ha una radice». Ciò non significa affatto chiudersi a ogni influenza esterna. «Un determinato ambiente», scriveva ancora la Weil, «dev'essere influenzato dall'esterno, non per essere arricchito, ma per essere stimolato a rendere più intensa la propria vita. Deve nutrirsi degli apporti esterni soltanto dopo averli assorbiti». Il problema è quando non assorbiamo gli apporti esterni, ma ce ne facciamo sommergere fino ad annegare e cancellare la nostra identità. La Weil denunciava come la radice geografica fosse diventata solo quella nazionale, identificata per altro con lo Stato, recidendo completamente quelle più particolari. La filosofa affermava che «dobbiamo studiare anche un'altra specie di sradicamento. È lo sradicamento che potremmo chiamare geografico, vale a dire in rapporto alle collettività che corrispondono a determinati territori. Il senso stesso di queste collettività è quasi sparito, tranne per una sola, per la nazione. Ma ce ne sono, e ce ne sono state, molte altre. Alcune più piccole, talora piccolissime: città o insieme di villaggi, provincie, regioni». E ancora: «Per anni e anni si è insegnato agli operai che l'internazionalismo è il più sacro dei doveri, e che il patriottismo è il più vergognoso dei pregiudizi borghesi». Insomma, le radici intese sia in senso spaziale (da dove vengo), sia in senso temporale (qual è il passato dal quale provengo), sono fondamentali da un punto di vista psichico. Checché ne dicano i progressisti che vogliono un pianeta di individui recisi dal passato e dalla madrepatria. Ma non è soltanto una questione spirituale o morale. Il radicamento fa bene anche al fisico. Lo dimostrano tecniche come il grounding. Il grounding può migliorare il sonno e normalizzare il ritmo notturno del cortisolo, ridurre stress, dolore e infiammazioni, cambiare il sistema nervoso autonomo dall'attivazione simpatica a quella parasimpatica. Nella bioenergetica, per grounding si intende il radicamento del corpo alla terra. A piedi nudi, con le ginocchia rilassate, il peso del corpo «inviato» verso il basso, bisogna inspirare ed espirare profondamente, immaginare le nostre braccia e mani come rami e fiori - come fossimo un albero - e sentire che i propri piedi sono il tramite tra la terra e il nostro corpo. Naturalmente l'esercizio va svolto su un prato, sulla terra, sulla sabbia, ma, a livello simbolico, vale anche fatto in palestra o in casa. Salutari sono anche le passeggiate grounding, cioè a piedi nudi nella natura, tant'è che il barefooting - camminare anche in città a piedi nudi o al massimo con scarpe guantate che proteggono la pianta del piede senza costringerlo nella calzatura - per quanto resti un fenomeno di nicchia, è oggi più diffuso che in passato. Così come sono sempre più diffuse esperienze di «ritorno alla terra», nel senso di ritornare alla vita contadina. Presentato l'anno scorso alle Giornate degli autori della Mostra di Venezia, l'intenso film di Daniele de Michele (conosciuto come Don Pasta) e sceneggiatura di Andrea Segre, I villani racconta quattro storie di autarchia produttiva di persone che sono tornate o sono sempre rimaste legate alla propria terra: lìagricoltore siciliano di Alcamo che mangia solo la sua conserva di pomodoro e solo la pasta fatta con il suo grano antico, i fratelli Galasso, pescatori tarantini, la contadina e allevatrice trentina che vende erbe selvatiche al mercato e l'allevatore irpino che insieme con la figlia ventenne alleva capre e produce formaggi. Piccoli grandi eroi della difesa delle radici a ogni livello. Riavvicinarsi alla vita rurale non è soltanto un modo un po' stravagante di vivere all'aria aperta. Significa riscoprire la vita tradizionale: contatto con la natura, lavoro fisico, cibo sano, difesa della cultura, della tradizione e suo trasporto dal passato nel futuro. Riscoprire le radici, dunque, da ogni punto di vista, è il giusto mantra: non il suo contrario. Anche nell'alimentazione. In cucina, le radici sono fondamentali: sia in senso lato, cioè radici nel senso di tradizioni, sia in senso stretto, sarebbe a dire radici vere e proprie, che affondano nel terreno. Già. Nel bellissimo libro In salute con radici e cortecce. Dall'acero allo zenzero, tisane, ricette e consigli per il benessere quotidiano, Simona Recanatini illustra le proprietà e gli usi alimentari di molte cortecce e, soprattutto, delle radici commestibili: carote, ravanelli, daikon, topinambur, zenzero, rapa, ginseng, liquirizia, curcuma...<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/elogio-delle-radici-altro-che-cittadini-del-mondo-abbiamo-bisogno-di-appartenenza-2633315721.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="pure-loms-lha-ammesso-senza-identita-si-vive-male" data-post-id="2633315721" data-published-at="1758064791" data-use-pagination="False"> «Pure l’Oms l’ha ammesso: senza identità si vive male» Antonello Vanni è uno dei maggiori esperti italiani di genitorialità. Docente di lettere e di bioetica, è autore di tantissime pubblicazioni sulla paternità e il rapporto tra genitori e figli. Il suo nuovo libro, appena uscito, si intitola Portami nella natura. Come salvare i nostri figli dell'intossicazione tecnologica (San Paolo). Partiamo dalle radici. Quanto è importante per una persona sentirsi radicata? «Secondo Simone Weil il radicamento è l'esigenza più importante e più misconosciuta dell'anima umana. Sottolineerei “più misconosciuta" perché oggi vince lo sradicamento: figli abortiti e gettati come rifiuti, ragazzi che crescono in famiglie disgregate, identità indebolite dalle lusinghe del consumismo, la terra lacerata da esigenze di mercato… Ma senza radici si è infelici: già nel 2013 l'Organizzazione mondiale della sanità aveva avvertito che, entro il 2020, nei Paesi sviluppati la sofferenza psicologica si sarebbe ampliata in modo preoccupante riguardando una persona su 5». La parola radici richiama la vicinanza alla terra. Una vicinanza che abbiamo perso. Che problemi dà questa separazione? «L'essere umano è parte del mondo vivente: la terra lo genera, nutre, stupisce con la sua bellezza, infine se lo riprende. Senza questa vicinanza drammatica e affascinante l'uomo non ha più “i piedi per terra" e per questo è infelice e vacilla. L'etologia, studiando gli animali separati dal loro ambiente e segregati negli zoo, ha visto il loro grave malessere: comportamenti disturbati, aggressività, inadeguate relazioni parentali, confusione nelle gerarchie sociali, perdita di vitalità e fecondità. Sono gli stessi segnali che vediamo negli esseri umani: secondo Frances Kuo (Università dell'Illinois) ogni comunità umana privata della relazione con la natura vede infatti aumento di aggressività, violenza domestica, degrado, criminalità, disfunzioni nelle relazioni famigliari, trascuratezza verso i figli, depressione, dipendenze, disturbi dell'apprendimento nei bambini». Leggendo il suo libro si capisce che a soffrire della distanza dalla natura siano bambini e ragazzi. È così? «Sì, perché la loro è l'infanzia cresciuta in serra malata di sindrome da mancanza di natura. Le nuove generazioni passano meno di un'ora al giorno all'aperto (peggio dei detenuti), vivono sempre di più nel cemento urbano, sono schiave degli schermi digitali fin dai primi mesi di vita. Anche i neonati vengono parcheggiati davanti alla tv perché stiano tranquilli, nonostante l'importanza per lo sviluppo psicofisico infantile dell'attaccamento che si realizza solo tra le braccia vive come la terra, di carne e ossa, della madre e del padre. Ma neanche la pianta più tenace si attacca allo schermo di un televisore: il radicamento del vivente è nel vivente». Quanto influisce la rivoluzione digitale? «Molto. L'American psychological association (Apa) ha pubblicato un report secondo cui oggi assistiamo a un inquietante aumento di patologie mentali nei giovani: grave depressione, ansia, disturbi della condotta, iperattività, suicidio… Le cause non sarebbero le solite (droga, disgregazione famigliare…) ma il troppo benessere e la proliferazione degli strumenti elettronici». Cosa si può fare per permettere ai più piccoli di ritrovare un rapporto con la natura? «Prima di tutto rivedere radicalmente l'uso di smartphone, tablet e pc. Gli stessi dirigenti dei colossi tecnologici non mandano i loro figli in scuole pubbliche con pc e lavagne interattive ma alla Waldorf School dove i materiali sono fango, creta, foglie, aria, sole, acqua… Poi bisogna, semplicemente, portarceli i figli nella natura, per svolgere attività che ri-equilibrino i delicati sistemi corporeo, neurologico e sensoriale annichiliti sul divano con cellulari e videogame. Il modo migliore per portare i figli nella natura è però fare da esempio: i figli non imparano dalle nostre parole ma da come mettiamo i piedi nel mondo, diceva Dante. Dobbiamo essere noi adulti a mostrare ai figli che è possibile staccarsi dallo smartphone e rimettere questi piedi nel mondo, con una biciclettata lungo il fiume o una camminata nel bosco. Se ci andremo ci seguiranno».