
Il dopo Elly Schlein è già iniziato: la leadership del segretario del Pd si sta consumando neanche tanto lentamente. All’interno dei dem c’è chi teme (o prevede) un tracollo alle europee, la defenestrazione della segretaria e l’avvento al Nazareno, alla faccia dell’armocromia, del grigio Paolo Gentiloni: «La distanza nei sondaggi tra noi e il M5s», dice alla Verità una vecchia volpe del Pd, «è di 3 o 4 punti. Il sorpasso è difficile ma non impossibile, e sarebbe la fine del partito. Anche un risultato inferiore al 20%, in ogni caso, metterebbe in crisi la segreteria della Schlein».
La fuga verso Azione di 31 esponenti del Pd della Liguria, tra i quali il consigliere regionale Pippo Rossetti e la consigliera comunale di Genova Cristina Lodi, non è una frana ma certamente un preoccupante smottamento, e del resto se sono corsi addirittura a rifugiarsi tra le braccia di Carlo Calenda significa che i fuorusciti erano arrivati alla disperazione. La motivazione dell’addio è la «netta svolta a sinistra» del Pd, «in cui viene sostanzialmente negato il processo del riformismo messo in campo negli ultimi dieci anni». La carica sei 31 segue gli addii di Andrea Marcucci, Enrico Borghi, Alessio D’Amato, tutti con la stessa motivazione.
Elly fa spallucce e minimizza: «C’è un’agenda», dice la Schlein alla festa del Fatto Quotidiano, «che unisce anche le varie sensibilità del Pd. Credo che sia sempre un dispiacere quando qualcuno decide di andare via, ma se qualcuno può non sentirsi a casa in un Pd che si batte per l’ambiente, i diritti e il lavoro di qualità, allora forse l’indirizzo lo aveva sbagliato prima».
Una lettura che non convince nessuno: l’unico elemento di consolazione per la segretaria è che le sue valutazioni suscitano le critiche del noto profeta politico Piero Fassino: «Voglio sperare», commenta Fassino, «che le parole di Schlein siano andate al di là dei suoi reali convincimenti. Non posso pensare che l’unica risposta sia che avevano sbagliato a scegliere il Pd. Detto peraltro a chi si è iscritto al Pd molto prima della Schlein. Ci si rallegra di chi arriva, non di chi parte». Sulla stessa linea Gianni Cuperlo: «Noi siamo la sinistra e non abbiamo mai detto “meno siamo meglio stiamo”. Dobbiamo costruire il perimetro più largo possibile, perché senza il Pd un’alternativa alla destra non è data».
In realtà le parole della Schlein sono anche moderate rispetto ai suoi convincimenti, prova ne sia che chiunque disponga di qualche voto, a partire dai tre presidenti di regione, Michele Emiliano, Stefano Bonaccini e Vincenzo De Luca, finisce per essere prima o poi messo all’angolo dalla Schlein, alla quale piace circondarsi di yes man tutt’altro che disinteressati. Ai tre interessa poter correre per il terzo mandato, ma la segretaria è contraria: «Il terzo mandato per i governatori? Questo non è previsto dalla legge», ribadisce la Schlein, «e non abbiamo, ad ora, notizie che la maggioranza voglia andare in quella direzione. È ben noto che c’è una discussione interna al Pd e affronteremo quella discussione».
Campa cavallo: intanto alle europee c’è da scommettere che i tre granai elettorali dem, Puglia, Emilia-Romagna e Campania, se le cose non dovessero cambiare, riserveranno amare sorprese alla Schlein. Bonaccini, che dopo essere stato sconfitto dalla Schlein alle primarie si è precipitato a siglare con lei un patto che lo ha portato a diventare presidente del partito, ora si lecca le ferite: «È essenziale», dice il governatore dell’Emilia-Romagna a Domani, «che il Pd recuperi rapidamente la propria vocazione maggioritaria: abbiamo bisogno di un partito più grande ed espansivo, che punti a tornare al governo, non di un partito più piccolo e radicale».
Se vogliamo dirla tutta, pure questa famigerata svolta radicale che strumentalmente viene invocata per giustificare gli addii è un’invenzione: la Schlein si occupa tantissimo, legittimamente, di diritti civili, ma sui problemi concreti che attanagliano le classi sociali più deboli, dall’aumento vertiginoso dei prezzi alla sicurezza dei quartieri popolari, la sua voce si sente poco. Per non parlare della guerra in Ucraina: partita da posizioni pacifiste, la Schlein dopo aver vinto le primarie del Pd si è subito omologata al pensiero unico dominante: «Sulla guerra in Ucraina», spiega, «non ho cambiato idea. Quando è partita l’invasione criminale di Vladimir Putin all’Ucraina ho capito che non avremmo potuto non sostenere anche militarmente quel popolo invaso. Lo so che ci dividiamo su questo», commenta la Schlein quando dalla platea della festa del Fatto arrivano proteste, «è giusto così, ma sono convinta che se fosse mancato quel supporto, Putin avrebbe pensato di poter cambiare i confini manu militari. Una forza progressista», aggiunge la Schlein, «non può dismettere la via di una pace giusta». Parole che potrebbero essere pronunciate serenamente da Giorgia Meloni.
Eppure, tra mille giravolte, supercazzole e banalità assortite, alla Schlein sfugge una riflessione vera, sincera, cristallina: «Se il Pd avesse fatto tutto bene in questi anni», dice Elly, «una come me non avrebbe mai vinto il congresso». E su questo siamo tutti d’accordo.






