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2018-10-06
Draghi va da Mattarella in un silenzio inquietante
Qualche giorno fa Mario Draghi aveva invitato Luigi Di Maio e compagni ad abbassare i toni. «Le parole possono fare danni», era stato il monito del presidente della Banca centrale europea. Vero. Tuttavia, a volte fanno danni anche i silenzi, soprattutto se arrivano da un signore come lui. Spiego subito che cosa intendo. Ieri su alcuni quotidiani del gruppo Gedi (Repubblica, La Stampa e così via) è stata pubblicata la notizia di un incontro riservato tra il presidente della Repubblica e il governatore della Bce. Argomento: la manovra finanziaria dell'Italia. Draghi avrebbe espresso al capo dello Stato la sua preoccupazione per le misure contenute nel documento di economia e finanza, precisando all'uomo del Colle che di questo passo il nostro Paese rischia la Troika, ossia un commissariamento in stile greco. Vero o falso? Per tutta la mattina abbiamo atteso che qualcuno, a Francoforte oppure al Quirinale decidesse di fare un po' di chiarezza, smentendo la notizia oppure rettificando il tiro. Invece né dall'ufficio stampa della Bce, né da quello della presidenza della Repubblica è giunto un commento. Strano, perché se non in Germania almeno sul Colle sono sempre lesti a informarci sul più piccolo impegno di Mattarella. Il capo dello stato riceve la banda musicale di Pizzighettone? Segue comunicato. Il presidente inaugura un convegno sulla coltivazione delle barbabietole in Africa? L'ufficio stampa ci informa. Sul sito del Quirinale addirittura si può sfogliare l'agenda della più alta carica dello Stato, tenendosi aggiornati giorno per giorno su quel che fa e quanti nastri taglia. Peccato però che alla voce stretta di mano con Mario Draghi non risulti nulla. Consultando il diario presidenziale si possono ricostruire le giornate del presidente, ma l'appuntamento con il presidente della Banca centrale proprio non risulta.Uno sbianchettamento che certo lascia perplessi, soprattutto chi conosce la puntualità degli appuntamenti quirinalizi. Ma come? Mattarella incontra Draghi per parlare della manovra e non ci dice nulla? Anzi, quando esce la notizia se ne sta come fa tutti i giorni, cioè muto? Già i mercati sono sul chi va là, pronti a schizzare all'insù con lo spread e all'ingiù con il Mib, ossia con l'indice della Borsa. Se poi gira voce che Draghi va a manifestare al presidente della Repubblica le sue preoccupazioni sul futuro dell'Italia, immaginatevi che cosa può succedere. Ieri le reazioni sono state contenute, ma solo perché pochi si sono accorti della notizia e i siti Web non l'hanno rilanciata. Fosse stata messa in circolo con maggior evidenza, la notizia avrebbe di sicuro provocato reazioni a catena e non proprio positive. Soprattutto perché anche i silenzi in certi casi sono interpretabili come un sì e nel caso in questione si tratterebbe di una conferma. Draghi dunque si è preso la briga di salire le scale del Quirinale e di parlare con il capo dello Stato per metterlo sul chi va là sulle conseguenze del documento di economia e finanza, di cui per altro fino a ieri non esisteva un testo definitivo da commentare. Al di là di come la si pensi rispetto al Def (per quanto ci riguarda continuiamo a ritenere che il reddito di cittadinanza ce lo saremmo potuti risparmiare, usando i soldi per il taglio delle tasse), che il presidente della Bce si incontri di nascosto con quello della Repubblica non è cosa che ci faccia piacere, perché dà alla cosa un che di misterioso e oscuro. Visto che i soldi in discussione sono quelli degli italiani, ossia dei contribuenti, forse sarebbe auspicabile che le pressioni o anche solo gli avvertimenti fossero pubblici, così se ne guadagnerebbe in trasparenza o anche solo in conoscenza, in modo che chiunque possa farsi i propri conti. Altrimenti si dà la sensazione che le scelte vengano prese nelle segrete stanze, alle spalle dei cittadini, che poi sono gli unici ad aver diritto di scegliersi il destino che più desiderano. Non tocca di sicuro ai banchieri, per quanto centrali, e neppure ai presidenti, ancorché della Repubblica, decidere le misure di un governo. Ci sono un consiglio dei ministri e un Parlamento ed è in quelle sedi che si prendono le decisioni, non altrove.Nel rispetto delle regole, oltre che delle parole, forse sarebbe poi il caso che qualcuno mettesse la museruola a Claude Juncker, il sobrio presidente della commissione Ue. L'uomo che dovrebbe rappresentare l'Europa unita dopo che le polemiche dei giorni scorsi avevano fatto salire lo spread, ieri ha sganciato un'altra bomba, dicendo di non voler raccogliere le macerie dell'Italia. Ecco, ok, a noi per ora basta non dover raccogliere le bottiglie vuote.
La risposta alla scoppiettante Atreju è stata una grigia assemblea piddina
Il tema di quest’anno, Angeli e Demoni, ha guidato il percorso visivo e narrativo dell’evento. Il manifesto ufficiale, firmato dal torinese Antonio Lapone, omaggia la Torino magica ed esoterica e il fumetto franco-belga. Nel visual, una cosplayer attraversa il confine tra luce e oscurità, tra bene e male, tra simboli antichi e cultura pop moderna, sfogliando un fumetto da cui si sprigiona luce bianca: un ponte tra tradizione e innovazione, tra arte e narrazione.
Fumettisti e illustratori sono stati il cuore pulsante dell’Oval: oltre 40 autori, tra cui il cinese Liang Azha e Lorenzo Pastrovicchio della scuderia Disney, hanno accolto il pubblico tra sketch e disegni personalizzati, conferenze e presentazioni. Primo Nero, fenomeno virale del web con oltre 400.000 follower, ha presentato il suo debutto editoriale con L’Inkredibile Primo Nero Show, mentre Sbam! e altre case editrici hanno ospitato esposizioni, reading e performance di autori come Giorgio Sommacal, Claudio Taurisano e Vince Ricotta, che ha anche suonato dal vivo.
Il cosplay ha confermato la sua centralità: più di 120 partecipanti si sono sfidati nella tappa italiana del Nordic Cosplay Championship, con Carlo Visintini vincitore e qualificato per la finale in Svezia. Parallelamente, il propmaking ha permesso di scoprire il lavoro artigianale dietro armi, elmi e oggetti scenici, rivelando la complessità della costruzione dei personaggi.
La musica ha attraversato generazioni e stili. La Battle of the Bands ha offerto uno spazio alle band emergenti, mentre le icone delle sigle tv, Giorgio Vanni e Cristina D’Avena, hanno trasformato l’Oval in un grande palco popolare, richiamando migliaia di fan. Non è mancato il K-pop, con workshop, esibizioni e karaoke coreano, che ha coinvolto i più giovani in una dimensione interattiva e partecipativa. La manifestazione ha integrato anche dimensioni educative e culturali. Il Dipartimento di Matematica dell’Università di Torino ha esplorato il ruolo della matematica nei fumetti, mostrando come concetti scientifici possano dialogare con la narrazione visiva. Lo chef Carlo Mele, alias Ojisan, ha illustrato la relazione tra cibo e animazione giapponese, trasformando piatti iconici degli anime in esperienze reali. Il pubblico ha potuto immergersi nella magia del Villaggio di Natale, quest’anno allestito nella Casa del Grinch, tra laboratori creativi, truccabimbi e la Christmas Elf Dance, mentre l’area games e l’area videogames hanno offerto tornei, postazioni libere e spazi dedicati a giochi indipendenti, modellismo e miniature, garantendo una partecipazione attiva e immersiva a tutte le età.
Con 28.000 visitatori in due giorni, Xmas Comics & Games conferma la propria crescita come festival della cultura pop, capace di unire creatività, spettacolo e narrazione, senza dimenticare la componente sociale e educativa. Tra fumetti, cosplay, musica e gioco, Torino è diventata il punto d’incontro per chi vuole vivere in prima persona il racconto pop contemporaneo, dove ogni linguaggio si intreccia e dialoga con gli altri, trasformando la fiera in una grande esperienza culturale condivisa.
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i,Hamza Abdi Barre (Getty Images)
La Somalia è intrappolata in una spirale di instabilità sempre più profonda: un’insurrezione jihadista in crescita, un apparato di sicurezza inefficiente, una leadership politica divisa e la competizione tra potenze vicine che alimenta rivalità interne. Il controllo effettivo del governo federale si riduce ormai alla capitale e a poche località satelliti, una sorta di isola amministrativa circondata da gruppi armati e clan in competizione. L’esercito nazionale, logorato, frammentato e privo di una catena di comando solida, non è in grado di garantire la sicurezza nemmeno sulle principali rotte commerciali che costeggiano il Paese. In queste condizioni, il collasso dell’autorità centrale e la caduta di Mogadiscio nelle mani di gruppi ostili rappresentano scenari sempre meno remoti, con ripercussioni dirette sulla navigazione internazionale e sulla sicurezza regionale.
La pirateria somala, un tempo contenuta da pattugliamenti congiunti e operazioni navali multilaterali, è oggi alimentata anche dal radicamento di milizie jihadiste che controllano vaste aree dell’entroterra. Questi gruppi, dopo anni di scontri contro il governo federale e di brevi avanzate respinte con l’aiuto delle forze speciali straniere, hanno recuperato terreno e consolidato le proprie basi logistiche proprio lungo i corridoi costieri. Da qui hanno intensificato sequestri, assalti e sabotaggi, colpendo infrastrutture critiche e perfino centri governativi di intelligence. L’attacco del 2025 contro una sede dei servizi somali, che portò alla liberazione di decine di detenuti, diede il segnale dell’audacia crescente di questi movimenti.
Le debolezze dell’apparato statale restano uno dei fattori decisivi. Nonostante due decenni di aiuti, investimenti e programmi di addestramento militare, le forze somale non riescono a condurre operazioni continuative contro reti criminali e gruppi jihadisti. Il consumo interno di risorse, la corruzione diffusa, i legami di fedeltà clanici e la dipendenza dall’Agenzia dell’Unione africana per il supporto alla sicurezza hanno sgretolato ogni tentativo di riforma. Nel frattempo, l’interferenza politica nella gestione della missione internazionale ha sfiancato i donatori, ridotto il coordinamento e lasciato presagire un imminente disimpegno. A questo si aggiungono le tensioni istituzionali: modifiche costituzionali controverse, una mappa federale contestata e tentativi percepiti come manovre per prolungare la permanenza al potere della leadership attuale hanno spaccato la classe politica e paralizzato qualsiasi risposta comune alla minaccia emergente. Mentre i vertici si dividono, le bande armate osservano, consolidano il controllo del territorio e preparano nuovi colpi contro la navigazione e le città costiere. Sul piano internazionale cresce il numero di governi che, temendo un collasso definitivo del sistema federale, sondano discretamente la possibilità di una trattativa con i gruppi armati. Ma l’ipotesi di una Mogadiscio conquistata da milizie che già controllano ampie aree della costa solleva timori concreti: un ritorno alla pirateria sistemica, attacchi oltre confine e una spirale di conflitti locali che coinvolgerebbe l’intero Corno d’Africa.
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Il presidente eletto del Cile José Antonio Kast e sua moglie Maria Pia Adriasola (Ansa)
Un elemento significativo di queste elezioni presidenziali è stata l’elevata affluenza alle urne, che si è rivelata in aumento del 38% rispetto al 2021. Quelle di ieri sono infatti state le prime elezioni tenute dopo che, nel 2022, è stato introdotto il voto obbligatorio. La vittoria di Kast ha fatto da contraltare alla crisi della sinistra cilena. Il presidente uscente, Gabriel Boric, aveva vinto quattro anni fa, facendo leva soprattutto sull’impopolarità dell’amministrazione di centrodestra, guidata da Sebastián Piñera. Tuttavia, a partire dal 2023, gli indici di gradimento di Boric sono iniziati a crollare. E questo ha danneggiato senza dubbio la Jara, che è stata ministro del Lavoro fino allo scorso aprile. Certo, Kast si accinge a governare a fronte di un Congresso diviso: il che potrebbe rappresentare un problema per alcune delle sue proposte più incisive. Resta tuttavia il fatto che la sua vittoria ha avuto dei numeri assai significativi.
«La vittoria di Kast in Cile segue una serie di elezioni in America Latina che negli ultimi anni hanno spostato la regione verso destra, tra cui quelle in Argentina, Ecuador, Costa Rica ed El Salvador», ha riferito la Bbc. Lo spostamento a destra dell’America Latina è una buona notizia per la Casa Bianca. Ricordiamo che, alcuni giorni fa, Washington a pubblicato la sua nuova strategia di sicurezza nazionale: un documento alla cui base si registra il rilancio della Dottrina Monroe. Per Trump, l’obiettivo, da questo punto di vista, è duplice. Innanzitutto, punta a contrastare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. In secondo luogo, mira ad arginare l’influenza geopolitica della Cina sull’Emisfero occidentale. Vale a tal proposito la pena di ricordare che Boric, negli ultimi anni, ha notevolmente avvicinato Santiago a Pechino. Una linea che, di certo, a Washington non è stata apprezzata.
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