2024-07-20
La doppia morale delle serie Netflix. Muccioli aguzzino, Bossetti martire
«Il caso Yara - Oltre ogni ragionevole dubbio» (Ansa/Ufficio stampa Netflix)
Il metodo Neri colpisce ancora: ribaltare la realtà per fare audience. Anche su Yara.«Il principio della condanna oltre ogni ragionevole dubbio vale anche per Hannibal Lecter». Nell’anno delle verità mediatiche l’assunto non fa una piega, in fondo anche Adolf Hitler era un revisionista di sinistra. A scandire la frase a effetto fra virgolette è Gianluca Neri, ideatore e direttore della docuserie (ma sarebbe più appropriato chiamarla docufiction) sul delitto di Yara Gambirasio, in onda su Netflix con l’imbarazzante intento assolutorio nei confronti dell’assassino Massimo Bossetti. Dopo Olindo Romano e Rosa Bazzi, ecco un nuovo proto-martire costruito a tavolino, come se la verità processuale ribadita nei tre gradi di giudizio debba essere sbertucciata (non analizzata o contestata, ma sbertucciata) da necessità di audience nella lunga traversata del deserto dell’estate in tv. Le cinque puntate de Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio entrano a piedi uniti in una storia lacerante e atroce, che parla di una ragazza di 13 anni rapita per scopo di violenza, picchiata mentre tentava di divincolarsi e lasciata morire dissanguata (orrore puro) in un campo gelato a Chignolo d’Isola nella Bergamasca, nel febbraio del 2011. Sugli slip e sui leggings di Yara fu trovato un Dna nucleare sconosciuto, chiamato «Ignoto 1» dagli investigatori. Dopo tre anni di indagini e di analisi a tappeto su 23.000 persone, quel profilo fu attribuito a Bossetti. Non a un pastore sardo, a un idraulico salentino o a un turista del Wyoming ma proprio al muratore di Mapello. Per gli sceneggiatori di Netflix non basta. Esattamente come a un certo numero di granitici innocentisti social non sono bastati un testimone oculare, due confessioni e una macchia di sangue d’una vittima sull’auto dell’assassino per convincersi che Rosa e Olindo sono gli autori della strage di Erba. Il caso Yara va oltre, confonde le carte, tenta di trasformare il condannato in una vittima dell’ingiustizia cosmica, con l’effetto indotto di riaprire nella famiglia della vittima una ferita enorme. Ormai per due punti di audience siamo tutti Maigret. Ieri il professor Emiliano Giardina, docente di genetica all’Università di Tor Vergata che ha seguito il caso, ha sconfessato la docufiction: «Quella serie non dice la verità. Sul caso si continua a fare confusione per delegittimare la prova scientifica». Nell’intervista al Foglio, il responsabile della serie Gianluca Neri sottolinea che «tutti hanno diritto alla presunzione d’innocenza». Poiché quattro anni fa fu il produttore di SanPa, luci e tenebre di San Patrignano, serve precisare: tutti tranne Vincenzo Muccioli. Lui fu massacrato in un crescendo rossiniano. Descritto prima come santone perdigiorno, poi come medium da strapazzo, aguzzino, forse mandante di omicidi, evasore fiscale, guru in preda a delirio di onnipotenza con lampi di omosessualità. Tutto ciò con il risultato di colpire a freddo 25 anni dopo la San Patrignano di oggi. Massaggiare il messaggio è di gran moda: la character assassination di Muccioli riuscì perfettamente, con interviste a senso unico di gente condannata per calunnia, zoomate fra sbarre, filo spinato e colpi di pistola che uccidono i manzi in macelleria. Trovatine subliminali che comunque fruttarono un David di Donatello alla squadra Netflix.Se lo stile della casa è questo, basta rovesciare la narrazione e, oplà, Bossetti diventa una vittima della società. Quando il genetista Giardina lamenta: «Delle mie spiegazioni hanno preso soltanto la parte più banale» non si fatica a credergli. Neri sostiene che i pm assemblarono il video del furgone Daily dell’assassino che girava attorno alla palestra di Yara montando ad arte le immagini. «Peccato che fossero false, cioè ottenute tagliando e cucendo le riprese». Devono aver frequentato la sua stessa scuola di cinema.
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