2022-07-05
L'infelice e immeritata parabola artistica di «Janet Jackson» su Sky
True
In onda da giovedì 7 luglio con quattro episodi e altrettante ore di girato, il documentario sugli esordi, il successo e il declino della più piccola fra i fratelli e le sorelle di Michael Jackson.Più di un biopic, oltre il documentario celebrativo. Janet Jackson, quattro episodi e altrettante ore di girato, non è soltanto quel che un titolo semplice pare indicare, la storia di una donna diventata star. C’è altro sotteso, qualcosa capace di mettere a nudo le radici profonde del ragionare culturale. Perché più che indagare l’artista cui sembra alludere, Janet Jackson ne restituisce la parabola: gli esordi, il successo, il declino e, nel mezzo, l’artificiosità tendenziosa del tutto. Quel ciclo che per altri potrebbe essere naturale - nascere, come artista, prosperare per poi essere dimenticato e perdersi sul viale in ombra del tramonto - non ha nulla di spontaneo, non qui. Janet Jackson, la più piccola fra i fratelli e le sorelle del sempiterno Michael, non è andata incontro alle pieghe del destino. Si è scontrata con la realtà del giudizio popolare, con la volontà di cancellare la persona, la sua arte in nome di colpe vere o presunte. Un capezzolo, quella della Jackson. Il «Nipplegate», come l’hanno ribattezzato gli americani, è stato uno scandalo. Un disastro. Durante lo Show dell’Intervallo, nel Super Bowl del 2004, Justin Timberlake ha strappato parte del corpetto che proteggeva il petto della popstar. È stato un attimo, un’immagine cristallizzata nell’occhio freddo della telecamera. Un capezzolo si è fatto largo fra il nero dell’abito. «È stato un malfunzionamento del vestito», ha cercato di spiegare la Jackson. «Scusate», ha detto Justin Timberlake. Ma il gran tribunale popolare dell’opinione pubblica americana non ha perdonato, non la donna. Ci doveva essere stata premeditazione, l’intenzione manifesta di insozzare con pensieri luridi le menti di spettatori innocenti. Dovevano averlo voluto, loro, artisti schifosi. E allora, su Janet Jackson, è calato il sipario. Justin Timberlake, dopo qualche mese di scuse reiterate, è stato assolto. Ma la Jackson, proprietaria perversa del capezzolo, è sparita. La sua musica, la sua voce, l’eredità di colei che ha reso possibile l’esistenza artistica delle varie Beyoncé e Rihanna, tutto dimenticato. Eppure, nello spazio del documentario, in onda su Sky da giovedì 7 luglio, non c’è volontà apologetica. Janet Jackson non si scusa, racconta. Lo fa con la voce morbida che ha incantato il mondo, lo fa con l’aiuto di amici famosi - Samuel L. Jackson, Mariah Carey -, lo fa come a voler ristabilire una giustizia, la propria, senza perciò aspettarsi alcunché di ritorno. Janet Jackson, documentario, non ha la pesantezza di certe controffensive. Scorre veloce, ricostruendo la portata distruttiva del Nipplegate, la stortura degli oscurantismi moderni, la damnatio memoriae cui sono costretti certi artisti. Non c’è retorica, non c’è pietismo. C’è la vita, che insieme al documentario scorre. Dall’inizio, come in un biopic. È Gary, il paesino dell’Indiana in cui una piccola Janet Jackson ha vissuto fino all’età di cinque anni, ad aprire la narrazione: una casa modesta, con due sole stanze da letto, il ricordo dell’intero clan e del suo talento straordinario, che la madre per prima ha visto e il padre sfruttato. Randy, fratello di Janet, è colui che la accompagna agli albori della sua vita di donna. E parla, Janet, parla e nelle parole è contenuto tutto. La relazione con il padre, avrebbe poi silurato. Il rapporto con il fratello più famoso, il loro essere in dolce competizione, legati al punto tale da rendere Janet Jackson «Colpevole per associazione». Di nuovo, la Jackson parla senza esprimere nulla più di quello che le parole significano. Non giudica, mai. Dice, afferma. Ricorda come gli scandali sessuali, le accuse di pedofilia che hanno travolto Michael Jackson le siano piombate addosso. «Colpevole per associazione», ripete. E c’è una nota amara, l’ombra di una delusione. C’è lo spettro di un declino artistico immeritato e, nelle immagini esclusive, nelle registrazioni, nelle interviste e nei numeri, c’è tutto ciò che avrebbero dovuto combatterlo, questo declino. Janet Jackson, pioniere del pop e delle sue provocazioni, è il pezzo mancante di un mondo musicale fagocitato dallo stesso movimento – l’orribile avanzata del politicamente corretto, o presunto tale – che ha fatto sua Hollywood. Ed è penoso, a tratti, riavvolgere il nastro e riascoltarne la storia. Ma la pena, l’empatia e la compassione, alla fine del documentario (che la Jackson, con suo fratello Randy, ha prodotto), scompaiono, lasciando il passo ad altro. Una vaga speranza, racchiusa nel sorriso dell’artista, statuaria sul palco dei Billboard Music Awards.
Charlie Kirk (Getty Images). Nel riquadro Tyler Robinson