2024-07-01
Il diritto di cronaca vale solo contro la destra
Giorgia Meloni (Imagoeconomica)
«Repubblica» e «Corriere» applaudono il servizio di «Fanpage» su Gioventù nazionale e celebrano il giornalismo d’inchiesta. Peccato siano i primi ad autocensurarsi (e bollare gli altri come complottisti) se gli scoop confliggono con la narrazione dominante.C’è sempre qualcosa da imparare. Ieri, ad esempio, abbiamo appreso che «le notizie scomode fanno bene alla democrazia». Maurizio Molinari, direttore di Repubblica, lo ha scritto commentando l’operazione condotta da Fanpage su Gioventù nazionale. Un lavoro che, secondo Molinari, offre conferme «sull’indispensabile ruolo del giornalismo di qualità, che riesce a obbligare l’Italia a confrontarsi con ferite e contraddizioni che la indeboliscono dal di dentro».Il direttore di Repubblica si dice sorpreso dalla «brusca reazione della premier alle rivelazioni di Fanpage: anziché apprezzare i risultati di un’inchiesta che la può aiutare a comprendere quanto ancora c’è da fare dentro Fdi per emanciparsi dalle peggiori nostalgie del passato, Meloni ha scelto di lanciare un’invettiva contro il giornalismo d’inchiesta paragonandolo alle attività di un regime illiberale, fino al punto da chiamare in suo soccorso il Quirinale. È un approccio che stride con le sentenze che difendono il giornalismo d’inchiesta». Molinari ha più di una ragione. Non v’è dubbio che dentro Gioventù nazionale vi siano (anzi, vi fossero) alcuni dirigenti convinti di vivere in una altra epoca e di essere iscritti a ben altro partito. Ragazzi e ragazze che hanno giustamente pagato il fastidioso becerume di cui si sono riempiti la bocca. Non vi sono dubbi nemmeno sul fatto che le notizie scomode giovino alla democrazia e al dibattito pubblico. Dunque sì, Molinari ha più di una ragione. E ha ragione pure Gian Antonio Stella, magistrale firma del Corriere della Sera che ieri ha celebrato l’importanza del giornalismo di inchiesta e ha snocciolato nomi e imprese di alcuni celebri cronisti infiltrati che hanno cambiato il corso della Storia. Chi di noi, dopo tutto, non ha letto e ammirato Nellie Bly e la sua straziante inchiesta sui manicomi? E chi, ben più di recente, non ha invidiato il coraggio di Fabrizio Gatti che si è finto migrante per raccontare i viaggi della morte dalle coste africane? I corposi saggi di storia e deontologia del giornalismo che abbiamo letto ieri, tuttavia, oltre a trovarci d’accordo ci aprono alcuni preziosi spazi di riflessione in cui ci piacerebbe sostare per qualche momento. Per cominciare ci domandiamo come mai, se le notizie scomode sono davvero così importanti, Repubblica e altri ne abbiano date così poche negli ultimi anni. A noi risulta infatti che su alcuni temi - dal Covid ai conflitti in corso passando per le questioni green, le questioni gender e l’immigrazione - i prestigiosi media progressisti e liberali nostrani abbiano serenamente deciso di evitare i fatti. A chiunque osasse offrire un racconto «scomodo» (cioè non corrispondente alla narrazione dominante gradita ai governi, alla Ue, all’Oms, alla Nato, agli Stati Uniti, eccetera) gli illustri quotidiani di casa nostra hanno appiccicato la patacca di complottista, invitandolo al silenzio. Gli stessi giornali hanno insultato e screditato intellettuali e commentatori che deviavano dalla linea ufficiale, hanno insinuato dubbi persino sui premi Nobel e sui premi Pulitzer quando scrivevano qualcosa di sgradito. E come se non bastasse si sono autocensurati con piacere e hanno ignorato con gusto tutto ciò che a loro non faceva comodo. Ci viene da pensare, dunque, che le notizie scomode le amino soltanto se sono scomode per i loro nemici politici, e per la destra in particolare. Quando erano scomode per i loro referenti di governo, al contrario, si guardavano bene dal pubblicarle e anzi si premuravano di screditare quelli che avevano il fegato di stamparle. Questo è il vizio antico del giornalismo italiano: per risultare presentabile e ottenere visibilità deve schierarsi da una parte sola, deve militare sul versante giusto. Per carità, benissimo chi si intrufola a destra fingendosi un militante e registrando le svalvolate di qualche giovincello su di giri. Benissimo aver fatto dimettere un paio di ragazzine: missione compiuta, la democrazia è salva. Non ci domanderemo nemmeno quando s’infiltreranno altrove. Sappiamo già che non lo faranno mai e nemmeno ci importa. Non ci interessa più di tanto sapere che cosa pensino degli ebrei a sinistra, o che cosa si dicano di fronte a una birra i dirigenti del Pd e di Avs. Ci basta vedere che cosa fanno e dicono pubblicamente per giudicarli, ci basta vedere chi candidano al Parlamento europeo e chi hanno portato nel Parlamento italiano. Non ci interessa più di tanto sapere chi dice bestialità: ci accontentiamo che venga allo scoperto chi le compie. Ringraziamo comunque i più autorevoli colleghi per le lezioni di giornalismo, soprattutto per la lezione che non hanno scritto esplicitamente ma che emerge chiara dai loro densi editoriali. E cioè che sono tutti grandi giornalisti quando non c’è nulla da rischiare e si può colpire il nemico ideologico. Un po’ meno quando tocca mettere in discussione i propri riferimenti. Il New York Times insegna: facile sputare su Biden quando si è reso indifendibile; un filo più rischioso farlo prima quando tutti cercavano di nascondere le sue drammatiche difficoltà. Così agisce il più famoso giornale del mondo: figuratevi Fanpage.
(Ansa)
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