2022-11-15
«Dead to me», la serie che va oltre la retorica di genere
True
«Dead to me» (Netflix)
La serie Netflix, la cui terza e ultima stagione debutterà online giovedì 17 novembre, è una storia di contrari, dove poco è quel che l’apparenza parrebbe suggerire. Judy Hale, una stralunata ed efficacissima Linda Cardellini, con la sua frangia sbarazzina e gli occhi grandi di eterna bambina, è il primo polo di un romanzo complesso, reso più intrigante da un caso di stalking (al femminile, nel ribaltamento – oggi prezioso – dei ruoli di genere), da un omicidio, dal tentativo goffo di insabbiarlo.
La serie Netflix, la cui terza e ultima stagione debutterà online giovedì 17 novembre, è una storia di contrari, dove poco è quel che l’apparenza parrebbe suggerire. Judy Hale, una stralunata ed efficacissima Linda Cardellini, con la sua frangia sbarazzina e gli occhi grandi di eterna bambina, è il primo polo di un romanzo complesso, reso più intrigante da un caso di stalking (al femminile, nel ribaltamento – oggi prezioso – dei ruoli di genere), da un omicidio, dal tentativo goffo di insabbiarlo.Dead to me, a un occhio superficiale, potrebbe sembrare una serie fra tante. Banale, pure, con quella sua trama incentrata su un idillio al femminile, sull’amicizia fra due donne sprovviste di marito. Verrebbe quasi da mettersi le mani nei capelli, come a presagire il lento incedere di una retorica ormai trita, sapientemente costruita attorno alle (stucchevoli) rivendicazioni di indipendenza rosa. Con fortuna ed eccezionalità, però, Dead to me non è stata sacrificata all’ovvio, per quanto appetibile (almeno a Hollywood) questo ovvio possa essere. La serie Netflix, la cui terza e ultima stagione debutterà online giovedì 17 novembre, è una storia di contrari, dove poco è quel che l’apparenza parrebbe suggerire. Judy Hale, una stralunata ed efficacissima Linda Cardellini, con la sua frangia sbarazzina e gli occhi grandi di eterna bambina, è il primo polo di un romanzo complesso, reso più intrigante da un caso di stalking (al femminile, nel ribaltamento – oggi prezioso – dei ruoli di genere), da un omicidio, dal tentativo goffo di insabbiarlo. Ha ucciso il marito di Jen Harding, Judy Hale. Lo ha tirato sotto con la macchina, e non si è presa la briga di fermarsi a soccorrerlo. È scappata, ma il senso di colpa non l’ha portata lontano. Anzi. Erosa dai dubbi, dalla consapevolezza delle proprie responsabilità, dall’idea di aver sconquassato uan famiglia di quattro, lasciando una donna ad occuparsi di due figli, Judy Hale ha deciso di farsi amica la moglie dell’uomo che ha ucciso, una straordinaria Christina Applegate. Si sarebbe lavata la coscienza, l’avrebbe aiutata a rimettere insieme i cocci della propria vita spezzata e, nel frattempo, avrebbe manipolato la poveretta così da allontanare ogni eventuale indizio di colpevolezza. La prima stagione dello show, le cui riprese avrebbero dovuto concludersi definitivamente nel corso dell’estate 2021, ha raccontato questo: un idillio apparente, una necessità fra le più egoistiche, un’amicizia di facciata. La seconda, poi, ha aumentato il carico. Judy Hale è stata smascherata, Jen Harding ha perso la testa. Un altro omicidio ha segnato il rapporto fra le due, un rapporto che la terza stagione di Dead to me ha promesso di chiarire una volta per tutte. Il capitolo finale della serie tv, un capitolo nel quale la Applegate ha deciso di tornare nonostante la diagnosi di sclerosi multipla e le conseguenti difficoltà della malattia, è stato anticipato da una breve sinossi. Netflix ha scritto di «colpi di scena scioccanti, svolte inaspettate», del tipo di «risate che puoi condividere solo con il tuo migliore amico». Ha anticipato un ritrovarsi, un bisogno che, nella terza e ultima parte dello show, sia motore di un legame sincero. Judy Hale e Jen Harding si riuniranno. Per coprirsi, per spalleggiarsi, per restituire al rapporto fra donne una sua tridimensionalità, qualcosa che – finalmente – sappia andare oltre la retorica di genere.
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