2025-04-08
Il tema della Difesa già in secondo piano. L’ipotesi recessione seppellisce il Rearm
Emmanuel Macron (Getty Images)
Le tariffe cambiano le priorità: via l’elmetto, tutta l’attenzione sul commercio. Riflessi in Borsa per Rheinmetall e Leonardo.Una delle prime vittime dei dazi imposti da Donald Trump sull'Unione europea è il piano di riarmo lanciato da Ursula von der Leyen. Dopo la tassa costituita dalla salita dei rendimenti obbligazionari europei a seguito dell'annuncio del Rearm Eu (poi ribattezzato più prudentemente Readiness 2030) ora il comparto delle industrie europee della difesa subisce il contraccolpo delle aspettative negative innescate dai dazi reciproci decisi dalla Casa Bianca la scorsa settimana. Alla borsa di Francoforte la maggiore industria tedesca nel campo degli armamenti, Rheinmetall, ha toccato un minimo a 940 euro, dopo che venerdì aveva chiuso a 1.276 euro, con un calo del 26% e azzerando tutti i guadagni di marzo. Poi il titolo si è ripreso nel pomeriggio, arrivando a chiudere a 1.244, in calo del 2,5%. In apertura sono crollati anche altri due titoli tedeschi legati ai sistemi di difesa: Hensoldt, che ha toccato un minimo a -15% e ha chiuso a -2,34% rispetto a venerdì, e Mtu Aero Eng ines, che ha chiuso invece a -6,39%. In calo anche titoli francesi come Dassault (-5,18%) e Thales, che è scesa di oltre il 4,2%. In Italia, Leonardo ha chiuso a -3,32% dopo un’apertura da brivido a -14%. Giù anche i titoli britannici del settore. Tutti i titoli hanno aperto malissimo per poi recuperare nel pomeriggio, sulle voci di una sospensione di tre mesi dei dazi americani, poi smentita dalla Casa Bianca.Sul mercato in calo fioccano le ipotesi sulle conseguenze dei dazi sull’economia mondiale, con la gran parte degli osservatori che propende per una recessione globale, con accenti diversi. Il comparto della difesa, che era salito molto negli ultimi due mesi a seguito delle discussioni con gli Stati Uniti sulla questione ucraina e sul riarmo europeo, aveva retto bene all’annuncio dei dazi americani. Ma la ritorsione cinese, che ha deciso contro-dazi del 34%, ha fatto precipitare la situazione innescando timori di una dura guerra commerciale.I mercati temono il muro contro muro e gli andamenti delle borse di venerdì e di oggi lo testimoniano. Al di là delle dichiarazioni di facciata di Bruxelles e delle capitali del Nord Europa, è probabile che Parigi e Berlino stiano già trattando sottotraccia con gli Stati Uniti per cercare di alleviare il carico imposto sull’export.Ma non sono solo i rischi di recessione, veri o presunti, a guidare il calo nei valori di borsa del comparto della difesa. Il vero potere che Donald Trump sta esercitando, in questo momento, è quello di imporre la propria agenda a tutto il mondo. Così come il tema della difesa era considerato prioritario e urgente sino al 1° aprile, dal 2 aprile il punto fondamentale nell’agenda è diventato il commercio globale e la difesa è passata in secondo piano.Questo anche perché l’ipotesi di una recessione globale si scontra oggettivamente con l’idea del riarmo europeo. Oggi l’unico Stato dell’Unione europea che può fare massicci investimenti in armamenti è la Germania, cosa che peraltro creerebbe una pericolosa asimmetria interna all’Europa. Gli altri Paesi dovrebbero stornare fondi destinati ad altro (come i fondi di coesione), cosa che l’Italia, come ha già detto il presidente del consiglio Giorgia Meloni, non farà. Oppure, anzi in aggiunta, occorrerà sospendere il Patto di stabilità e le regole sul divieto di aiuti di Stato. Solo per decidere di investire, l’Unione europea deve sospendere o abolire regole che ingessano l’azione degli Stati e impediscono di agire. Già da qui si percepisce la distanza tra Washington e Bruxelles.La prospettiva di una recessione richiede la possibilità di fare interventi anti-ciclici, cioè di investire per sostenere la domanda interna e le industrie nazionali, ma gli investimenti in armamenti in Europa non hanno un moltiplicatore molto favorevole. Dati gli spazi fiscali ristretti, è difficile che l’Unione possa sostenere un serio programma di riarmo in quelle condizioni. In realtà, anche allentando le regole europee su deficit e debito, sui mercati finanziari si rovescerebbe una massa enorme di obbligazioni, e non è detto che il mercato sia disposto ad acquistarle, se non a tassi più alti di quelli attuali. In più, i due grandi Paesi che spingono per il riarmo, cioè Francia e Germania, sono in preda ad una crisi politica senza precedenti. Il raccogliticcio governo messo in piedi a Parigi da Emmanuel Macron si regge a stento e il cancelliere in pectore Friedrich Merz, non ancora in carica, vede la Cdu già in crisi di consenso, con Alternative für Deutschland che nei sondaggi è a un passo dall’essere il primo partito in Germania.La serietà e la fattibilità del piano europeo di riarmo devono fare i conti con il ruolo primario esercitato nell’economia dagli Stati Uniti e dal dollaro. Gli scossoni cui stiamo assistendo sul mercato mostrano che nei momenti di crisi il sistema finanziario si rivolge al dollaro, non certo all’euro. Il calo dei rendimenti dei titoli del tesoro americano, asset molto liquido e considerato sicuro, lo testimonia. Infatti l’euro, che nei giorni scorsi aveva guadagnato sulla divisa americana, ieri è tornato a scendere riportandosi verso 1,09. Nonostante le roboanti dichiarazioni di Macron, Merz e Von der Leyen, insomma, l’influenza che Washington esercita sulla sfera europea è ben lontana dall’affievolirsi. It’s the economy, Ursula.
Giancarlo Giorgetti (Ansa)
Giorgetti ha poi escluso la possibilità di una manovra correttiva: «Non c'è bisogno di correggere una rotta che già gli arbitri ci dicono essere quella rotta giusta» e sottolinea l'obiettivo di tutelare e andare incontro alle famiglie e ai lavoratori con uno sguardo alle famiglie numerose». Per quanto riguarda l'ipotesi di un intervento in manovra sulle banche ha detto: «Io penso che chiunque faccia l'amministratore pubblico debba valutare con attenzione ogni euro speso dalla pubblica amministrazione. Però queste sono valutazioni politiche, ribadisco che saranno fatte solo quando il quadro di priorità sarà definito e basta aspettare due settimane».
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Il direttore generale di Renexia Riccardo Toto e il direttore de La Verità Maurizio Belpietro
Toto ha presentato il progetto di eolico offshore galleggiante al largo delle coste siciliane, destinato a produrre circa 2,7 gigawatt di energia rinnovabile. Un’iniziativa che, secondo il direttore di Renexia, rappresenta un’opportunità concreta per creare nuova occupazione e una filiera industriale nazionale: «Stiamo avviando una fabbrica in Abruzzo che genererebbe 3.200 posti di lavoro. Le rinnovabili oggi sono un’occasione per far partire un mercato che può valere fino a 45 miliardi di euro di valore aggiunto per l’economia italiana».
L’intervento ha sottolineato l’importanza di integrare le rinnovabili nel mix energetico, senza prescindere dal gas, dalle batterie e in futuro anche dal nucleare: elementi essenziali non solo per la sicurezza energetica ma anche per garantire crescita e competitività. «Non esiste un’economia senza energia - ha detto Toto - È utopistico pensare di avere solo veicoli elettrici o di modificare il mercato per legge». Toto ha inoltre evidenziato la necessità di una decisione politica chiara per far partire l’eolico offshore, con un decreto che stabilisca regole precise su dove realizzare i progetti e investimenti da privilegiare sul territorio italiano, evitando l’importazione di componenti dall’estero. Sul decreto Fer 2, secondo Renexia, occorre ripensare i tempi e le modalità: «Non dovrebbe essere lanciato prima del 2032. Serve un piano che favorisca gli investimenti in Italia e la nascita di una filiera industriale completa». Infine, Toto ha affrontato il tema della transizione energetica e dei limiti imposti dalla legislazione internazionale: la fine dei motori a combustione nel 2035, ad esempio, appare secondo lui irrealistica senza un sistema energetico pronto. «Non si può pensare di arrivare negli Usa con aerei a idrogeno o di avere un sistema completamente elettrico senza basi logiche e infrastrutturali solide».
L’incontro ha così messo in luce le opportunità dell’eolico offshore come leva strategica per innovazione, lavoro e crescita economica, sottolineando l’urgenza di politiche coerenti e investimenti mirati per trasformare l’Italia in un hub energetico competitivo in Europa.
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Da sinistra, Leonardo Meoli (Group Head of Sustainability Business Integration), Marzia Ravanelli (direttrice Quality & Sustainability) di Bonifiche Feraresi, Giuliano Zulin (La Verità) e Nicola Perizzolo (project engineer)
Al panel su Made in Italy e sostenibilità, moderato da Giuliano Zulin, vicedirettore de La Verità, tre grandi realtà italiane si sono confrontate sul tema della transizione sostenibile: Bonifiche Ferraresi, la più grande azienda agricola italiana, Barilla, colosso del food, e Generali, tra i principali gruppi assicurativi europei. Tre prospettive diverse – la terra, l’industria alimentare e la finanza – che hanno mostrato come la sostenibilità, oggi, sia al centro delle strategie di sviluppo e soprattutto della valorizzazione del Made in Italy. «Non sono d’accordo che l’agricoltura sia sempre sostenibile – ha esordito Marzia Ravanelli, direttrice del Gruppo Quality & Sustainability di Bonifiche Ferraresi –. Per sfamare il pianeta servono produzioni consistenti, e per questo il tema della sostenibilità è diventato cruciale. Noi siamo partiti dalla terra, che è la nostra anima e la nostra base, e abbiamo cercato di portare avanti un modello di valorizzazione del Made in Italy e del prodotto agricolo, per poi arrivare anche al prodotto trasformato. Il nostro obiettivo è sempre stato quello di farlo nel modo più sostenibile possibile».
Per Bf, quotata in Borsa e con oltre 11.000 ettari coltivati, la sostenibilità passa soprattutto dall’innovazione. «Attraverso l’agricoltura 4.0 – ha spiegato Ravanelli – siamo in grado di dare al terreno solo quello di cui ha bisogno, quando ne ha bisogno. Così riduciamo al minimo l’uso delle risorse: dall’acqua ai fitofarmaci. Questo approccio è un grande punto di svolta: per anni è stato sottovalutato, oggi è diventato centrale». Ma non si tratta solo di coltivare. L’azienda sta lavorando anche sull’energia: «Abbiamo dotato i nostri stabilimenti di impianti fotovoltaici e stiamo realizzando un impianto di biometano a Jolanda di Savoia, proprio dove si trova la maggior parte delle nostre superfici agricole. L’agricoltura, oltre a produrre cibo, può produrre energia, riducendo i costi e aumentando l’autonomia. È questa la sfida del futuro». Dall’agricoltura si passa all’industria alimentare.
Nicola Perizzolo, project engineer di Barilla, ha sottolineato come la sostenibilità non sia una moda, ma un percorso strutturale, con obiettivi chiari e risorse ingenti. «La proprietà, anni fa, ha preso una posizione netta: vogliamo essere un’azienda di un certo tipo e fare business in un certo modo. Oggi questo significa avere un board Esg che definisce la strategia e un piano concreto che ci porterà al 2030, con un investimento da 168 milioni di euro».Non è un impegno “di facciata”. Perizzolo ha raccontato un esempio pratico: «Quando valutiamo un investimento, per esempio l’acquisto di un nuovo forno per i biscotti, inseriamo nei costi anche il valore della CO₂ che verrà emessa. Questo cambia le scelte: non prendiamo più il forno standard, ma pretendiamo soluzioni innovative dai fornitori, anche se più complicate da gestire. Il risultato è che consumiamo meno energia, pur garantendo al consumatore lo stesso prodotto. È stato uno stimolo enorme, altrimenti avremmo continuato a fare quello che si è sempre fatto».
Secondo Perizzolo, la sostenibilità è anche una leva reputazionale e sociale: «Barilla è disposta ad accettare tempi di ritorno più lunghi sugli investimenti legati alla sostenibilità. Lo facciamo perché crediamo che ci siano benefici indiretti: la reputazione, l’attrattività verso i giovani, la fiducia dei consumatori. Gli ingegneri che partecipano alle selezioni ci chiedono se quello che dichiariamo è vero. Una volta entrati, verificano con mano che lo è davvero. Questo fa la differenza».
Se agricoltura e industria alimentare sono chiamate a garantire filiere più pulite e trasparenti, la finanza deve fare la sua parte nel sostenerle. Leonardo Meoli, Group Head of Sustainability Business Integration di Generali, ha ricordato come la compagnia assicurativa lavori da anni per integrare la sostenibilità nei modelli di business: «Ogni nostra attività viene valutata sia dal punto di vista economico, sia in termini di impatto ambientale e sociale. Abbiamo stanziato 12 miliardi di euro in tre anni per investimenti legati alla transizione energetica, e siamo molto focalizzati sul supporto alle imprese e agli individui nella resilienza e nella protezione dai rischi climatici». Il mercato, ha osservato Meoli, risponde positivamente: «Vediamo che i volumi dei prodotti assicurativi con caratteristiche ESG crescono, soprattutto in Europa e in Asia. Ma è chiaro che non basta dire che un prodotto è sostenibile: deve anche garantire un ritorno economico competitivo. Quando riusciamo a unire le due cose, il cliente risponde bene».
Dalle parole dei tre manager emerge una convinzione condivisa: la sostenibilità non è un costo da sopportare, ma un investimento che rafforza la competitività del Made in Italy. «Non si tratta solo di rispettare regole o rincorrere mode – ha sintetizzato Ravanelli –. Si tratta di creare un modello di sviluppo che tenga insieme produzione, ambiente e società. Solo così possiamo guardare al futuro».In questo incrocio tra agricoltura, industria e finanza, il Made in Italy trova la sua forza. Il marchio non è più soltanto sinonimo di qualità e tradizione, ma sempre di più di innovazione e responsabilità. Dalle campagne di Jolanda di Savoia ai forni di Mulino Bianco, fino alle grandi scelte di investimento globale, la transizione passa per la capacità delle imprese italiane di essere sostenibili senza smettere di essere competitive. È la sfida del presente, ma soprattutto del futuro.
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