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2019-12-18
Dai pm nessun sequestro pro risparmiatori
Ansa
Un fascicolo per ogni segnalazione. Dieci indagati in tutto. Nessun sequestro preventivo di somme o di patrimonio, per mettere al riparo vittime e denuncianti, almeno per ora. E sette inchieste che cercano di far luce sul crac della Banca popolare di Bari, per quasi 50 anni considerata la più grossa cassaforte del Sud Italia (nata il 16 marzo 1960 nello studio notarile Carbone a Bari), con il suo camaleontico portafoglio clienti e impieghi erogati che sfiorano il 10 per cento di tutti i prestiti concessi tra Puglia e Basilicata (le roccaforti della Popolare), tutte coordinate dal procuratore aggiunto Roberto Rossi. Lo stesso magistrato che ieri ha fatto acquisire una registrazione audio pubblicata da Fanpage con i dialoghi di un incontro avvenuto il 10 dicembre scorso tra dirigenti e i preposti delle filiali solo pochi giorni prima del commissariamento della banca. «Non c'è rischio di commissariamento. Entro Natale la banca sarà salva». Gianvito Giannelli e Vincenzo De Bustis, presidente e amministratore delegato, prendono la parola in una riunione. Mancano tre giorni alla decisione di Bankitalia sul commissariamento e cinque al cdm che ha deciso per il salvataggio attraverso un esborso complessivo di 900 milioni di euro. La Procura ha ritenuto la registrazione di interesse investigativo. E il documento finirà in uno dei fascicoli aperti. Probabilmente in uno degli ultimi due più freschi, quello per una segnalazione della Consob. L'altra indagine è stata avviata invece dopo l'esposto di un azionista. Le altre cinque inchieste sono invece in fase avanzata. Una è anche già chiusa. E vanno indietro fino al 2010. Nove anni di fidi per milioni di euro concessi, a parere degli investigatori, senza troppe garanzie. E per nascondere nei bilanci quei buchi, che stavano diventando dei crateri, sarebbero stati venduti titoli a rischio a contribuenti poco esperti di materia bancaria e di finanza. A inciampare nel presunto inganno sarebbero stati in maggioranza i pensionati che, fidandosi del Titanic bancario che sembrava inaffondabile, avrebbero deciso di investire le loro liquidazioni o i risparmi di una vita.
Una delle indagini è concentrata su una sospetta operazione di rafforzamento del capitale: una carta giocata da Bpb con una emissione obbligazionaria da 30 milioni di euro da far sottoscrivere a una società maltese. Ma che non si è concretizzata, creando ulteriori rumori attorno al board dell'istituto di credito. C'è poi quella di cui qualche settimana fa hanno avuto notizia gli indagati, ai quali la Procura ha fatto notificare un avviso di garanzia: tra loro ci sono De Bustis e l'ex presidente Marco Jacobini. Una fetta dell'inchiesta è finita in archivio un anno fa e l'ipotesi di associazione a delinquere finalizzata a truffare i correntisti è andata a farsi benedire. Le indagini della Guardia di finanza sono invece andate avanti sulle altre ipotesi: soprattutto sulle presunte comunicazioni alla Consob di bilanci poco chiari, sulla quantificazione dei crediti e sull'acquisizione di Banca Tercas. L'inchiesta sulla presunta truffa aggravata da 130.000 euro ai danni di una anziana contribuente, che sarebbe stata commessa nove anni fa dall'allora presidente Jacobini, dall'ex direttore generale, oggi ad, De Bustis, dall'ex amministratore delegato, Giorgio Papa e due quadri dell'istituto di credito, Alessandra Silletti e Alfonsa Zotti, invece, è chiusa. E l'avviso di conclusione delle indagini è stato già notificato già da qualche tempo. La ricostruzione dei pm è questa: «Con artifizi e raggiri (...) approfittando della particolare situazione di vulnerabilità della parte offesa, l'avrebbero indotta ad acquistare prodotti finanziari a elevata rischiosità».
Altro fascicolo: risale a luglio la notizia di perquisizioni nella sede della direzione generale della Bpb per il fallimento di due società del gruppo Fusillo di Noci, in provincia di Bari. Le indagini «hanno consentito di far emergere il ruolo della Popolare di Bari», sostennero all'epoca gli investigatori, «quale principale creditore delle imprese sottoposte a procedura concorsuale, risultate esposte con l'istituto per una cifra di poco inferiore ai 140 milioni di euro, a seguito delle ingenti linee di credito elargite». In questo caso il board della banca non è oggetto delle indagini. Ma per gli azionisti questa vicenda ha un peso, perché nel marzo 2019 sarebbero state accordate alle società decotte nuovi finanziamenti per 40 milioni di euro.
E, infine, c'è il fascicolo trasmesso per competenza da Bari a Roma, che riguarda il Bari Calcio: la società sportiva, secondo l'accusa, con la complicità di alcuni funzionari Bpb, per evitare una penalità per la squadra fornirono documenti retrodatati alla Commissione di vigilanza sulle società di calcio professionistiche.
Fabio Amendolara
Commissione, Lannutti spera in Grillo. Ma il figlio bancario può azzopparlo
Fino a qualche giorno fa, sembrava più inamovibile di Lionel Messi. Del resto, un bomber come lui non si vede in tutto l'arco parlamentare: banche, grand commis di Stato, poteri fortissimi. Elio Lannutti è sempre lì, in prima fila, a dardeggiare contro i felloni che stanno riducendo l'Italia in macerie. Già arcigno paladino dei consumatori, si definisce la memoria storica di tutti i crac bancari. Ha scritto due scoppiettanti libri d'inchiesta: Morte dei Paschi, sullo scandalo dell'istituto toscano, e Banda d'Italia, indovinato calembour, sui misfatti di Via Nazionale. Nessuno, più di lui, meritava dunque di guidare la nascitura Commissione bicamerale d'inchiesta sulle banche. Il suo nome sembrava già scritto nella pietra. Fino a ieri, quando il vice presidente del Senato, Roberto Calderoli, ha annunciato che tutto è rinviato a data da destinarsi. Sulla scelta del presidente che dovrà guidare il battagliero organismo non c'è ancora accordo.
Ma come? I giallorossi hanno la sorte di trovarsi Lannutti in squadra e lo lasciano in panchina? Certo, su quello scranno non lo volevano in tanti, è vero. E il senatore dei 5 stelle c'ha pure messo del suo. Con un'intervista sulla Stampa, destinatari i riottosi colleghi, ha chiarito: «Io non mi sfilo da un bel niente. E nessuno mi ha chiesto un passo indietro. È stato il gruppo a volermi. E Di Maio nell'ultima assemblea, a mia precisa domanda ha risposto: “Vai avanti"». Il leader del Movimento ieri era in Libia, impegnato in una delicatissima missione. Ma alcune fonti pentastellate lo descrivono piuttosto infastidito da quelle dichiarazioni, che sanno di autoblindatura. Tanto che fonti del partito chiariscono: «Il nome del presidente sarà frutto di un accordo di maggioranza». Tradotto, va cercata la convergenza con il Pd e Iv, che Lannutti non lo vogliono.
Giornata convulsa, quella di ieri. A un certo punto, come d'uso nelle migliori famiglie politiche, una manina di colore indefinito, c'è chi dice color scarlatto e chi ocra, mette in giro una notizia: Alessio Lannutti, figliolo del senatore, lavora nell'ufficio che si occupa dei rapporti con gli enti pubblici nella sede romana della Banca popolare di Bari. Ovvero, è alle dipendenze proprio dell'istituto al centro del commissariamento governativo. Pd e Italia viva si fregano le mani, urlando al conflitto d'interessi. Lannutti senior s'imbufalisce: «Dov'è il conflitto di interessi? Andate a vedere il conflitto di interessi di coloro che hanno fatto i crac e non di uno che lavora onestamente. Vi dovete vergognare! Di Pietro mi difenda anche da questo!». Già perché ieri, ad accompagnarlo in visita da Beppe Grillo disceso a Roma, è apparso perfino il Tonino nazionale: in veste d'avvocato, sarà lui a tutelarne l'onore nelle opportune sedi. Intanto, l'ex presidente dell'Adusbef rievoca la macchina del fango: «Alessio è stato giornalista parlamentare, si è laureato con 110 e lode, l'hanno licenziato e gli ho sconsigliato di continuare a fare il giornalista. Ha trovato lavoro come impiegato».
Gli alleati non si inteneriscono. Il turborenziano Luigi Marattin va giù duro: «Serve un presidente che non sia lui. Mi accontento di uno che sappia distinguere il bilancio di una banca da una pentola a pressione». Non meno scoppiettanti le parole del dem Emanuele Fiano, che ritira fuori un vecchio tweet del senatore pentastellato sui Protocolli dei Savi Anziani di Sion: «Di Maio deve dichiarare nero su bianco che uno così non può guidare la Commissione banche. Sicuramente non avrà i nostri voti». Di fronte alle accuse su quel vecchio cinguettio, l'interessato annuncia però furibonde querele: «Mi sono scusato il giorno dopo. Ora basta. Ho pronte le denunce contro chi mi accusa di essere antisemita. Forse mi attaccano per paura. Perché io so». Cosa? Il nome dei colpevoli di tutti i crac bancari, che hanno funestato i risparmiatori italiani dal 2001 a oggi. Ergo: il suo nome fa paura.
Il problema, per l'arrembante senatore, è che il suo nome comincia a far paura anche al Movimento. Lui si trincera dietro l'appoggio del fondatore, Beppe Grillo, calato proprio ieri nella capitale per sedare gli animi pentastellati, messi a dura prova dai tre senatori che hanno lasciato e dalle voci di nuovi e imminenti addii. Ieri l'«Elevato» ha trovato il tempo per incontrare Lannutti, giunto assieme a Di Pietro in versione principe del foro. Di Maio sembra però aver sacrificato l'avversata candidatura, sull'altare dei difficilissimi equilibri giallorossi. Filtrano già alcune alternative, come il deputato Alvise Maniero. Oppure la presidente della commissione Finanze della Camera, Carla Ruocco. O il questore del Senato, Laura Bottici. A fianco del paladino dei consumatori rimane solo l'ala dura e pura.
Il destino del fustigatore, suo malgrado, sembra ormai segnato.
Antonio Rossitto
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Sono ben sette le inchieste che cercano di fare luce sui prestiti allegri e la vendita di prodotti finanziari rischiosi ai pugliesi. Gli inquirenti, però, non hanno ancora bloccato né somme di denaro né immobili come forma di tutela per i clienti gabbati.Il senatore Elio Lannutti da Beppe Grillo a chiedere sostegno Una manina, però, svela che l'erede lavora nell'istituto in crisi. Lui resiste: «Non c'è conflitto di interessi». I gruppi M5s sono pronti a votare un nome di intesa con il Pd.Lo speciale contiene due articoliUn fascicolo per ogni segnalazione. Dieci indagati in tutto. Nessun sequestro preventivo di somme o di patrimonio, per mettere al riparo vittime e denuncianti, almeno per ora. E sette inchieste che cercano di far luce sul crac della Banca popolare di Bari, per quasi 50 anni considerata la più grossa cassaforte del Sud Italia (nata il 16 marzo 1960 nello studio notarile Carbone a Bari), con il suo camaleontico portafoglio clienti e impieghi erogati che sfiorano il 10 per cento di tutti i prestiti concessi tra Puglia e Basilicata (le roccaforti della Popolare), tutte coordinate dal procuratore aggiunto Roberto Rossi. Lo stesso magistrato che ieri ha fatto acquisire una registrazione audio pubblicata da Fanpage con i dialoghi di un incontro avvenuto il 10 dicembre scorso tra dirigenti e i preposti delle filiali solo pochi giorni prima del commissariamento della banca. «Non c'è rischio di commissariamento. Entro Natale la banca sarà salva». Gianvito Giannelli e Vincenzo De Bustis, presidente e amministratore delegato, prendono la parola in una riunione. Mancano tre giorni alla decisione di Bankitalia sul commissariamento e cinque al cdm che ha deciso per il salvataggio attraverso un esborso complessivo di 900 milioni di euro. La Procura ha ritenuto la registrazione di interesse investigativo. E il documento finirà in uno dei fascicoli aperti. Probabilmente in uno degli ultimi due più freschi, quello per una segnalazione della Consob. L'altra indagine è stata avviata invece dopo l'esposto di un azionista. Le altre cinque inchieste sono invece in fase avanzata. Una è anche già chiusa. E vanno indietro fino al 2010. Nove anni di fidi per milioni di euro concessi, a parere degli investigatori, senza troppe garanzie. E per nascondere nei bilanci quei buchi, che stavano diventando dei crateri, sarebbero stati venduti titoli a rischio a contribuenti poco esperti di materia bancaria e di finanza. A inciampare nel presunto inganno sarebbero stati in maggioranza i pensionati che, fidandosi del Titanic bancario che sembrava inaffondabile, avrebbero deciso di investire le loro liquidazioni o i risparmi di una vita. Una delle indagini è concentrata su una sospetta operazione di rafforzamento del capitale: una carta giocata da Bpb con una emissione obbligazionaria da 30 milioni di euro da far sottoscrivere a una società maltese. Ma che non si è concretizzata, creando ulteriori rumori attorno al board dell'istituto di credito. C'è poi quella di cui qualche settimana fa hanno avuto notizia gli indagati, ai quali la Procura ha fatto notificare un avviso di garanzia: tra loro ci sono De Bustis e l'ex presidente Marco Jacobini. Una fetta dell'inchiesta è finita in archivio un anno fa e l'ipotesi di associazione a delinquere finalizzata a truffare i correntisti è andata a farsi benedire. Le indagini della Guardia di finanza sono invece andate avanti sulle altre ipotesi: soprattutto sulle presunte comunicazioni alla Consob di bilanci poco chiari, sulla quantificazione dei crediti e sull'acquisizione di Banca Tercas. L'inchiesta sulla presunta truffa aggravata da 130.000 euro ai danni di una anziana contribuente, che sarebbe stata commessa nove anni fa dall'allora presidente Jacobini, dall'ex direttore generale, oggi ad, De Bustis, dall'ex amministratore delegato, Giorgio Papa e due quadri dell'istituto di credito, Alessandra Silletti e Alfonsa Zotti, invece, è chiusa. E l'avviso di conclusione delle indagini è stato già notificato già da qualche tempo. La ricostruzione dei pm è questa: «Con artifizi e raggiri (...) approfittando della particolare situazione di vulnerabilità della parte offesa, l'avrebbero indotta ad acquistare prodotti finanziari a elevata rischiosità». Altro fascicolo: risale a luglio la notizia di perquisizioni nella sede della direzione generale della Bpb per il fallimento di due società del gruppo Fusillo di Noci, in provincia di Bari. Le indagini «hanno consentito di far emergere il ruolo della Popolare di Bari», sostennero all'epoca gli investigatori, «quale principale creditore delle imprese sottoposte a procedura concorsuale, risultate esposte con l'istituto per una cifra di poco inferiore ai 140 milioni di euro, a seguito delle ingenti linee di credito elargite». In questo caso il board della banca non è oggetto delle indagini. Ma per gli azionisti questa vicenda ha un peso, perché nel marzo 2019 sarebbero state accordate alle società decotte nuovi finanziamenti per 40 milioni di euro. E, infine, c'è il fascicolo trasmesso per competenza da Bari a Roma, che riguarda il Bari Calcio: la società sportiva, secondo l'accusa, con la complicità di alcuni funzionari Bpb, per evitare una penalità per la squadra fornirono documenti retrodatati alla Commissione di vigilanza sulle società di calcio professionistiche.Fabio Amendolara<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/dai-pm-nessun-sequestro-pro-risparmiatori-2641628694.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="commissione-lannutti-spera-in-grillo-ma-il-figlio-bancario-puo-azzopparlo" data-post-id="2641628694" data-published-at="1765811196" data-use-pagination="False"> Commissione, Lannutti spera in Grillo. Ma il figlio bancario può azzopparlo Fino a qualche giorno fa, sembrava più inamovibile di Lionel Messi. Del resto, un bomber come lui non si vede in tutto l'arco parlamentare: banche, grand commis di Stato, poteri fortissimi. Elio Lannutti è sempre lì, in prima fila, a dardeggiare contro i felloni che stanno riducendo l'Italia in macerie. Già arcigno paladino dei consumatori, si definisce la memoria storica di tutti i crac bancari. Ha scritto due scoppiettanti libri d'inchiesta: Morte dei Paschi, sullo scandalo dell'istituto toscano, e Banda d'Italia, indovinato calembour, sui misfatti di Via Nazionale. Nessuno, più di lui, meritava dunque di guidare la nascitura Commissione bicamerale d'inchiesta sulle banche. Il suo nome sembrava già scritto nella pietra. Fino a ieri, quando il vice presidente del Senato, Roberto Calderoli, ha annunciato che tutto è rinviato a data da destinarsi. Sulla scelta del presidente che dovrà guidare il battagliero organismo non c'è ancora accordo. Ma come? I giallorossi hanno la sorte di trovarsi Lannutti in squadra e lo lasciano in panchina? Certo, su quello scranno non lo volevano in tanti, è vero. E il senatore dei 5 stelle c'ha pure messo del suo. Con un'intervista sulla Stampa, destinatari i riottosi colleghi, ha chiarito: «Io non mi sfilo da un bel niente. E nessuno mi ha chiesto un passo indietro. È stato il gruppo a volermi. E Di Maio nell'ultima assemblea, a mia precisa domanda ha risposto: “Vai avanti"». Il leader del Movimento ieri era in Libia, impegnato in una delicatissima missione. Ma alcune fonti pentastellate lo descrivono piuttosto infastidito da quelle dichiarazioni, che sanno di autoblindatura. Tanto che fonti del partito chiariscono: «Il nome del presidente sarà frutto di un accordo di maggioranza». Tradotto, va cercata la convergenza con il Pd e Iv, che Lannutti non lo vogliono. Giornata convulsa, quella di ieri. A un certo punto, come d'uso nelle migliori famiglie politiche, una manina di colore indefinito, c'è chi dice color scarlatto e chi ocra, mette in giro una notizia: Alessio Lannutti, figliolo del senatore, lavora nell'ufficio che si occupa dei rapporti con gli enti pubblici nella sede romana della Banca popolare di Bari. Ovvero, è alle dipendenze proprio dell'istituto al centro del commissariamento governativo. Pd e Italia viva si fregano le mani, urlando al conflitto d'interessi. Lannutti senior s'imbufalisce: «Dov'è il conflitto di interessi? Andate a vedere il conflitto di interessi di coloro che hanno fatto i crac e non di uno che lavora onestamente. Vi dovete vergognare! Di Pietro mi difenda anche da questo!». Già perché ieri, ad accompagnarlo in visita da Beppe Grillo disceso a Roma, è apparso perfino il Tonino nazionale: in veste d'avvocato, sarà lui a tutelarne l'onore nelle opportune sedi. Intanto, l'ex presidente dell'Adusbef rievoca la macchina del fango: «Alessio è stato giornalista parlamentare, si è laureato con 110 e lode, l'hanno licenziato e gli ho sconsigliato di continuare a fare il giornalista. Ha trovato lavoro come impiegato». Gli alleati non si inteneriscono. Il turborenziano Luigi Marattin va giù duro: «Serve un presidente che non sia lui. Mi accontento di uno che sappia distinguere il bilancio di una banca da una pentola a pressione». Non meno scoppiettanti le parole del dem Emanuele Fiano, che ritira fuori un vecchio tweet del senatore pentastellato sui Protocolli dei Savi Anziani di Sion: «Di Maio deve dichiarare nero su bianco che uno così non può guidare la Commissione banche. Sicuramente non avrà i nostri voti». Di fronte alle accuse su quel vecchio cinguettio, l'interessato annuncia però furibonde querele: «Mi sono scusato il giorno dopo. Ora basta. Ho pronte le denunce contro chi mi accusa di essere antisemita. Forse mi attaccano per paura. Perché io so». Cosa? Il nome dei colpevoli di tutti i crac bancari, che hanno funestato i risparmiatori italiani dal 2001 a oggi. Ergo: il suo nome fa paura. Il problema, per l'arrembante senatore, è che il suo nome comincia a far paura anche al Movimento. Lui si trincera dietro l'appoggio del fondatore, Beppe Grillo, calato proprio ieri nella capitale per sedare gli animi pentastellati, messi a dura prova dai tre senatori che hanno lasciato e dalle voci di nuovi e imminenti addii. Ieri l'«Elevato» ha trovato il tempo per incontrare Lannutti, giunto assieme a Di Pietro in versione principe del foro. Di Maio sembra però aver sacrificato l'avversata candidatura, sull'altare dei difficilissimi equilibri giallorossi. Filtrano già alcune alternative, come il deputato Alvise Maniero. Oppure la presidente della commissione Finanze della Camera, Carla Ruocco. O il questore del Senato, Laura Bottici. A fianco del paladino dei consumatori rimane solo l'ala dura e pura. Il destino del fustigatore, suo malgrado, sembra ormai segnato. Antonio Rossitto
La risposta alla scoppiettante Atreju è stata una grigia assemblea piddina
Il tema di quest’anno, Angeli e Demoni, ha guidato il percorso visivo e narrativo dell’evento. Il manifesto ufficiale, firmato dal torinese Antonio Lapone, omaggia la Torino magica ed esoterica e il fumetto franco-belga. Nel visual, una cosplayer attraversa il confine tra luce e oscurità, tra bene e male, tra simboli antichi e cultura pop moderna, sfogliando un fumetto da cui si sprigiona luce bianca: un ponte tra tradizione e innovazione, tra arte e narrazione.
Fumettisti e illustratori sono stati il cuore pulsante dell’Oval: oltre 40 autori, tra cui il cinese Liang Azha e Lorenzo Pastrovicchio della scuderia Disney, hanno accolto il pubblico tra sketch e disegni personalizzati, conferenze e presentazioni. Primo Nero, fenomeno virale del web con oltre 400.000 follower, ha presentato il suo debutto editoriale con L’Inkredibile Primo Nero Show, mentre Sbam! e altre case editrici hanno ospitato esposizioni, reading e performance di autori come Giorgio Sommacal, Claudio Taurisano e Vince Ricotta, che ha anche suonato dal vivo.
Il cosplay ha confermato la sua centralità: più di 120 partecipanti si sono sfidati nella tappa italiana del Nordic Cosplay Championship, con Carlo Visintini vincitore e qualificato per la finale in Svezia. Parallelamente, il propmaking ha permesso di scoprire il lavoro artigianale dietro armi, elmi e oggetti scenici, rivelando la complessità della costruzione dei personaggi.
La musica ha attraversato generazioni e stili. La Battle of the Bands ha offerto uno spazio alle band emergenti, mentre le icone delle sigle tv, Giorgio Vanni e Cristina D’Avena, hanno trasformato l’Oval in un grande palco popolare, richiamando migliaia di fan. Non è mancato il K-pop, con workshop, esibizioni e karaoke coreano, che ha coinvolto i più giovani in una dimensione interattiva e partecipativa. La manifestazione ha integrato anche dimensioni educative e culturali. Il Dipartimento di Matematica dell’Università di Torino ha esplorato il ruolo della matematica nei fumetti, mostrando come concetti scientifici possano dialogare con la narrazione visiva. Lo chef Carlo Mele, alias Ojisan, ha illustrato la relazione tra cibo e animazione giapponese, trasformando piatti iconici degli anime in esperienze reali. Il pubblico ha potuto immergersi nella magia del Villaggio di Natale, quest’anno allestito nella Casa del Grinch, tra laboratori creativi, truccabimbi e la Christmas Elf Dance, mentre l’area games e l’area videogames hanno offerto tornei, postazioni libere e spazi dedicati a giochi indipendenti, modellismo e miniature, garantendo una partecipazione attiva e immersiva a tutte le età.
Con 28.000 visitatori in due giorni, Xmas Comics & Games conferma la propria crescita come festival della cultura pop, capace di unire creatività, spettacolo e narrazione, senza dimenticare la componente sociale e educativa. Tra fumetti, cosplay, musica e gioco, Torino è diventata il punto d’incontro per chi vuole vivere in prima persona il racconto pop contemporaneo, dove ogni linguaggio si intreccia e dialoga con gli altri, trasformando la fiera in una grande esperienza culturale condivisa.
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i,Hamza Abdi Barre (Getty Images)
La Somalia è intrappolata in una spirale di instabilità sempre più profonda: un’insurrezione jihadista in crescita, un apparato di sicurezza inefficiente, una leadership politica divisa e la competizione tra potenze vicine che alimenta rivalità interne. Il controllo effettivo del governo federale si riduce ormai alla capitale e a poche località satelliti, una sorta di isola amministrativa circondata da gruppi armati e clan in competizione. L’esercito nazionale, logorato, frammentato e privo di una catena di comando solida, non è in grado di garantire la sicurezza nemmeno sulle principali rotte commerciali che costeggiano il Paese. In queste condizioni, il collasso dell’autorità centrale e la caduta di Mogadiscio nelle mani di gruppi ostili rappresentano scenari sempre meno remoti, con ripercussioni dirette sulla navigazione internazionale e sulla sicurezza regionale.
La pirateria somala, un tempo contenuta da pattugliamenti congiunti e operazioni navali multilaterali, è oggi alimentata anche dal radicamento di milizie jihadiste che controllano vaste aree dell’entroterra. Questi gruppi, dopo anni di scontri contro il governo federale e di brevi avanzate respinte con l’aiuto delle forze speciali straniere, hanno recuperato terreno e consolidato le proprie basi logistiche proprio lungo i corridoi costieri. Da qui hanno intensificato sequestri, assalti e sabotaggi, colpendo infrastrutture critiche e perfino centri governativi di intelligence. L’attacco del 2025 contro una sede dei servizi somali, che portò alla liberazione di decine di detenuti, diede il segnale dell’audacia crescente di questi movimenti.
Le debolezze dell’apparato statale restano uno dei fattori decisivi. Nonostante due decenni di aiuti, investimenti e programmi di addestramento militare, le forze somale non riescono a condurre operazioni continuative contro reti criminali e gruppi jihadisti. Il consumo interno di risorse, la corruzione diffusa, i legami di fedeltà clanici e la dipendenza dall’Agenzia dell’Unione africana per il supporto alla sicurezza hanno sgretolato ogni tentativo di riforma. Nel frattempo, l’interferenza politica nella gestione della missione internazionale ha sfiancato i donatori, ridotto il coordinamento e lasciato presagire un imminente disimpegno. A questo si aggiungono le tensioni istituzionali: modifiche costituzionali controverse, una mappa federale contestata e tentativi percepiti come manovre per prolungare la permanenza al potere della leadership attuale hanno spaccato la classe politica e paralizzato qualsiasi risposta comune alla minaccia emergente. Mentre i vertici si dividono, le bande armate osservano, consolidano il controllo del territorio e preparano nuovi colpi contro la navigazione e le città costiere. Sul piano internazionale cresce il numero di governi che, temendo un collasso definitivo del sistema federale, sondano discretamente la possibilità di una trattativa con i gruppi armati. Ma l’ipotesi di una Mogadiscio conquistata da milizie che già controllano ampie aree della costa solleva timori concreti: un ritorno alla pirateria sistemica, attacchi oltre confine e una spirale di conflitti locali che coinvolgerebbe l’intero Corno d’Africa.
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Il presidente eletto del Cile José Antonio Kast e sua moglie Maria Pia Adriasola (Ansa)
Un elemento significativo di queste elezioni presidenziali è stata l’elevata affluenza alle urne, che si è rivelata in aumento del 38% rispetto al 2021. Quelle di ieri sono infatti state le prime elezioni tenute dopo che, nel 2022, è stato introdotto il voto obbligatorio. La vittoria di Kast ha fatto da contraltare alla crisi della sinistra cilena. Il presidente uscente, Gabriel Boric, aveva vinto quattro anni fa, facendo leva soprattutto sull’impopolarità dell’amministrazione di centrodestra, guidata da Sebastián Piñera. Tuttavia, a partire dal 2023, gli indici di gradimento di Boric sono iniziati a crollare. E questo ha danneggiato senza dubbio la Jara, che è stata ministro del Lavoro fino allo scorso aprile. Certo, Kast si accinge a governare a fronte di un Congresso diviso: il che potrebbe rappresentare un problema per alcune delle sue proposte più incisive. Resta tuttavia il fatto che la sua vittoria ha avuto dei numeri assai significativi.
«La vittoria di Kast in Cile segue una serie di elezioni in America Latina che negli ultimi anni hanno spostato la regione verso destra, tra cui quelle in Argentina, Ecuador, Costa Rica ed El Salvador», ha riferito la Bbc. Lo spostamento a destra dell’America Latina è una buona notizia per la Casa Bianca. Ricordiamo che, alcuni giorni fa, Washington a pubblicato la sua nuova strategia di sicurezza nazionale: un documento alla cui base si registra il rilancio della Dottrina Monroe. Per Trump, l’obiettivo, da questo punto di vista, è duplice. Innanzitutto, punta a contrastare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. In secondo luogo, mira ad arginare l’influenza geopolitica della Cina sull’Emisfero occidentale. Vale a tal proposito la pena di ricordare che Boric, negli ultimi anni, ha notevolmente avvicinato Santiago a Pechino. Una linea che, di certo, a Washington non è stata apprezzata.
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