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2019-12-18
Dai pm nessun sequestro pro risparmiatori
Ansa
Un fascicolo per ogni segnalazione. Dieci indagati in tutto. Nessun sequestro preventivo di somme o di patrimonio, per mettere al riparo vittime e denuncianti, almeno per ora. E sette inchieste che cercano di far luce sul crac della Banca popolare di Bari, per quasi 50 anni considerata la più grossa cassaforte del Sud Italia (nata il 16 marzo 1960 nello studio notarile Carbone a Bari), con il suo camaleontico portafoglio clienti e impieghi erogati che sfiorano il 10 per cento di tutti i prestiti concessi tra Puglia e Basilicata (le roccaforti della Popolare), tutte coordinate dal procuratore aggiunto Roberto Rossi. Lo stesso magistrato che ieri ha fatto acquisire una registrazione audio pubblicata da Fanpage con i dialoghi di un incontro avvenuto il 10 dicembre scorso tra dirigenti e i preposti delle filiali solo pochi giorni prima del commissariamento della banca. «Non c'è rischio di commissariamento. Entro Natale la banca sarà salva». Gianvito Giannelli e Vincenzo De Bustis, presidente e amministratore delegato, prendono la parola in una riunione. Mancano tre giorni alla decisione di Bankitalia sul commissariamento e cinque al cdm che ha deciso per il salvataggio attraverso un esborso complessivo di 900 milioni di euro. La Procura ha ritenuto la registrazione di interesse investigativo. E il documento finirà in uno dei fascicoli aperti. Probabilmente in uno degli ultimi due più freschi, quello per una segnalazione della Consob. L'altra indagine è stata avviata invece dopo l'esposto di un azionista. Le altre cinque inchieste sono invece in fase avanzata. Una è anche già chiusa. E vanno indietro fino al 2010. Nove anni di fidi per milioni di euro concessi, a parere degli investigatori, senza troppe garanzie. E per nascondere nei bilanci quei buchi, che stavano diventando dei crateri, sarebbero stati venduti titoli a rischio a contribuenti poco esperti di materia bancaria e di finanza. A inciampare nel presunto inganno sarebbero stati in maggioranza i pensionati che, fidandosi del Titanic bancario che sembrava inaffondabile, avrebbero deciso di investire le loro liquidazioni o i risparmi di una vita.
Una delle indagini è concentrata su una sospetta operazione di rafforzamento del capitale: una carta giocata da Bpb con una emissione obbligazionaria da 30 milioni di euro da far sottoscrivere a una società maltese. Ma che non si è concretizzata, creando ulteriori rumori attorno al board dell'istituto di credito. C'è poi quella di cui qualche settimana fa hanno avuto notizia gli indagati, ai quali la Procura ha fatto notificare un avviso di garanzia: tra loro ci sono De Bustis e l'ex presidente Marco Jacobini. Una fetta dell'inchiesta è finita in archivio un anno fa e l'ipotesi di associazione a delinquere finalizzata a truffare i correntisti è andata a farsi benedire. Le indagini della Guardia di finanza sono invece andate avanti sulle altre ipotesi: soprattutto sulle presunte comunicazioni alla Consob di bilanci poco chiari, sulla quantificazione dei crediti e sull'acquisizione di Banca Tercas. L'inchiesta sulla presunta truffa aggravata da 130.000 euro ai danni di una anziana contribuente, che sarebbe stata commessa nove anni fa dall'allora presidente Jacobini, dall'ex direttore generale, oggi ad, De Bustis, dall'ex amministratore delegato, Giorgio Papa e due quadri dell'istituto di credito, Alessandra Silletti e Alfonsa Zotti, invece, è chiusa. E l'avviso di conclusione delle indagini è stato già notificato già da qualche tempo. La ricostruzione dei pm è questa: «Con artifizi e raggiri (...) approfittando della particolare situazione di vulnerabilità della parte offesa, l'avrebbero indotta ad acquistare prodotti finanziari a elevata rischiosità».
Altro fascicolo: risale a luglio la notizia di perquisizioni nella sede della direzione generale della Bpb per il fallimento di due società del gruppo Fusillo di Noci, in provincia di Bari. Le indagini «hanno consentito di far emergere il ruolo della Popolare di Bari», sostennero all'epoca gli investigatori, «quale principale creditore delle imprese sottoposte a procedura concorsuale, risultate esposte con l'istituto per una cifra di poco inferiore ai 140 milioni di euro, a seguito delle ingenti linee di credito elargite». In questo caso il board della banca non è oggetto delle indagini. Ma per gli azionisti questa vicenda ha un peso, perché nel marzo 2019 sarebbero state accordate alle società decotte nuovi finanziamenti per 40 milioni di euro.
E, infine, c'è il fascicolo trasmesso per competenza da Bari a Roma, che riguarda il Bari Calcio: la società sportiva, secondo l'accusa, con la complicità di alcuni funzionari Bpb, per evitare una penalità per la squadra fornirono documenti retrodatati alla Commissione di vigilanza sulle società di calcio professionistiche.
Fabio Amendolara
Commissione, Lannutti spera in Grillo. Ma il figlio bancario può azzopparlo
Fino a qualche giorno fa, sembrava più inamovibile di Lionel Messi. Del resto, un bomber come lui non si vede in tutto l'arco parlamentare: banche, grand commis di Stato, poteri fortissimi. Elio Lannutti è sempre lì, in prima fila, a dardeggiare contro i felloni che stanno riducendo l'Italia in macerie. Già arcigno paladino dei consumatori, si definisce la memoria storica di tutti i crac bancari. Ha scritto due scoppiettanti libri d'inchiesta: Morte dei Paschi, sullo scandalo dell'istituto toscano, e Banda d'Italia, indovinato calembour, sui misfatti di Via Nazionale. Nessuno, più di lui, meritava dunque di guidare la nascitura Commissione bicamerale d'inchiesta sulle banche. Il suo nome sembrava già scritto nella pietra. Fino a ieri, quando il vice presidente del Senato, Roberto Calderoli, ha annunciato che tutto è rinviato a data da destinarsi. Sulla scelta del presidente che dovrà guidare il battagliero organismo non c'è ancora accordo.
Ma come? I giallorossi hanno la sorte di trovarsi Lannutti in squadra e lo lasciano in panchina? Certo, su quello scranno non lo volevano in tanti, è vero. E il senatore dei 5 stelle c'ha pure messo del suo. Con un'intervista sulla Stampa, destinatari i riottosi colleghi, ha chiarito: «Io non mi sfilo da un bel niente. E nessuno mi ha chiesto un passo indietro. È stato il gruppo a volermi. E Di Maio nell'ultima assemblea, a mia precisa domanda ha risposto: “Vai avanti"». Il leader del Movimento ieri era in Libia, impegnato in una delicatissima missione. Ma alcune fonti pentastellate lo descrivono piuttosto infastidito da quelle dichiarazioni, che sanno di autoblindatura. Tanto che fonti del partito chiariscono: «Il nome del presidente sarà frutto di un accordo di maggioranza». Tradotto, va cercata la convergenza con il Pd e Iv, che Lannutti non lo vogliono.
Giornata convulsa, quella di ieri. A un certo punto, come d'uso nelle migliori famiglie politiche, una manina di colore indefinito, c'è chi dice color scarlatto e chi ocra, mette in giro una notizia: Alessio Lannutti, figliolo del senatore, lavora nell'ufficio che si occupa dei rapporti con gli enti pubblici nella sede romana della Banca popolare di Bari. Ovvero, è alle dipendenze proprio dell'istituto al centro del commissariamento governativo. Pd e Italia viva si fregano le mani, urlando al conflitto d'interessi. Lannutti senior s'imbufalisce: «Dov'è il conflitto di interessi? Andate a vedere il conflitto di interessi di coloro che hanno fatto i crac e non di uno che lavora onestamente. Vi dovete vergognare! Di Pietro mi difenda anche da questo!». Già perché ieri, ad accompagnarlo in visita da Beppe Grillo disceso a Roma, è apparso perfino il Tonino nazionale: in veste d'avvocato, sarà lui a tutelarne l'onore nelle opportune sedi. Intanto, l'ex presidente dell'Adusbef rievoca la macchina del fango: «Alessio è stato giornalista parlamentare, si è laureato con 110 e lode, l'hanno licenziato e gli ho sconsigliato di continuare a fare il giornalista. Ha trovato lavoro come impiegato».
Gli alleati non si inteneriscono. Il turborenziano Luigi Marattin va giù duro: «Serve un presidente che non sia lui. Mi accontento di uno che sappia distinguere il bilancio di una banca da una pentola a pressione». Non meno scoppiettanti le parole del dem Emanuele Fiano, che ritira fuori un vecchio tweet del senatore pentastellato sui Protocolli dei Savi Anziani di Sion: «Di Maio deve dichiarare nero su bianco che uno così non può guidare la Commissione banche. Sicuramente non avrà i nostri voti». Di fronte alle accuse su quel vecchio cinguettio, l'interessato annuncia però furibonde querele: «Mi sono scusato il giorno dopo. Ora basta. Ho pronte le denunce contro chi mi accusa di essere antisemita. Forse mi attaccano per paura. Perché io so». Cosa? Il nome dei colpevoli di tutti i crac bancari, che hanno funestato i risparmiatori italiani dal 2001 a oggi. Ergo: il suo nome fa paura.
Il problema, per l'arrembante senatore, è che il suo nome comincia a far paura anche al Movimento. Lui si trincera dietro l'appoggio del fondatore, Beppe Grillo, calato proprio ieri nella capitale per sedare gli animi pentastellati, messi a dura prova dai tre senatori che hanno lasciato e dalle voci di nuovi e imminenti addii. Ieri l'«Elevato» ha trovato il tempo per incontrare Lannutti, giunto assieme a Di Pietro in versione principe del foro. Di Maio sembra però aver sacrificato l'avversata candidatura, sull'altare dei difficilissimi equilibri giallorossi. Filtrano già alcune alternative, come il deputato Alvise Maniero. Oppure la presidente della commissione Finanze della Camera, Carla Ruocco. O il questore del Senato, Laura Bottici. A fianco del paladino dei consumatori rimane solo l'ala dura e pura.
Il destino del fustigatore, suo malgrado, sembra ormai segnato.
Antonio Rossitto
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Sono ben sette le inchieste che cercano di fare luce sui prestiti allegri e la vendita di prodotti finanziari rischiosi ai pugliesi. Gli inquirenti, però, non hanno ancora bloccato né somme di denaro né immobili come forma di tutela per i clienti gabbati.Il senatore Elio Lannutti da Beppe Grillo a chiedere sostegno Una manina, però, svela che l'erede lavora nell'istituto in crisi. Lui resiste: «Non c'è conflitto di interessi». I gruppi M5s sono pronti a votare un nome di intesa con il Pd.Lo speciale contiene due articoliUn fascicolo per ogni segnalazione. Dieci indagati in tutto. Nessun sequestro preventivo di somme o di patrimonio, per mettere al riparo vittime e denuncianti, almeno per ora. E sette inchieste che cercano di far luce sul crac della Banca popolare di Bari, per quasi 50 anni considerata la più grossa cassaforte del Sud Italia (nata il 16 marzo 1960 nello studio notarile Carbone a Bari), con il suo camaleontico portafoglio clienti e impieghi erogati che sfiorano il 10 per cento di tutti i prestiti concessi tra Puglia e Basilicata (le roccaforti della Popolare), tutte coordinate dal procuratore aggiunto Roberto Rossi. Lo stesso magistrato che ieri ha fatto acquisire una registrazione audio pubblicata da Fanpage con i dialoghi di un incontro avvenuto il 10 dicembre scorso tra dirigenti e i preposti delle filiali solo pochi giorni prima del commissariamento della banca. «Non c'è rischio di commissariamento. Entro Natale la banca sarà salva». Gianvito Giannelli e Vincenzo De Bustis, presidente e amministratore delegato, prendono la parola in una riunione. Mancano tre giorni alla decisione di Bankitalia sul commissariamento e cinque al cdm che ha deciso per il salvataggio attraverso un esborso complessivo di 900 milioni di euro. La Procura ha ritenuto la registrazione di interesse investigativo. E il documento finirà in uno dei fascicoli aperti. Probabilmente in uno degli ultimi due più freschi, quello per una segnalazione della Consob. L'altra indagine è stata avviata invece dopo l'esposto di un azionista. Le altre cinque inchieste sono invece in fase avanzata. Una è anche già chiusa. E vanno indietro fino al 2010. Nove anni di fidi per milioni di euro concessi, a parere degli investigatori, senza troppe garanzie. E per nascondere nei bilanci quei buchi, che stavano diventando dei crateri, sarebbero stati venduti titoli a rischio a contribuenti poco esperti di materia bancaria e di finanza. A inciampare nel presunto inganno sarebbero stati in maggioranza i pensionati che, fidandosi del Titanic bancario che sembrava inaffondabile, avrebbero deciso di investire le loro liquidazioni o i risparmi di una vita. Una delle indagini è concentrata su una sospetta operazione di rafforzamento del capitale: una carta giocata da Bpb con una emissione obbligazionaria da 30 milioni di euro da far sottoscrivere a una società maltese. Ma che non si è concretizzata, creando ulteriori rumori attorno al board dell'istituto di credito. C'è poi quella di cui qualche settimana fa hanno avuto notizia gli indagati, ai quali la Procura ha fatto notificare un avviso di garanzia: tra loro ci sono De Bustis e l'ex presidente Marco Jacobini. Una fetta dell'inchiesta è finita in archivio un anno fa e l'ipotesi di associazione a delinquere finalizzata a truffare i correntisti è andata a farsi benedire. Le indagini della Guardia di finanza sono invece andate avanti sulle altre ipotesi: soprattutto sulle presunte comunicazioni alla Consob di bilanci poco chiari, sulla quantificazione dei crediti e sull'acquisizione di Banca Tercas. L'inchiesta sulla presunta truffa aggravata da 130.000 euro ai danni di una anziana contribuente, che sarebbe stata commessa nove anni fa dall'allora presidente Jacobini, dall'ex direttore generale, oggi ad, De Bustis, dall'ex amministratore delegato, Giorgio Papa e due quadri dell'istituto di credito, Alessandra Silletti e Alfonsa Zotti, invece, è chiusa. E l'avviso di conclusione delle indagini è stato già notificato già da qualche tempo. La ricostruzione dei pm è questa: «Con artifizi e raggiri (...) approfittando della particolare situazione di vulnerabilità della parte offesa, l'avrebbero indotta ad acquistare prodotti finanziari a elevata rischiosità». Altro fascicolo: risale a luglio la notizia di perquisizioni nella sede della direzione generale della Bpb per il fallimento di due società del gruppo Fusillo di Noci, in provincia di Bari. Le indagini «hanno consentito di far emergere il ruolo della Popolare di Bari», sostennero all'epoca gli investigatori, «quale principale creditore delle imprese sottoposte a procedura concorsuale, risultate esposte con l'istituto per una cifra di poco inferiore ai 140 milioni di euro, a seguito delle ingenti linee di credito elargite». In questo caso il board della banca non è oggetto delle indagini. Ma per gli azionisti questa vicenda ha un peso, perché nel marzo 2019 sarebbero state accordate alle società decotte nuovi finanziamenti per 40 milioni di euro. E, infine, c'è il fascicolo trasmesso per competenza da Bari a Roma, che riguarda il Bari Calcio: la società sportiva, secondo l'accusa, con la complicità di alcuni funzionari Bpb, per evitare una penalità per la squadra fornirono documenti retrodatati alla Commissione di vigilanza sulle società di calcio professionistiche.Fabio Amendolara<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/dai-pm-nessun-sequestro-pro-risparmiatori-2641628694.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="commissione-lannutti-spera-in-grillo-ma-il-figlio-bancario-puo-azzopparlo" data-post-id="2641628694" data-published-at="1765403107" data-use-pagination="False"> Commissione, Lannutti spera in Grillo. Ma il figlio bancario può azzopparlo Fino a qualche giorno fa, sembrava più inamovibile di Lionel Messi. Del resto, un bomber come lui non si vede in tutto l'arco parlamentare: banche, grand commis di Stato, poteri fortissimi. Elio Lannutti è sempre lì, in prima fila, a dardeggiare contro i felloni che stanno riducendo l'Italia in macerie. Già arcigno paladino dei consumatori, si definisce la memoria storica di tutti i crac bancari. Ha scritto due scoppiettanti libri d'inchiesta: Morte dei Paschi, sullo scandalo dell'istituto toscano, e Banda d'Italia, indovinato calembour, sui misfatti di Via Nazionale. Nessuno, più di lui, meritava dunque di guidare la nascitura Commissione bicamerale d'inchiesta sulle banche. Il suo nome sembrava già scritto nella pietra. Fino a ieri, quando il vice presidente del Senato, Roberto Calderoli, ha annunciato che tutto è rinviato a data da destinarsi. Sulla scelta del presidente che dovrà guidare il battagliero organismo non c'è ancora accordo. Ma come? I giallorossi hanno la sorte di trovarsi Lannutti in squadra e lo lasciano in panchina? Certo, su quello scranno non lo volevano in tanti, è vero. E il senatore dei 5 stelle c'ha pure messo del suo. Con un'intervista sulla Stampa, destinatari i riottosi colleghi, ha chiarito: «Io non mi sfilo da un bel niente. E nessuno mi ha chiesto un passo indietro. È stato il gruppo a volermi. E Di Maio nell'ultima assemblea, a mia precisa domanda ha risposto: “Vai avanti"». Il leader del Movimento ieri era in Libia, impegnato in una delicatissima missione. Ma alcune fonti pentastellate lo descrivono piuttosto infastidito da quelle dichiarazioni, che sanno di autoblindatura. Tanto che fonti del partito chiariscono: «Il nome del presidente sarà frutto di un accordo di maggioranza». Tradotto, va cercata la convergenza con il Pd e Iv, che Lannutti non lo vogliono. Giornata convulsa, quella di ieri. A un certo punto, come d'uso nelle migliori famiglie politiche, una manina di colore indefinito, c'è chi dice color scarlatto e chi ocra, mette in giro una notizia: Alessio Lannutti, figliolo del senatore, lavora nell'ufficio che si occupa dei rapporti con gli enti pubblici nella sede romana della Banca popolare di Bari. Ovvero, è alle dipendenze proprio dell'istituto al centro del commissariamento governativo. Pd e Italia viva si fregano le mani, urlando al conflitto d'interessi. Lannutti senior s'imbufalisce: «Dov'è il conflitto di interessi? Andate a vedere il conflitto di interessi di coloro che hanno fatto i crac e non di uno che lavora onestamente. Vi dovete vergognare! Di Pietro mi difenda anche da questo!». Già perché ieri, ad accompagnarlo in visita da Beppe Grillo disceso a Roma, è apparso perfino il Tonino nazionale: in veste d'avvocato, sarà lui a tutelarne l'onore nelle opportune sedi. Intanto, l'ex presidente dell'Adusbef rievoca la macchina del fango: «Alessio è stato giornalista parlamentare, si è laureato con 110 e lode, l'hanno licenziato e gli ho sconsigliato di continuare a fare il giornalista. Ha trovato lavoro come impiegato». Gli alleati non si inteneriscono. Il turborenziano Luigi Marattin va giù duro: «Serve un presidente che non sia lui. Mi accontento di uno che sappia distinguere il bilancio di una banca da una pentola a pressione». Non meno scoppiettanti le parole del dem Emanuele Fiano, che ritira fuori un vecchio tweet del senatore pentastellato sui Protocolli dei Savi Anziani di Sion: «Di Maio deve dichiarare nero su bianco che uno così non può guidare la Commissione banche. Sicuramente non avrà i nostri voti». Di fronte alle accuse su quel vecchio cinguettio, l'interessato annuncia però furibonde querele: «Mi sono scusato il giorno dopo. Ora basta. Ho pronte le denunce contro chi mi accusa di essere antisemita. Forse mi attaccano per paura. Perché io so». Cosa? Il nome dei colpevoli di tutti i crac bancari, che hanno funestato i risparmiatori italiani dal 2001 a oggi. Ergo: il suo nome fa paura. Il problema, per l'arrembante senatore, è che il suo nome comincia a far paura anche al Movimento. Lui si trincera dietro l'appoggio del fondatore, Beppe Grillo, calato proprio ieri nella capitale per sedare gli animi pentastellati, messi a dura prova dai tre senatori che hanno lasciato e dalle voci di nuovi e imminenti addii. Ieri l'«Elevato» ha trovato il tempo per incontrare Lannutti, giunto assieme a Di Pietro in versione principe del foro. Di Maio sembra però aver sacrificato l'avversata candidatura, sull'altare dei difficilissimi equilibri giallorossi. Filtrano già alcune alternative, come il deputato Alvise Maniero. Oppure la presidente della commissione Finanze della Camera, Carla Ruocco. O il questore del Senato, Laura Bottici. A fianco del paladino dei consumatori rimane solo l'ala dura e pura. Il destino del fustigatore, suo malgrado, sembra ormai segnato. Antonio Rossitto
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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