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2024-10-25
Soldi, sesso e amici di sinistra: alla Cultura si torna a ballare
Alessandro Giuli (Ansa)
«La vicenda Spano è una piccola parte di quello che racconteremo domenica a Report. C’è un altro caso che riguarda il ministro Alessandro Giuli». Il conduttore di Report, Sigfrido Ranucci a Un giorno da pecora, su Rai Radio 1, incendia ancora di più il clima all’interno di Fratelli d’Italia. Dopo le dimissioni del capo di gabinetto Francesco Spano, che ha lasciato il suo incarico al ministero della Cultura in seguito alle anticipazioni della trasmissione di inchiesta della Rai, le parole di Ranucci, che sta sapientemente facendo crescere a dismisura l’attesa per la puntata della sua trasmissione, scatenano all’interno del partito di maggioranza relativa una ridda di ipotesi. Quali sono le ulteriori rivelazioni che Report ha in serbo su Giuli? «Dopo il servizio di domenica forse chi non ama Giuli in Fratelli d’Italia lo amerà ancora meno» gigioneggia Ranucci, perfettamente consapevole di essere in grado di terremotare il partito con ogni singola sillaba disvelata in questi giorni ai media.
All’interno della formazione di Giorgia Meloni, infatti, l’atmosfera è piuttosto incandescente: le ipotesi sulle nuove rivelazioni di Report si rincorrono vorticosamente, raggiungendo anche vette quasi di paranoia, mentre è assai probabile che alla fine la trasmissione di Rai Tre domenica sera rivelerà altre forme di trasversalismo ideologico, politico e culturale da parte del ministro Giuli. Quello che è certo è che si taglia a fette la delusione per le prime mosse del ministro della Cultura, soprattutto perché, dopo la tragicomica gestione politica e mediatica del caso Boccia-Sangiuliano, si sperava che il dicastero tornasse a essere un luogo di sobria laboriosità. Nulla si sa di certo sul profilo del sostituto di Spano, tranne il fatto che Giuli si consulterà solo e soltanto con la premier, che lo ha fortemente voluto in quel ruolo e che è l’unica persona alla quale il neoministro si affida per le sue valutazioni, in quanto le riconosce un ruolo ontologicamente superiore.
Intanto, dall’interno di Fratelli d’Italia continuano a trapelare spifferi, con buona pace di chi ha tentato di rendere il partito una camera stagna impenetrabile per i giornalisti. Come se fosse possibile imbavagliare un paio di centinaia di persone tra parlamentari, ministri e sottosegretari, tra l’altro circondati da rispettivi collaboratori.
La crescita esponenziale del partito ha inoltre provocato, come era inevitabile, anche la formazione di quelle che nel Pd si chiamano correnti e che i democristiano definiscono più felpatamente sensibilità. L’equazione probabilmente frutto di tanto nervosismo è che gli scontenti potrebbero essere coloro i quali spifferano indiscrezioni alla stampa. «Il clima è teso», confida a La Verità un autorevole esponente di Fratelli d’Italia, «perché ci sono troppi fronti aperti. L’attacco violento alla magistratura viene considerato da alcuni sbagliato e destabilizzante, la manovra finanziaria non ha un percorso agevole, e anche la vicenda del centro in Albania ha provocato ripercussioni. Tra l’altro il caso Giuli assume contorni più delicati, perché arriva subito dopo l’imprevedibile querelle Boccia-Sangiuliano».
A proposito di Gennaro Sangiuliano, al di là dei retroscena maliziosi di alcuni cronisti parlamentari, all’interno di Fratelli d’Italia è pressoché unanime la convinzione che l’ex ministro non abbia alcun ruolo nelle fughe di notizie. «Figuriamoci», sospira al telefono un parlamentare meloniano di primissimo piano, «se tra quello che gli è successo e le inchieste che lo riguardano, Sangiuliano possa avere il tempo e la voglia di mettersi a fare soffiate ai giornalisti. Del resto, il momento in cui la temperatura del partito è schizzata verso l’alto è coincisa con l’uscita sui giornali della chat relativa al voto sul giudice costituzionale. Da quel momento abbiamo perso serenità e soprattutto nessuno si fida più di nessuno».
Fratelli d’Italia è, a nostro parere, banalmente, di fronte a una crisi di crescita: le scelte operate al momento della formazione del governo e della distribuzione degli incarichi hanno creato, come è inevitabile, degli scontenti. Tanto per non fare nomi, Giovanni Donzelli non ha avuto ruoli di governo ed è stato quantomeno affiancato da Arianna Meloni alla guida del partito. Fabio Rampelli, da parte sua, vicepresidente della Camera era nella scorsa legislatura e vicepresidente della Camera è rimasto. I più fantasiosi tra gli addetti ai lavori fanno notare che il presidente della Commissione cultura alla Camera, Federico Mollicone, protagonista di un robusto scambio di opinioni con Antonella Giuli, giornalista e sorella del ministro, sia proprio uno dei componenti della corrente dei Gabbiani, che fa capo a Rampelli. Mollicone però ha gettatoacqua sul fuoco parlando di «ricostruzioni completamente infondate». Mentre il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari ha smentito le tensioni con il ministro: «Non c'è nessuno scontro tra me e il ministro Giuli. Notizia falsa e pateticamente inventata. Io e Alessandro Giuli ci conosciamo da più di trent'anni anni, è una persona che stimo».
E a quanto ci risulta ogni ipotesi di un ulteriore cambio ai vertici del ministero della Cultura appartiene alla sfera della pura fantascienza.
Ma quale omofobia, è conflitto di interessi
Visto che per colpa del nuovo «caso Spano» siamo in pieno delirio da «allarme omofobia», come da lamenti del centrosinistra, ecco un po’ di sociologia criminale, secondo la moda attuale. Propensione degli omosessuali alla violenza privata e in famiglia? Quasi nulla (più avanti, con più famiglie arcobaleno, si vedrà). Propensione dei gay alla corruzione, alla concussione e alle malversazioni in generale? Bassissima. Propensione alle spese fuori controllo con relative note gonfiate? Nella media. Propensione ai reati di stampo mafioso? Nulla, sono discriminati anche come semplici picciotti. Propensione al traffico d’influenze e all’abuso d’ufficio? Nella media, ma chiunque abbia un minimo di cultura giuridica riconoscerà che sono due fanta-reati. E però le cose potrebbero cambiare, quando l’omosessualità non sarà più né una notizia né una vergogna. Tutti faranno i reati di tutti come tutti, ma già oggi sarebbe il caso di affermare che difendere l’avvocato Francesco Spano dalle accuse sugli incarichi distribuiti al consorte, dipingendo l’ex capo di gabinetto del ministro Alessandro Giuli come «vittima di omofobia», non solo è clamorosamente fuorviante, ma è discriminatorio. Perché equivale a dire che di fronte a certi comportamenti, penalmente rilevanti o eticamente inaccettabili, l’omosessualità sarebbe una sorta di scriminante.
I fatti sono semplici. In attesa che Report vada in onda, domenica sera, Spano si è dimesso da capo di gabinetto nominato di Giuli perché è uscita la storia della consulenza che avrebbe attribuito al marito Marco Carnabuci quando era alla guida del Maxxi. E’ una cosa che con i soldi pubblici non si dovrebbe fare e basta, indipendentemente da qualunque altra considerazione. E’ molto malvista anche nel privato, almeno nelle aziende di medie e grandi dimensioni. Se l’avvocato Carnabuci fosse stato il figlio del dirigente Spano, a Repubblica avrebbero parlato di familismo amorale. Se fosse stato donna, si sarebbe parlato di patriarcato e così via. Se fossero stati soci in affari, sarebbe arrivata la Guardia di Finanza. Se Carnabuci avesse militato nei Nar o in Terza Posizione, si sarebbe parlato di trame nere che ritornano. Invece Spano e Carnabuci sono una coppia stabile, a casa come sul lavoro, e quindi hanno diritto a essere difesi a spada tratta. E i fatti semplici diventano come per incanto complicati. Come il quasi incomprensibile articolo di Giuliano Ferrara sul Foglio di ieri, che lamenta «la penosa minicrociata al grido di “dagli al pederasta” a danni di un funzionario mite e competente». Ferrara nella foga attacca perfino Mario Giordano, accusato di far parte della «destra forcaiola» e di avere «la voce chioccia». Cioè, per difendere un amico dalla presunta omofobia, Ferrara si è dato al bodyshaming e al bullismo. Non male, come eterogenesi dei fini. Non è invece sicuramente eterogenesi di nulla il fatto che la moglie di Ferrara, Anselma Dell’Olio, il mese scorso sia stata nominata dal ministero della Cultura nella commissione Cinema.
La chiamata alle armi in difesa del compagno Spano, cresciuto alla scuola di sincretismo di Giuliano Amato, ha risvegliato anche Ivan Scalfarotto. Il senatore di Italia Viva ha detto al Giornale: «Report ha pompato il presunto scandalo “al maschile” utilizzando in modo deliberato una unica leva: la morbosità omofoba». Poi ha provato a stanare il direttore, Sigfrido Ranucci: «Fa impressione che proprio un giornalista che si dice di sinistra abbia scelto di utilizzare questo tipo di inaccettabile gossip stile anni Cinquanta sui “torbidi ambienti omosessuali”». Ranucci, però, la lezioncina di etica e giornalismo da uno che sta con Matteo Renzi non se l’ha capita e gli ha risposto così: «Scalfarotto ha detto una stronzata, ma sa di cosa parla? Abbiamo fatto molto più noi di lui». Si è avuta a male di questo miserevole indagare su favori e favoriti anche Giovanna Melandri, ex presidente del Maxxi in quota Pd: «L’avvocato Marco Carnabuci è stato chiamato dal Maxxi nel giugno 2018, quando Francesco Spano non aveva nulla a che fare con il museo (…) Quello che è in corso è un orribile regolamento di conti di una destra omofoba». Melandri fa finta di non sapere che il problema non è il primo contratto di Carnabuci firmato da lei, ma il secondo firmato dal suo lui. In campo anche Alessandro Zan, padrino della celebrata e omonima non-legge, che si dice «colpito dalle offese a Spano riguardo il suo orientamento sessuale».
Non si poteva sottrarre al soccorso arcobaleno neppure Anna Paola Concia. L’ex senatrice Dem denuncia ad Huffington Post che «c’è un atteggiamento pilatesco. Dicono che aspettano di vedere Report... Ma c’è bisogno di vedere la trasmissione per difendere una persona da un attacco omofobo?». L’omosessualità come misura di tutte le cose. Se piace ai censori del centrosinistra, padronissimi. Ma il vero problema del caso Spano sono l’utilizzo di soldi pubblici, i possibili ricatti a chi non ha ancora fatto coming out e il sospetto di una lobby. Che visto il cordone difensivo sopra descritto, è più che un sospetto.
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Il caso Spano non finisce più. Sigfrido Ranucci annuncia: «Domenica un altro scoop che riguarda Giuli». Ivan Scalfarotto e Giuliano Ferrara accusano l’omofobia, ma non c’entra nulla. Partito in ansia per la scelta del nuovo capo di gabinetto.La sinistra si indigna per le dimissioni del capo di gabinetto del Mic e straparla di discriminazioni. Fingono tutti di ignorare i soldi pubblici fatti avere al compagno.Lo speciale contiene due articoli.«La vicenda Spano è una piccola parte di quello che racconteremo domenica a Report. C’è un altro caso che riguarda il ministro Alessandro Giuli». Il conduttore di Report, Sigfrido Ranucci a Un giorno da pecora, su Rai Radio 1, incendia ancora di più il clima all’interno di Fratelli d’Italia. Dopo le dimissioni del capo di gabinetto Francesco Spano, che ha lasciato il suo incarico al ministero della Cultura in seguito alle anticipazioni della trasmissione di inchiesta della Rai, le parole di Ranucci, che sta sapientemente facendo crescere a dismisura l’attesa per la puntata della sua trasmissione, scatenano all’interno del partito di maggioranza relativa una ridda di ipotesi. Quali sono le ulteriori rivelazioni che Report ha in serbo su Giuli? «Dopo il servizio di domenica forse chi non ama Giuli in Fratelli d’Italia lo amerà ancora meno» gigioneggia Ranucci, perfettamente consapevole di essere in grado di terremotare il partito con ogni singola sillaba disvelata in questi giorni ai media. All’interno della formazione di Giorgia Meloni, infatti, l’atmosfera è piuttosto incandescente: le ipotesi sulle nuove rivelazioni di Report si rincorrono vorticosamente, raggiungendo anche vette quasi di paranoia, mentre è assai probabile che alla fine la trasmissione di Rai Tre domenica sera rivelerà altre forme di trasversalismo ideologico, politico e culturale da parte del ministro Giuli. Quello che è certo è che si taglia a fette la delusione per le prime mosse del ministro della Cultura, soprattutto perché, dopo la tragicomica gestione politica e mediatica del caso Boccia-Sangiuliano, si sperava che il dicastero tornasse a essere un luogo di sobria laboriosità. Nulla si sa di certo sul profilo del sostituto di Spano, tranne il fatto che Giuli si consulterà solo e soltanto con la premier, che lo ha fortemente voluto in quel ruolo e che è l’unica persona alla quale il neoministro si affida per le sue valutazioni, in quanto le riconosce un ruolo ontologicamente superiore. Intanto, dall’interno di Fratelli d’Italia continuano a trapelare spifferi, con buona pace di chi ha tentato di rendere il partito una camera stagna impenetrabile per i giornalisti. Come se fosse possibile imbavagliare un paio di centinaia di persone tra parlamentari, ministri e sottosegretari, tra l’altro circondati da rispettivi collaboratori. La crescita esponenziale del partito ha inoltre provocato, come era inevitabile, anche la formazione di quelle che nel Pd si chiamano correnti e che i democristiano definiscono più felpatamente sensibilità. L’equazione probabilmente frutto di tanto nervosismo è che gli scontenti potrebbero essere coloro i quali spifferano indiscrezioni alla stampa. «Il clima è teso», confida a La Verità un autorevole esponente di Fratelli d’Italia, «perché ci sono troppi fronti aperti. L’attacco violento alla magistratura viene considerato da alcuni sbagliato e destabilizzante, la manovra finanziaria non ha un percorso agevole, e anche la vicenda del centro in Albania ha provocato ripercussioni. Tra l’altro il caso Giuli assume contorni più delicati, perché arriva subito dopo l’imprevedibile querelle Boccia-Sangiuliano». A proposito di Gennaro Sangiuliano, al di là dei retroscena maliziosi di alcuni cronisti parlamentari, all’interno di Fratelli d’Italia è pressoché unanime la convinzione che l’ex ministro non abbia alcun ruolo nelle fughe di notizie. «Figuriamoci», sospira al telefono un parlamentare meloniano di primissimo piano, «se tra quello che gli è successo e le inchieste che lo riguardano, Sangiuliano possa avere il tempo e la voglia di mettersi a fare soffiate ai giornalisti. Del resto, il momento in cui la temperatura del partito è schizzata verso l’alto è coincisa con l’uscita sui giornali della chat relativa al voto sul giudice costituzionale. Da quel momento abbiamo perso serenità e soprattutto nessuno si fida più di nessuno». Fratelli d’Italia è, a nostro parere, banalmente, di fronte a una crisi di crescita: le scelte operate al momento della formazione del governo e della distribuzione degli incarichi hanno creato, come è inevitabile, degli scontenti. Tanto per non fare nomi, Giovanni Donzelli non ha avuto ruoli di governo ed è stato quantomeno affiancato da Arianna Meloni alla guida del partito. Fabio Rampelli, da parte sua, vicepresidente della Camera era nella scorsa legislatura e vicepresidente della Camera è rimasto. I più fantasiosi tra gli addetti ai lavori fanno notare che il presidente della Commissione cultura alla Camera, Federico Mollicone, protagonista di un robusto scambio di opinioni con Antonella Giuli, giornalista e sorella del ministro, sia proprio uno dei componenti della corrente dei Gabbiani, che fa capo a Rampelli. Mollicone però ha gettatoacqua sul fuoco parlando di «ricostruzioni completamente infondate». Mentre il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari ha smentito le tensioni con il ministro: «Non c'è nessuno scontro tra me e il ministro Giuli. Notizia falsa e pateticamente inventata. Io e Alessandro Giuli ci conosciamo da più di trent'anni anni, è una persona che stimo». E a quanto ci risulta ogni ipotesi di un ulteriore cambio ai vertici del ministero della Cultura appartiene alla sfera della pura fantascienza.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/cultura-si-torna-a-ballare-2669476536.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="ma-quale-omofobia-e-conflitto-di-interessi" data-post-id="2669476536" data-published-at="1729805332" data-use-pagination="False"> Ma quale omofobia, è conflitto di interessi Visto che per colpa del nuovo «caso Spano» siamo in pieno delirio da «allarme omofobia», come da lamenti del centrosinistra, ecco un po’ di sociologia criminale, secondo la moda attuale. Propensione degli omosessuali alla violenza privata e in famiglia? Quasi nulla (più avanti, con più famiglie arcobaleno, si vedrà). Propensione dei gay alla corruzione, alla concussione e alle malversazioni in generale? Bassissima. Propensione alle spese fuori controllo con relative note gonfiate? Nella media. Propensione ai reati di stampo mafioso? Nulla, sono discriminati anche come semplici picciotti. Propensione al traffico d’influenze e all’abuso d’ufficio? Nella media, ma chiunque abbia un minimo di cultura giuridica riconoscerà che sono due fanta-reati. E però le cose potrebbero cambiare, quando l’omosessualità non sarà più né una notizia né una vergogna. Tutti faranno i reati di tutti come tutti, ma già oggi sarebbe il caso di affermare che difendere l’avvocato Francesco Spano dalle accuse sugli incarichi distribuiti al consorte, dipingendo l’ex capo di gabinetto del ministro Alessandro Giuli come «vittima di omofobia», non solo è clamorosamente fuorviante, ma è discriminatorio. Perché equivale a dire che di fronte a certi comportamenti, penalmente rilevanti o eticamente inaccettabili, l’omosessualità sarebbe una sorta di scriminante. I fatti sono semplici. In attesa che Report vada in onda, domenica sera, Spano si è dimesso da capo di gabinetto nominato di Giuli perché è uscita la storia della consulenza che avrebbe attribuito al marito Marco Carnabuci quando era alla guida del Maxxi. E’ una cosa che con i soldi pubblici non si dovrebbe fare e basta, indipendentemente da qualunque altra considerazione. E’ molto malvista anche nel privato, almeno nelle aziende di medie e grandi dimensioni. Se l’avvocato Carnabuci fosse stato il figlio del dirigente Spano, a Repubblica avrebbero parlato di familismo amorale. Se fosse stato donna, si sarebbe parlato di patriarcato e così via. Se fossero stati soci in affari, sarebbe arrivata la Guardia di Finanza. Se Carnabuci avesse militato nei Nar o in Terza Posizione, si sarebbe parlato di trame nere che ritornano. Invece Spano e Carnabuci sono una coppia stabile, a casa come sul lavoro, e quindi hanno diritto a essere difesi a spada tratta. E i fatti semplici diventano come per incanto complicati. Come il quasi incomprensibile articolo di Giuliano Ferrara sul Foglio di ieri, che lamenta «la penosa minicrociata al grido di “dagli al pederasta” a danni di un funzionario mite e competente». Ferrara nella foga attacca perfino Mario Giordano, accusato di far parte della «destra forcaiola» e di avere «la voce chioccia». Cioè, per difendere un amico dalla presunta omofobia, Ferrara si è dato al bodyshaming e al bullismo. Non male, come eterogenesi dei fini. Non è invece sicuramente eterogenesi di nulla il fatto che la moglie di Ferrara, Anselma Dell’Olio, il mese scorso sia stata nominata dal ministero della Cultura nella commissione Cinema. La chiamata alle armi in difesa del compagno Spano, cresciuto alla scuola di sincretismo di Giuliano Amato, ha risvegliato anche Ivan Scalfarotto. Il senatore di Italia Viva ha detto al Giornale: «Report ha pompato il presunto scandalo “al maschile” utilizzando in modo deliberato una unica leva: la morbosità omofoba». Poi ha provato a stanare il direttore, Sigfrido Ranucci: «Fa impressione che proprio un giornalista che si dice di sinistra abbia scelto di utilizzare questo tipo di inaccettabile gossip stile anni Cinquanta sui “torbidi ambienti omosessuali”». Ranucci, però, la lezioncina di etica e giornalismo da uno che sta con Matteo Renzi non se l’ha capita e gli ha risposto così: «Scalfarotto ha detto una stronzata, ma sa di cosa parla? Abbiamo fatto molto più noi di lui». Si è avuta a male di questo miserevole indagare su favori e favoriti anche Giovanna Melandri, ex presidente del Maxxi in quota Pd: «L’avvocato Marco Carnabuci è stato chiamato dal Maxxi nel giugno 2018, quando Francesco Spano non aveva nulla a che fare con il museo (…) Quello che è in corso è un orribile regolamento di conti di una destra omofoba». Melandri fa finta di non sapere che il problema non è il primo contratto di Carnabuci firmato da lei, ma il secondo firmato dal suo lui. In campo anche Alessandro Zan, padrino della celebrata e omonima non-legge, che si dice «colpito dalle offese a Spano riguardo il suo orientamento sessuale». Non si poteva sottrarre al soccorso arcobaleno neppure Anna Paola Concia. L’ex senatrice Dem denuncia ad Huffington Post che «c’è un atteggiamento pilatesco. Dicono che aspettano di vedere Report... Ma c’è bisogno di vedere la trasmissione per difendere una persona da un attacco omofobo?». L’omosessualità come misura di tutte le cose. Se piace ai censori del centrosinistra, padronissimi. Ma il vero problema del caso Spano sono l’utilizzo di soldi pubblici, i possibili ricatti a chi non ha ancora fatto coming out e il sospetto di una lobby. Che visto il cordone difensivo sopra descritto, è più che un sospetto.
Friedrich Merz (Ansa)
Il dissenso della gioventù aveva provocato forti tensioni all’interno della maggioranza tanto da far rischiare la prima crisi di governo seria per Merz. Il via libera del parlamento tedesco, dunque, segna di fatto una crisi politica enorme e pure lo scollamento della democrazia tra maggioranza effettiva e maggioranza dopata. Come già era accaduto in Francia, la materia pensionistica è l’iceberg contro cui si schiantano i… Titanic: Macron prima, Merz adesso. Il presidente francese sulle pensioni ha visto la rottura dei suoi governi per l’incalzare di rivolte popolari e questo in carica guidato da Lecornu ha dovuto congelare la materia per non lasciarci le penne. Del resto in Europa non è il solo che naviga a vista, non curante della sfiducia nel Paese: in Spagna il governo Sánchez è in piena crisi di consensi per i casi di corruzione scoppiati nel partito e in casa, e pure l’accordo coi i catalani e coi baschi rischia di far deragliare l’esecutivo sulla finanziaria. In Olanda non c’è ancora un governo. In Belgio il primo ministro De Wever ha chiesto altro tempo al re Filippo per superare lo stallo sulla legge di bilancio che si annuncia lacrime e sangue. In Germania - dicevamo - il governo si è salvato per l’appoggio determinante della sinistra radicale, aprendo quindi un tema politico che lascerà strascichi dei quali beneficerà Afd, partito assai attrattivo proprio tra i giovani.
I tre voti con i quali Merz si è salvato peseranno tantissimo e manterranno acceso il dibattito proprio su una questione ancestrale: l’aumento del debito pubblico. «Questo disegno di legge va contro le mie convinzioni fondamentali, contro tutto ciò per cui sono entrato in politica», ha dichiarato a nome della Junge Union Gruppe Pascal Reddig durante il dibattito. Lui è uno dei diciotto che avrebbe voluto affossare la stabilizzazione previdenziale anche a costo di mandare sotto il governo: il gruppo dei giovani non aveva mai preso in considerazione l’idea di caricare sulle spalle delle future generazioni 115 miliardi di costi aggiuntivi a partire dal 2031.
E senza quei 18 sì, il governo sarebbe finito al tappeto. Quindi ecco la solita minestrina riscaldata della sopravvivenza politica a qualsiasi costo: l’astensione dai banchi dell’opposizione del partito di estrema sinistra Die Linke, per effetto della quale si è ridotto il numero di voti necessari per l'approvazione. E i giovani? E le loro idee?
Merz ha affermato che le preoccupazioni della Junge Union saranno prese in considerazione in una revisione più ampia del sistema pensionistico prevista per il 2026, che affronterà anche la spinosa questione dell'innalzamento dell'età pensionabile. Un bel modo per cercare di salvare il salvabile. Anche se ora arriva pure la tegola della riforma della leva: il parlamento tedesco ha infatti approvato la modernizzazione del servizio militare nel Paese, introducendo una visita medica obbligatoria per i giovani diciottenni e la possibilità di ripristinare la leva obbligatoria in caso di carenza di volontari. Un altro passo verso la piena militarizzazione, materia su cui l’opinione pubblica tedesca è in profondo disaccordo e che Afd sta cavalcando. Sempre che la democrazia non deciderà di fermare Afd…
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«The Rainmaker» (Sky)
The Rainmaker, versione serie televisiva, sarà disponibile su Sky Exclusive a partire dalla prima serata di venerdì 5 dicembre. E allora l'abisso immenso della legalità, i suoi chiaroscuri, le zone d'ombra soggette a manovre e interpretazioni personali torneranno protagonisti. Non a Memphis, dov'era ambientato il romanzo originale, bensì a Charleston, nella Carolina del Sud.
Il rainmaker di Grisham, il ragazzo che - fresco di laurea - aveva fantasticato sulla possibilità di essere l'uomo della pioggia in uno degli studi legali più prestigiosi di Memphis, è lontano dal suo corrispettivo moderno. E non solo per via di una città diversa. Rudy Baylor, stesso nome, stesso percorso dell'originale, ha l'anima candida del giovane di belle speranze, certo che sia tutto possibile, che le idee valgano più dei fatti. Ma quando, appena dopo la laurea in Giurisprudenza, si trova tirocinante all'interno di uno studio fra i più blasonati, capisce bene di aver peccato: troppo romanticismo, troppo incanto. In una parola, troppa ingenuità.
Rudy Baylor avrebbe voluto essere colui che poteva portare più clienti al suddetto studio. Invece, finisce per scontrarsi con un collega più anziano nel giorno dell'esordio, i suoi sogni impacchettati come fossero cosa di poco conto. Rudy deve trovare altro: un altro impiego, un'altra strada. E finisce per trovarla accanto a Bruiser Stone, qui donna, ben lontana dall'essere una professionista integerrima. Qui, i percorsi divergono.
The Rainmaker, versione serie televisiva, si discosta da The Rainmaker versione carta o versione film. Cambia la trama, non, però, la sostanza. Quel che lo show, in dieci episodi, vuole cercare di raccontare quanto complessa possa essere l'applicazione nel mondo reale di categorie di pensiero apprese in astratto. I confini sono labili, ciascuno disposto ad estenderli così da inglobarvi il proprio interesse personale. Quel che dovrebbe essere scontato e oggettivo, la definizione di giusto o sbagliato, sfuma. E non vi è più certezza. Nemmeno quella basilare del singolo, che credeva di aver capito quanto meno se stesso. Rudy Baylor, all'interno di questa serie, a mezza via tra giallo e legal drama, deve, dunque, fare quel che ha fatto il suo predecessore: smettere ogni sua certezza e camminare al di fuori della propria zona di comfort, alla ricerca perpetua di un compromesso che non gli tolga il sonno.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Mentre l’Europa è strangolata da una crisi industriale senza precedenti, la Commissione europea offre alla casa automobilistica tedesca una tregua dalle misure anti-sovvenzioni. Questo armistizio, richiesto da VW Anhui, che produce il modello Cupra in Cina, rappresenta la chiusura del cerchio della de-industrializzazione europea. Attualmente, la VW paga un dazio anti-sovvenzione del 20,7 per cento sui modelli Cupra fabbricati in Cina, che si aggiunge alla tariffa base del 10 per cento. L’offerta di VW, avanzata attraverso la sua sussidiaria Seat/Cupra, propone, in alternativa al dazio, una quota di importazione annuale e un prezzo minimo di importazione, meccanismi che, se accettati da Bruxelles, esenterebbero il colosso tedesco dal pagare i dazi. Non si tratta di una congiuntura, ma di un disegno premeditato. Pochi giorni fa, la stessa Volkswagen ha annunciato come un trionfo di essere in grado di produrre veicoli elettrici interamente sviluppati e realizzati in Cina per la metà del costo rispetto alla produzione in Europa, grazie alle efficienze della catena di approvvigionamento, all’acquisto di batterie e ai costi del lavoro notevolmente inferiori. Per dare un’idea della voragine competitiva, secondo una analisi Reuters del 2024 un operaio VW tedesco costa in media 59 euro l’ora, contro i soli 3 dollari l’ora in Cina. L’intera base produttiva europea è già in ginocchio. La pressione dei sindacati e dei politici tedeschi per produrre veicoli elettrici in patria, nel tentativo di tutelare i posti di lavoro, si è trasformata in un calice avvelenato, secondo una azzeccata espressione dell’analista Justin Cox.
I dati sono impietosi: l’utilizzo medio della capacità produttiva nelle fabbriche di veicoli leggeri in Europa è sceso al 60% nel 2023, ma nei paesi ad alto costo (Germania, Francia, Italia e Regno Unito) è crollato al 54%. Una capacità di utilizzo inferiore al 70% è considerata il minimo per la redditività.
Il risultato? Centinaia di migliaia di posti di lavoro che rischiano di scomparire in breve tempo. Volkswagen, che ha investito miliardi in Cina nel tentativo di rimanere competitiva su quel mercato, sta tagliando drasticamente l’occupazione in patria. L’accordo con i sindacati prevede la soppressione di 35.000 posti di lavoro entro il 2030 in Germania. Il marchio VW sta già riducendo la capacità produttiva in Germania del 40%, chiudendo linee per 734.000 veicoli. Persino stabilimenti storici come quello di Osnabrück rischiano la chiusura entro il 2027.
Anziché imporre una protezione doganale forte contro la concorrenza cinese, l’Ue si siede al tavolo per negoziare esenzioni personalizzate per le sue stesse aziende che delocalizzano in Oriente.
Questa politica di suicidio economico ha molto padri, tra cui le case automobilistiche tedesche. Mercedes e Bmw, insieme a VW, fecero pressioni a suo tempo contro l’imposizione di dazi Ue più elevati, temendo che una guerra commerciale potesse danneggiare le loro vendite in Cina, il mercato più grande del mondo e cruciale per i loro profitti. L’Associazione dell’industria automobilistica tedesca (Vda) ha definito i dazi «un errore» e ha sostenuto una soluzione negoziata con Pechino.
La disastrosa svolta all’elettrico imposta da Bruxelles si avvia a essere attenuata con l’apertura (forse) alle immatricolazioni di motori a combustione e ibridi anche dopo il 2035, ma ha creato l’instabilità perfetta per l’ingresso trionfale della Cina nel settore. I produttori europei, combattendo con veicoli elettrici ad alto costo che non vendono come previsto (l’Ev più economico di VW, l’ID.3, costa oltre 36.000 euro), hanno perso quote di mercato e hanno dovuto ridimensionare obiettivi, profitti e occupazione in Europa. A tal riguardo, ieri il premier Giorgia Meloni, insieme ai leader di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria e Ungheria, in una lettera ai vertici Ue, ha esortato l’Unione ad abbandonare, una volta per tutte, il dogmatismo ideologico che ha messo in ginocchio interi settori produttivi, senza peraltro apportare benefici tangibili in termini di emissioni globali». Nel testo, si chiede di mantenere anche dopo il 2035 le ibride e di riconoscere i biocarburanti come carburanti a emissioni zero.
L’Ue, che sempre pretende un primato morale, ha in realtà creato le condizioni perfette per svuotare il continente di produzione industriale. Accettare esenzioni dai dazi sull’import dalle aziende che hanno traslocato in Cina è la beatificazione della delocalizzazione. L’Europa si avvia a diventare uno showroom per prodotti asiatici, con le sue fabbriche ridotte a ruderi. Paradossalmente, diverse case automobilistiche cinesi stanno delocalizzando in Europa, dove progettano di assemblare i veicoli e venderli localmente, aggirando così i dazi europei. La Great Wall Motors progetta di aprire stabilimenti in Spagna e Ungheria per assemblare i veicoli. Anche considerando i più alti costi del lavoro europei (16 euro in Ungheria, dato Reuters), i cinesi pensano di riuscire ad essere più competitivi dei concorrenti locali. Per convenienza, i marchi europei vanno in Cina e quelli cinesi vengono in Europa, insomma. A perderci sono i lavoratori europei.
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