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2024-10-25
Soldi, sesso e amici di sinistra: alla Cultura si torna a ballare
Alessandro Giuli (Ansa)
«La vicenda Spano è una piccola parte di quello che racconteremo domenica a Report. C’è un altro caso che riguarda il ministro Alessandro Giuli». Il conduttore di Report, Sigfrido Ranucci a Un giorno da pecora, su Rai Radio 1, incendia ancora di più il clima all’interno di Fratelli d’Italia. Dopo le dimissioni del capo di gabinetto Francesco Spano, che ha lasciato il suo incarico al ministero della Cultura in seguito alle anticipazioni della trasmissione di inchiesta della Rai, le parole di Ranucci, che sta sapientemente facendo crescere a dismisura l’attesa per la puntata della sua trasmissione, scatenano all’interno del partito di maggioranza relativa una ridda di ipotesi. Quali sono le ulteriori rivelazioni che Report ha in serbo su Giuli? «Dopo il servizio di domenica forse chi non ama Giuli in Fratelli d’Italia lo amerà ancora meno» gigioneggia Ranucci, perfettamente consapevole di essere in grado di terremotare il partito con ogni singola sillaba disvelata in questi giorni ai media.
All’interno della formazione di Giorgia Meloni, infatti, l’atmosfera è piuttosto incandescente: le ipotesi sulle nuove rivelazioni di Report si rincorrono vorticosamente, raggiungendo anche vette quasi di paranoia, mentre è assai probabile che alla fine la trasmissione di Rai Tre domenica sera rivelerà altre forme di trasversalismo ideologico, politico e culturale da parte del ministro Giuli. Quello che è certo è che si taglia a fette la delusione per le prime mosse del ministro della Cultura, soprattutto perché, dopo la tragicomica gestione politica e mediatica del caso Boccia-Sangiuliano, si sperava che il dicastero tornasse a essere un luogo di sobria laboriosità. Nulla si sa di certo sul profilo del sostituto di Spano, tranne il fatto che Giuli si consulterà solo e soltanto con la premier, che lo ha fortemente voluto in quel ruolo e che è l’unica persona alla quale il neoministro si affida per le sue valutazioni, in quanto le riconosce un ruolo ontologicamente superiore.
Intanto, dall’interno di Fratelli d’Italia continuano a trapelare spifferi, con buona pace di chi ha tentato di rendere il partito una camera stagna impenetrabile per i giornalisti. Come se fosse possibile imbavagliare un paio di centinaia di persone tra parlamentari, ministri e sottosegretari, tra l’altro circondati da rispettivi collaboratori.
La crescita esponenziale del partito ha inoltre provocato, come era inevitabile, anche la formazione di quelle che nel Pd si chiamano correnti e che i democristiano definiscono più felpatamente sensibilità. L’equazione probabilmente frutto di tanto nervosismo è che gli scontenti potrebbero essere coloro i quali spifferano indiscrezioni alla stampa. «Il clima è teso», confida a La Verità un autorevole esponente di Fratelli d’Italia, «perché ci sono troppi fronti aperti. L’attacco violento alla magistratura viene considerato da alcuni sbagliato e destabilizzante, la manovra finanziaria non ha un percorso agevole, e anche la vicenda del centro in Albania ha provocato ripercussioni. Tra l’altro il caso Giuli assume contorni più delicati, perché arriva subito dopo l’imprevedibile querelle Boccia-Sangiuliano».
A proposito di Gennaro Sangiuliano, al di là dei retroscena maliziosi di alcuni cronisti parlamentari, all’interno di Fratelli d’Italia è pressoché unanime la convinzione che l’ex ministro non abbia alcun ruolo nelle fughe di notizie. «Figuriamoci», sospira al telefono un parlamentare meloniano di primissimo piano, «se tra quello che gli è successo e le inchieste che lo riguardano, Sangiuliano possa avere il tempo e la voglia di mettersi a fare soffiate ai giornalisti. Del resto, il momento in cui la temperatura del partito è schizzata verso l’alto è coincisa con l’uscita sui giornali della chat relativa al voto sul giudice costituzionale. Da quel momento abbiamo perso serenità e soprattutto nessuno si fida più di nessuno».
Fratelli d’Italia è, a nostro parere, banalmente, di fronte a una crisi di crescita: le scelte operate al momento della formazione del governo e della distribuzione degli incarichi hanno creato, come è inevitabile, degli scontenti. Tanto per non fare nomi, Giovanni Donzelli non ha avuto ruoli di governo ed è stato quantomeno affiancato da Arianna Meloni alla guida del partito. Fabio Rampelli, da parte sua, vicepresidente della Camera era nella scorsa legislatura e vicepresidente della Camera è rimasto. I più fantasiosi tra gli addetti ai lavori fanno notare che il presidente della Commissione cultura alla Camera, Federico Mollicone, protagonista di un robusto scambio di opinioni con Antonella Giuli, giornalista e sorella del ministro, sia proprio uno dei componenti della corrente dei Gabbiani, che fa capo a Rampelli. Mollicone però ha gettatoacqua sul fuoco parlando di «ricostruzioni completamente infondate». Mentre il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari ha smentito le tensioni con il ministro: «Non c'è nessuno scontro tra me e il ministro Giuli. Notizia falsa e pateticamente inventata. Io e Alessandro Giuli ci conosciamo da più di trent'anni anni, è una persona che stimo».
E a quanto ci risulta ogni ipotesi di un ulteriore cambio ai vertici del ministero della Cultura appartiene alla sfera della pura fantascienza.
Ma quale omofobia, è conflitto di interessi
Visto che per colpa del nuovo «caso Spano» siamo in pieno delirio da «allarme omofobia», come da lamenti del centrosinistra, ecco un po’ di sociologia criminale, secondo la moda attuale. Propensione degli omosessuali alla violenza privata e in famiglia? Quasi nulla (più avanti, con più famiglie arcobaleno, si vedrà). Propensione dei gay alla corruzione, alla concussione e alle malversazioni in generale? Bassissima. Propensione alle spese fuori controllo con relative note gonfiate? Nella media. Propensione ai reati di stampo mafioso? Nulla, sono discriminati anche come semplici picciotti. Propensione al traffico d’influenze e all’abuso d’ufficio? Nella media, ma chiunque abbia un minimo di cultura giuridica riconoscerà che sono due fanta-reati. E però le cose potrebbero cambiare, quando l’omosessualità non sarà più né una notizia né una vergogna. Tutti faranno i reati di tutti come tutti, ma già oggi sarebbe il caso di affermare che difendere l’avvocato Francesco Spano dalle accuse sugli incarichi distribuiti al consorte, dipingendo l’ex capo di gabinetto del ministro Alessandro Giuli come «vittima di omofobia», non solo è clamorosamente fuorviante, ma è discriminatorio. Perché equivale a dire che di fronte a certi comportamenti, penalmente rilevanti o eticamente inaccettabili, l’omosessualità sarebbe una sorta di scriminante.
I fatti sono semplici. In attesa che Report vada in onda, domenica sera, Spano si è dimesso da capo di gabinetto nominato di Giuli perché è uscita la storia della consulenza che avrebbe attribuito al marito Marco Carnabuci quando era alla guida del Maxxi. E’ una cosa che con i soldi pubblici non si dovrebbe fare e basta, indipendentemente da qualunque altra considerazione. E’ molto malvista anche nel privato, almeno nelle aziende di medie e grandi dimensioni. Se l’avvocato Carnabuci fosse stato il figlio del dirigente Spano, a Repubblica avrebbero parlato di familismo amorale. Se fosse stato donna, si sarebbe parlato di patriarcato e così via. Se fossero stati soci in affari, sarebbe arrivata la Guardia di Finanza. Se Carnabuci avesse militato nei Nar o in Terza Posizione, si sarebbe parlato di trame nere che ritornano. Invece Spano e Carnabuci sono una coppia stabile, a casa come sul lavoro, e quindi hanno diritto a essere difesi a spada tratta. E i fatti semplici diventano come per incanto complicati. Come il quasi incomprensibile articolo di Giuliano Ferrara sul Foglio di ieri, che lamenta «la penosa minicrociata al grido di “dagli al pederasta” a danni di un funzionario mite e competente». Ferrara nella foga attacca perfino Mario Giordano, accusato di far parte della «destra forcaiola» e di avere «la voce chioccia». Cioè, per difendere un amico dalla presunta omofobia, Ferrara si è dato al bodyshaming e al bullismo. Non male, come eterogenesi dei fini. Non è invece sicuramente eterogenesi di nulla il fatto che la moglie di Ferrara, Anselma Dell’Olio, il mese scorso sia stata nominata dal ministero della Cultura nella commissione Cinema.
La chiamata alle armi in difesa del compagno Spano, cresciuto alla scuola di sincretismo di Giuliano Amato, ha risvegliato anche Ivan Scalfarotto. Il senatore di Italia Viva ha detto al Giornale: «Report ha pompato il presunto scandalo “al maschile” utilizzando in modo deliberato una unica leva: la morbosità omofoba». Poi ha provato a stanare il direttore, Sigfrido Ranucci: «Fa impressione che proprio un giornalista che si dice di sinistra abbia scelto di utilizzare questo tipo di inaccettabile gossip stile anni Cinquanta sui “torbidi ambienti omosessuali”». Ranucci, però, la lezioncina di etica e giornalismo da uno che sta con Matteo Renzi non se l’ha capita e gli ha risposto così: «Scalfarotto ha detto una stronzata, ma sa di cosa parla? Abbiamo fatto molto più noi di lui». Si è avuta a male di questo miserevole indagare su favori e favoriti anche Giovanna Melandri, ex presidente del Maxxi in quota Pd: «L’avvocato Marco Carnabuci è stato chiamato dal Maxxi nel giugno 2018, quando Francesco Spano non aveva nulla a che fare con il museo (…) Quello che è in corso è un orribile regolamento di conti di una destra omofoba». Melandri fa finta di non sapere che il problema non è il primo contratto di Carnabuci firmato da lei, ma il secondo firmato dal suo lui. In campo anche Alessandro Zan, padrino della celebrata e omonima non-legge, che si dice «colpito dalle offese a Spano riguardo il suo orientamento sessuale».
Non si poteva sottrarre al soccorso arcobaleno neppure Anna Paola Concia. L’ex senatrice Dem denuncia ad Huffington Post che «c’è un atteggiamento pilatesco. Dicono che aspettano di vedere Report... Ma c’è bisogno di vedere la trasmissione per difendere una persona da un attacco omofobo?». L’omosessualità come misura di tutte le cose. Se piace ai censori del centrosinistra, padronissimi. Ma il vero problema del caso Spano sono l’utilizzo di soldi pubblici, i possibili ricatti a chi non ha ancora fatto coming out e il sospetto di una lobby. Che visto il cordone difensivo sopra descritto, è più che un sospetto.
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Riduci
Il caso Spano non finisce più. Sigfrido Ranucci annuncia: «Domenica un altro scoop che riguarda Giuli». Ivan Scalfarotto e Giuliano Ferrara accusano l’omofobia, ma non c’entra nulla. Partito in ansia per la scelta del nuovo capo di gabinetto.La sinistra si indigna per le dimissioni del capo di gabinetto del Mic e straparla di discriminazioni. Fingono tutti di ignorare i soldi pubblici fatti avere al compagno.Lo speciale contiene due articoli.«La vicenda Spano è una piccola parte di quello che racconteremo domenica a Report. C’è un altro caso che riguarda il ministro Alessandro Giuli». Il conduttore di Report, Sigfrido Ranucci a Un giorno da pecora, su Rai Radio 1, incendia ancora di più il clima all’interno di Fratelli d’Italia. Dopo le dimissioni del capo di gabinetto Francesco Spano, che ha lasciato il suo incarico al ministero della Cultura in seguito alle anticipazioni della trasmissione di inchiesta della Rai, le parole di Ranucci, che sta sapientemente facendo crescere a dismisura l’attesa per la puntata della sua trasmissione, scatenano all’interno del partito di maggioranza relativa una ridda di ipotesi. Quali sono le ulteriori rivelazioni che Report ha in serbo su Giuli? «Dopo il servizio di domenica forse chi non ama Giuli in Fratelli d’Italia lo amerà ancora meno» gigioneggia Ranucci, perfettamente consapevole di essere in grado di terremotare il partito con ogni singola sillaba disvelata in questi giorni ai media. All’interno della formazione di Giorgia Meloni, infatti, l’atmosfera è piuttosto incandescente: le ipotesi sulle nuove rivelazioni di Report si rincorrono vorticosamente, raggiungendo anche vette quasi di paranoia, mentre è assai probabile che alla fine la trasmissione di Rai Tre domenica sera rivelerà altre forme di trasversalismo ideologico, politico e culturale da parte del ministro Giuli. Quello che è certo è che si taglia a fette la delusione per le prime mosse del ministro della Cultura, soprattutto perché, dopo la tragicomica gestione politica e mediatica del caso Boccia-Sangiuliano, si sperava che il dicastero tornasse a essere un luogo di sobria laboriosità. Nulla si sa di certo sul profilo del sostituto di Spano, tranne il fatto che Giuli si consulterà solo e soltanto con la premier, che lo ha fortemente voluto in quel ruolo e che è l’unica persona alla quale il neoministro si affida per le sue valutazioni, in quanto le riconosce un ruolo ontologicamente superiore. Intanto, dall’interno di Fratelli d’Italia continuano a trapelare spifferi, con buona pace di chi ha tentato di rendere il partito una camera stagna impenetrabile per i giornalisti. Come se fosse possibile imbavagliare un paio di centinaia di persone tra parlamentari, ministri e sottosegretari, tra l’altro circondati da rispettivi collaboratori. La crescita esponenziale del partito ha inoltre provocato, come era inevitabile, anche la formazione di quelle che nel Pd si chiamano correnti e che i democristiano definiscono più felpatamente sensibilità. L’equazione probabilmente frutto di tanto nervosismo è che gli scontenti potrebbero essere coloro i quali spifferano indiscrezioni alla stampa. «Il clima è teso», confida a La Verità un autorevole esponente di Fratelli d’Italia, «perché ci sono troppi fronti aperti. L’attacco violento alla magistratura viene considerato da alcuni sbagliato e destabilizzante, la manovra finanziaria non ha un percorso agevole, e anche la vicenda del centro in Albania ha provocato ripercussioni. Tra l’altro il caso Giuli assume contorni più delicati, perché arriva subito dopo l’imprevedibile querelle Boccia-Sangiuliano». A proposito di Gennaro Sangiuliano, al di là dei retroscena maliziosi di alcuni cronisti parlamentari, all’interno di Fratelli d’Italia è pressoché unanime la convinzione che l’ex ministro non abbia alcun ruolo nelle fughe di notizie. «Figuriamoci», sospira al telefono un parlamentare meloniano di primissimo piano, «se tra quello che gli è successo e le inchieste che lo riguardano, Sangiuliano possa avere il tempo e la voglia di mettersi a fare soffiate ai giornalisti. Del resto, il momento in cui la temperatura del partito è schizzata verso l’alto è coincisa con l’uscita sui giornali della chat relativa al voto sul giudice costituzionale. Da quel momento abbiamo perso serenità e soprattutto nessuno si fida più di nessuno». Fratelli d’Italia è, a nostro parere, banalmente, di fronte a una crisi di crescita: le scelte operate al momento della formazione del governo e della distribuzione degli incarichi hanno creato, come è inevitabile, degli scontenti. Tanto per non fare nomi, Giovanni Donzelli non ha avuto ruoli di governo ed è stato quantomeno affiancato da Arianna Meloni alla guida del partito. Fabio Rampelli, da parte sua, vicepresidente della Camera era nella scorsa legislatura e vicepresidente della Camera è rimasto. I più fantasiosi tra gli addetti ai lavori fanno notare che il presidente della Commissione cultura alla Camera, Federico Mollicone, protagonista di un robusto scambio di opinioni con Antonella Giuli, giornalista e sorella del ministro, sia proprio uno dei componenti della corrente dei Gabbiani, che fa capo a Rampelli. Mollicone però ha gettatoacqua sul fuoco parlando di «ricostruzioni completamente infondate». Mentre il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari ha smentito le tensioni con il ministro: «Non c'è nessuno scontro tra me e il ministro Giuli. Notizia falsa e pateticamente inventata. Io e Alessandro Giuli ci conosciamo da più di trent'anni anni, è una persona che stimo». E a quanto ci risulta ogni ipotesi di un ulteriore cambio ai vertici del ministero della Cultura appartiene alla sfera della pura fantascienza.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/cultura-si-torna-a-ballare-2669476536.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="ma-quale-omofobia-e-conflitto-di-interessi" data-post-id="2669476536" data-published-at="1729805332" data-use-pagination="False"> Ma quale omofobia, è conflitto di interessi Visto che per colpa del nuovo «caso Spano» siamo in pieno delirio da «allarme omofobia», come da lamenti del centrosinistra, ecco un po’ di sociologia criminale, secondo la moda attuale. Propensione degli omosessuali alla violenza privata e in famiglia? Quasi nulla (più avanti, con più famiglie arcobaleno, si vedrà). Propensione dei gay alla corruzione, alla concussione e alle malversazioni in generale? Bassissima. Propensione alle spese fuori controllo con relative note gonfiate? Nella media. Propensione ai reati di stampo mafioso? Nulla, sono discriminati anche come semplici picciotti. Propensione al traffico d’influenze e all’abuso d’ufficio? Nella media, ma chiunque abbia un minimo di cultura giuridica riconoscerà che sono due fanta-reati. E però le cose potrebbero cambiare, quando l’omosessualità non sarà più né una notizia né una vergogna. Tutti faranno i reati di tutti come tutti, ma già oggi sarebbe il caso di affermare che difendere l’avvocato Francesco Spano dalle accuse sugli incarichi distribuiti al consorte, dipingendo l’ex capo di gabinetto del ministro Alessandro Giuli come «vittima di omofobia», non solo è clamorosamente fuorviante, ma è discriminatorio. Perché equivale a dire che di fronte a certi comportamenti, penalmente rilevanti o eticamente inaccettabili, l’omosessualità sarebbe una sorta di scriminante. I fatti sono semplici. In attesa che Report vada in onda, domenica sera, Spano si è dimesso da capo di gabinetto nominato di Giuli perché è uscita la storia della consulenza che avrebbe attribuito al marito Marco Carnabuci quando era alla guida del Maxxi. E’ una cosa che con i soldi pubblici non si dovrebbe fare e basta, indipendentemente da qualunque altra considerazione. E’ molto malvista anche nel privato, almeno nelle aziende di medie e grandi dimensioni. Se l’avvocato Carnabuci fosse stato il figlio del dirigente Spano, a Repubblica avrebbero parlato di familismo amorale. Se fosse stato donna, si sarebbe parlato di patriarcato e così via. Se fossero stati soci in affari, sarebbe arrivata la Guardia di Finanza. Se Carnabuci avesse militato nei Nar o in Terza Posizione, si sarebbe parlato di trame nere che ritornano. Invece Spano e Carnabuci sono una coppia stabile, a casa come sul lavoro, e quindi hanno diritto a essere difesi a spada tratta. E i fatti semplici diventano come per incanto complicati. Come il quasi incomprensibile articolo di Giuliano Ferrara sul Foglio di ieri, che lamenta «la penosa minicrociata al grido di “dagli al pederasta” a danni di un funzionario mite e competente». Ferrara nella foga attacca perfino Mario Giordano, accusato di far parte della «destra forcaiola» e di avere «la voce chioccia». Cioè, per difendere un amico dalla presunta omofobia, Ferrara si è dato al bodyshaming e al bullismo. Non male, come eterogenesi dei fini. Non è invece sicuramente eterogenesi di nulla il fatto che la moglie di Ferrara, Anselma Dell’Olio, il mese scorso sia stata nominata dal ministero della Cultura nella commissione Cinema. La chiamata alle armi in difesa del compagno Spano, cresciuto alla scuola di sincretismo di Giuliano Amato, ha risvegliato anche Ivan Scalfarotto. Il senatore di Italia Viva ha detto al Giornale: «Report ha pompato il presunto scandalo “al maschile” utilizzando in modo deliberato una unica leva: la morbosità omofoba». Poi ha provato a stanare il direttore, Sigfrido Ranucci: «Fa impressione che proprio un giornalista che si dice di sinistra abbia scelto di utilizzare questo tipo di inaccettabile gossip stile anni Cinquanta sui “torbidi ambienti omosessuali”». Ranucci, però, la lezioncina di etica e giornalismo da uno che sta con Matteo Renzi non se l’ha capita e gli ha risposto così: «Scalfarotto ha detto una stronzata, ma sa di cosa parla? Abbiamo fatto molto più noi di lui». Si è avuta a male di questo miserevole indagare su favori e favoriti anche Giovanna Melandri, ex presidente del Maxxi in quota Pd: «L’avvocato Marco Carnabuci è stato chiamato dal Maxxi nel giugno 2018, quando Francesco Spano non aveva nulla a che fare con il museo (…) Quello che è in corso è un orribile regolamento di conti di una destra omofoba». Melandri fa finta di non sapere che il problema non è il primo contratto di Carnabuci firmato da lei, ma il secondo firmato dal suo lui. In campo anche Alessandro Zan, padrino della celebrata e omonima non-legge, che si dice «colpito dalle offese a Spano riguardo il suo orientamento sessuale». Non si poteva sottrarre al soccorso arcobaleno neppure Anna Paola Concia. L’ex senatrice Dem denuncia ad Huffington Post che «c’è un atteggiamento pilatesco. Dicono che aspettano di vedere Report... Ma c’è bisogno di vedere la trasmissione per difendere una persona da un attacco omofobo?». L’omosessualità come misura di tutte le cose. Se piace ai censori del centrosinistra, padronissimi. Ma il vero problema del caso Spano sono l’utilizzo di soldi pubblici, i possibili ricatti a chi non ha ancora fatto coming out e il sospetto di una lobby. Che visto il cordone difensivo sopra descritto, è più che un sospetto.
Carlo Messina all'inaugurazione dell'Anno Accademico della Luiss (Ansa)
La domanda è retorica, provocatoria e risuona in aula magna come un monito ad alzare lo sguardo, a non limitarsi a contare i droni e limare i mirini, perché la risposta è un’altra. «In Europa abbiamo più poveri e disuguaglianza di quelli che sono i rischi potenziali che derivano da una minaccia reale, e non percepita o teorica, di una guerra». Un discorso ecumenico, realistico, che evoca l’immagine dell’esercito più dolente e sfinito, quello di chi lotta per uscire dalla povertà. «Perché è vero che riguardo a welfare e democrazia non c’è al mondo luogo comparabile all’Europa, ma siamo deboli se investiamo sulla difesa e non contro la povertà e le disuguaglianze».
Le parole non scivolano via ma si fermano a suggerire riflessioni. Perché è importante che un finanziere - anzi colui che per il 2024 è stato premiato come banchiere europeo dell’anno - abbia un approccio sociale più solido e lungimirante delle istituzioni sovranazionali deputate. E lo dimostri proprio nelle settimane in cui sentiamo avvicinarsi i tamburi di Bruxelles con uscite guerrafondaie come «resisteremo più di Putin», «per la guerra non abbiamo fatto abbastanza» (Kaja Kallas, Alto rappresentante per la politica estera) o «se vogliamo evitare la guerra dobbiamo preparaci alla guerra», «dobbiamo produrre più armi, come abbiamo fatto con i vaccini» (Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea).
Una divergenza formidabile. La conferma plastica che l’Europa dei diritti, nella quale ogni minoranza possibile viene tutelata, si sta dimenticando di salvaguardare quelli dei cittadini comuni che alzandosi al mattino non hanno come priorità la misura dell’elmetto rispetto alla circonferenza cranica, ma il lavoro, la famiglia, il destino dei figli e la difesa dei valori primari. Il ceo di Banca Intesa ricorda che il suo gruppo ha destinato 1,5 miliardi per combattere la povertà, sottolinea che la grande forza del nostro Paese sta «nel formidabile mondo delle imprese e nel risparmio delle famiglie, senza eguali in Europa». E sprona le altre grandi aziende: «In Italia non possiamo aspettarci che faccia tutto il governo, se ci sono aziende che fanno utili potrebbero destinarne una parte per intervenire sulle disuguaglianze. Ogni azienda dovrebbe anche lavorare perché i salari vengano aumentati. Sono uno dei punti di debolezza del nostro Paese e aumentarli è una priorità strategica».
Con l’Europa Carlo Messina non ha finito. Parlando di imprenditoria e di catene di comando, coglie l’occasione per toccare in altro nervo scoperto, perfino più strutturale dell’innamoramento bellicista. «Se un’azienda fosse condotta con meccanismi di governance come quelli dell’Unione Europea fallirebbe». Un autentico missile Tomahawk diretto alla burocrazia continentale, a quei «nani di Zurigo» (copyright Woodrow Wilson) trasferitisi a Bruxelles. La spiegazione è evidente. «Per competere in un contesto globale serve un cambio di passo. Quella europea è una governance che non si vede in nessun Paese del mondo e in nessuna azienda. Perché è incapace di prendere decisioni rapide e quando le prende c’è lentezza nella realizzazione. Oppure non incidono realmente sulle cose che servono all’Europa».
Il banchiere è favorevole a un ministero dell’Economia unico e ritiene che il vincolo dell’unanimità debba essere tolto. «Abbiamo creato una banca centrale che gestisce la moneta di Paesi che devono decidere all’unanimità. Questo è uno degli aspetti drammatici». Ma per uno Stato sovrano che aderisce al club dei 27 è anche l’unica garanzia di non dover sottostare all’arroganza (già ampiamente sperimentata) di Francia e Germania, che trarrebbero vantaggi ancora più consistenti senza quel freno procedurale.
Il richiamo a efficienza e rapidità riguarda anche l’inadeguatezza del burosauro e riecheggia la famosa battuta di Franz Joseph Strauss: «I 10 comandamenti contengono 279 parole, la dichiarazione americana d’indipendenza 300, la disposizione Ue sull’importazione di caramelle esattamente 25.911». Un esempio di questa settimana. A causa della superfetazione di tavoli e di passaggi, l’accordo del Consiglio Affari interni Ue sui rimpatri dei migranti irregolari e sulla liceità degli hub in Paesi terzi (recepito anche dal Consiglio d’Europa) entrerà in vigore non fra 60 giorni o 6 mesi, ma se va bene fra un anno e mezzo. Campa cavallo.
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Riduci
Luca Casarini. Nel riquadro, il manifesto abusivo comparso a Milano (Ansa)
Quando non è tra le onde, Casarini è nel mare di Internet, dove twitta. E pure parecchio. Dice la sua su qualsiasi cosa. Condivide i post dell’Osservatore romano e quelli di Ilaria Salis (del resto, tra i due, è difficile trovare delle differenze, a volte). Ma, soprattutto, attacca le norme del governo e dell’Unione europea in materia di immigrazione. Si sente Davide contro Golia. E lotta, invitando anche ad andare contro la legge. Quando, qualche giorno fa, è stata fermata la nave Humanity 1 (poi rimessa subito in mare dal tribunale di Agrigento) Casarini ha scritto: «Abbatteremo i vostri muri, taglieremo i fili spinati dei vostri campi di concentramento. Faremo fuggire gli innocenti che tenete prigionieri. È già successo nella Storia, succederà ancora. In mare come in terra. La disumanità non vincerà. Fatevene una ragione». Questa volta si sentiva Oskar Schindler, anche se poi va nei cortei pro Pal che inneggiano alla distruzione dello Stato di Israele.
Chi volesse approfondire il suo pensiero, poi, potrebbe andare a leggersi L’Unità del 10 dicembre scorso, il cui titolo è già un programma: Per salvare i migranti dobbiamo forzare le leggi. Nel testo, che risparmiamo al lettore, spiega come l’Ue si sia piegata a Giorgia Meloni e a Donald Trump in materia di immigrazione. I sovranisti (da quanto tempo non sentivamo più questo termine) stanno vincendo. Bisogna fare qualcosa. Bisogna reagire. Ribellarsi. Anche alle leggi. Il nostro, sempre attento ad essere politicamente corretto, se la prende pure con gli albanesi che vivono in un Paese «a metà tra un narcostato e un hub di riciclaggio delle mafie di mezzo mondo, retto da un “dandy” come Rama, più simile al Dandy della banda della Magliana che a quel G.B. Brummel che diede origine al termine». Casarini parla poi di «squadracce» che fanno sparire i migranti e di presunte «soluzioni finali» per questi ultimi. E auspica un modello alternativo, che crei «reti di protezione di migranti e rifugiati, per sottrarli alle future retate che peraltro avverranno in primis nei luoghi di “non accoglienza”, così scientificamente creati nelle nostre città da un programma di smantellamento dei servizi sociali, educativi e sanitari, che mostra oggi i suoi risultati nelle sacche di marginalità in aumento».
Detto, fatto. Qualcuno, in piazzale Cuoco a Milano, ha infatti pensato bene di affiggere dei manifesti anonimi con le indicazioni, per i migranti irregolari, su cosa fare per evitare di finire nei centri di permanenza per i rimpatri, i cosiddetti di Cpr. Nessuna sigla. Nessun contatto. Solo diverse lingue per diffondere il vademecum: l’italiano, certo, ma anche l’arabo e il bengalese in modo che chiunque passi di lì posa capire il messaggio e sfuggire alla legge. Ti bloccano per strada? Non far vedere il passaporto. Devi andare in questura? Presentati con un avvocato. Ti danno un documento di espulsione? Ci sono avvocati gratis (che in realtà pagano gli italiani con le loro tasse). E poi informazioni nel caso in cui qualcuno dovesse finire in un cpr: avrai un telefono, a volte senza videocamera. E ancora: «Se non hai il passaporto del tuo Paese prima di deportarti l’ambasciata ti deve riconoscere. Quindi se non capisci la lingua in cui ti parla non ti deportano. Se ti deportano la polizia italiana ti deve lasciare un foglio che spiega perché ti hanno deportato e quanto tempo deve passare prima di poter ritornare in Europa. È importante informarci e organizzarci insieme per resistere!».
Per Sara Kelany (Fdi), «dire che i Cpr sono “campi di deportazione” e “prigioni per persone senza documenti” è una mistificazione che non serve a tutelare i diritti ma a sostenere e incentivare l’immigrazione irregolare con tutti i rischi che ne conseguono. Nei Cpr vengono trattenuti migranti irregolari socialmente pericolosi, che hanno all’attivo condanne per reati anche molto gravi. Potrà dispiacere a qualche esponente della sinistra o a qualche attivista delle Ong - ogni riferimento a Casarini non è casuale - ma in Italia si rispettano le nostre leggi e non consentiamo a nessuno di aggirarle». Per Francesco Rocca (Fdi), si tratta di «un’affissione abusiva dallo sgradevole odore eversivo».
Casarini, da convertito, diffonde il verbo. Che non è quello che si è incarnato, ma quello che tutela l’immigrato.
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