2022-05-12
Crisi alimentare mondiale a un passo. C’è lo spettro della tessera del pane
Il conflitto blinda le riserve di grano ucraine e blocca gli scambi. Risultato: da noi prezzi alle stelle e consumi in picchiata, mentre in Africa e nello Sri Lanka torna la fame vera, con i relativi disordini.Effetto collaterale: fame. Mentre Joe Biden e Mario Draghi si scambiano corrispondenze di belligeranti intenti, il resto del mondo precipita nella crisi alimentare. Sul conto dei morti ci sono non soltanto quelli ucraini di Mariupol e i militari russi, ma anche i massacri che si stanno compiendo in Sri Lanka dove c’è una guerra civile alimentata, non è purtroppo un calembour, dalla fame. Se Colombo sembra persa nell’oceano Indiano (era la mitologica Ceylon) i supermercati stanno in Italia. Il ministro della transizione ecologica Roberto Cingolani ci ha spiegato che siamo in un’economia di guerra - non l’abbiamo dichiarata, il Parlamento su questa faccenda non è tra i solitamente bene informati - e ha ragione perché all’orizzonte si profila la tessera annonaria. Non è un’esagerazione. I prezzi alimentari sono in incessante ascesa: ad aprile sono passati dal più 5 al più 6%; i prodotti dell’industria agroalimentare sono rincarati in un mese dal 3,9 al 5,4%. Luigi Scordamaglia di Filiera Italia chiede all’Europa e all’Italia di non rinunciare alla sovranità alimentare e afferma essere insostenibile per agricoltori e imprese l’impennata dei costi, Ivano Vacondio ai suoi ultimi atti da presidente dei Federalimentare dice apertamente: «Sui prezzi non si tornerà più indietro, gli aumenti diverranno strutturali». L’allarme sul carrello della spesa è generalizzato. La reazione? I consumi sono in picchiata. L’Istat a marzo li ha certificati in generale a meno 0,8% (su base mensile), quelli alimentari (è considerata domanda anelastica) restano stazionari in volume, ma calano dello 0,6% in valore. Significa che la gente mangia peggio. Se in Italia va così, intorno a noi cresce l’allarme per fame. La Tunisia è una pentola a pressione che sta bollendo a fuoco lento. Dicono che nel cuore dell’Europa c’è una guerra e bisogna mobilitarsi per difendere i confini dall’invasione russa. Non fa una piega, solo che c’è anche la sponda Sud, il Mediterraneo che per noi italiani è casa. In Tunisia sta per accadere ciò che successe undici anni fa: una nuova rivolta del pane. La salutarono come la primavera araba, la democrazia che trionfava. Erano solo succhi gastrici in ebollizione; la democrazia non è mai stata un pasto completo per i tunisini. In compenso il pane già stato razionato, la semola per fare il cus cus, il piatto nazionale, è diventata introvabile: ha il colore dell’oro, ma ora anche il prezzo. È vero che la crisi economica in Tunisia c’era già prima del conflitto ucraino, che il parlamento è stato sciolto d’imperio il 30 marzo dal presidente della Repubblica Kais Saied che ha concesso il bis dopo la prima sospensione dell’estate scorsa, ma ora la situazione è fuori controllo. Domanda all’Europa dei valori: lì la democrazia non è in pericolo? Lì non si dovrebbe intervenire? L’Egitto è in preda ai crampi di stomaco. Mangiano, i «diseredati» dai Faraoni, 180 chili di pane all’anno a testa, importavano l’85% del loro grano dall’Ucraina (gli manda quello Ogm prodotto da tre multinazionali americane: Cargill, DuPont e Monsanto a cui il democratico presidente Vloydimir Zelensky ha venduto oltre 2 milioni ettari dando luogo alla più massiccia espropriazione di terre che si sia mai conosciuta in Europa) e dalla Russia, non ne hanno più un chicco e ora oltre a essere carissimo il pane è diventato introvabile. Al Cairo pensano di nuovo alla tessera annonaria. La Fao inascoltata continua a dare l’allarme sui prezzi alimentari che sono in continua incessante ascesa e a ogni dieci centesimi di dollaro di aumento corrispondono un milione di nuovi «morti di fame». Ma guai a parlare di armistizio per far sì che dai porti del mar Nero possano salpare quelle 50 navi cariche di tonnellate di cereali e olio di girasole che potrebbero alleviare questa pena. Le cifre sono impietose anche se ignorate: la Libia importa il 75% dei cereali da Ucraina e Russia, il Marocco il 21% da Odessa, la Tunisia il 47%, l’Egitto chiede 10 milioni di tonnellate all’anno. Eritrea e Somalia senza il grano di Putin non sopravvivono: sono dipendenti al 90% da quelle importazioni. Ma che importa! Forse l’Occidente dovrebbe pensarci su perché il soccorso alimentare lì arriva solo dalla Cina che peraltro si è accaparrata in anticipo il 60% del grano russo facendo esplodere i prezzi internazionali. Mentre l’Europa discuteva del green e di mettere a riposo i suoi campi Xi Jinping e Vladimir Putin hanno firmato, l’8 febbraio scorso, un accordo per cui la Cina può comprare dalla Russia tutti i cereali che Mosca destina all’export: più o meno 45 milioni di tonnellate limitandoci solo al grano. Tornando allo Sri Lanka è vero che è una guerra lontana, ma è anche vero che i massacri a Colombo sono furiosi. Si è dimesso da presidente del Consiglio Mahinda Rajapaksa e con lui l’intero governo, ma il presidente della Repubblica Gotabaya Rajapaksa - fratello minore del premier - ha accordato poteri speciali ai militari. La capitale è in stato d’assedio, al momento si conterebbero almeno 15 morti, ci sono scontri ovunque. Sono 22 milioni di persone alla fame. Per ora il Fondo monetario non ha ancora concesso crediti per evitare il caos totale in un Paese che ha dichiarato default. La guerra in Ucraina ha dato la mazzata finale a un’economia fragilissima e la mancanza di aiuti alimentari ha fatto esplodere la rabbia popolare. Ci vorrebbe un uovo per Colombo, un aiuto, ma l’Occidente si è girato dall’altra parte. Speriamo che non suoni una tragica sveglia a cominciare dalla Tunisia; infiammerebbe tutta l’Africa dove noi andiamo mendicando il gas per spegnere Valdimir Putin.
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Dopo l'apertura dei lavori affidata a Maurizio Belpietro, il clou del programma vedrà il direttore del quotidiano intervistare il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, chiamato a chiarire quali regole l’Italia intende adottare per affrontare i prossimi anni, tra il ruolo degli idrocarburi, il contributo del nucleare e la sostenibilità economica degli obiettivi ambientali. A seguire, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, offrirà la prospettiva di un territorio chiave per la competitività del Paese.
La transizione non è più un percorso scontato: l’impasse europea sull’obiettivo di riduzione del 90% delle emissioni al 2040, le divisioni tra i Paesi membri, i costi elevati per le imprese e i nuovi equilibri geopolitici stanno mettendo in discussione strategie che fino a poco tempo fa sembravano intoccabili. Domande cruciali come «quale energia useremo?», «chi sosterrà gli investimenti?» e «che ruolo avranno gas e nucleare?» saranno al centro del dibattito.
Dopo l’apertura istituzionale, spazio alle testimonianze di aziende e manager. Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, dialogherà con Belpietro sulle opportunità di sviluppo del settore energetico italiano. Seguiranno gli interventi di Maria Rosaria Guarniere (Terna), Maria Cristina Papetti (Enel) e Riccardo Toto (Renexia), che porteranno la loro esperienza su reti, rinnovabili e nuova «frontiera blu» dell’offshore.
Non mancheranno case history di realtà produttive che stanno affrontando la sfida sul campo: Nicola Perizzolo (Barilla), Leonardo Meoli (Generali) e Marzia Ravanelli (Bf spa) racconteranno come coniugare sostenibilità ambientale e competitività. Infine, Maurizio Dallocchio, presidente di Generalfinance e docente alla Bocconi, analizzerà il ruolo decisivo della finanza in un percorso che richiede investimenti globali stimati in oltre 1.700 miliardi di dollari l’anno.
Un confronto a più voci, dunque, per capire se la transizione energetica potrà davvero essere la leva per un futuro più sostenibile senza sacrificare crescita e lavoro.
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