2022-09-21
I diktat anti Covid mettono a rischio il diritto di voto di 420.000 italiani
Mentre molti Paesi le hanno abolite, la mania di Speranza per le quarantene si abbatte sugli elettori. Da oggi, i positivi non possono più richiedere di votare da casa. E chi scopre solo ora di essere contagiato, resta escluso.Forse la pandemia è finita. Ma la quarantena no. E in una tornata elettorale in cui, chi non si rassegna all’idea di una «barbara» al governo, confida nella grazia di sant’Astenuto, ogni scusa è buona - Covid incluso - per tenere gli italiani lontani dai seggi. E dalla matita con cui potrebbero barrare il simbolo di uno dei partiti della coalizione di centrodestra. Ieri era il termine ultimo concesso dal governo ai positivi, per consegnare nei Comuni di residenza la propria richiesta di voto da casa. Una trafila articolata, al punto da risultare sospetta. Per esercitare il supremo diritto-dovere democratico, bisognava presentare una dichiarazione attestante la volontà di esprimere il voto presso il proprio domicilio, recante l’indirizzo completo di quest’ultimo, ma solo in un periodo compreso tra il decimo e il quinto giorno prima della data delle elezioni; e un certificato firmato dal funzionario Asl incaricato, il quale confermasse che l’interessato era sottoposto a un trattamento domiciliare, oppure si trovava in isolamento. Purché, però, il documento non fosse più vecchio di 14 giorni: al quindicesimo, infatti, gli infetti possono uscire anche senza tampone negativo. Diverso l’iter per i ricoverati. Questi ultimi sono autorizzati a votare nelle sezioni ospedaliere, qualora le strutture che li ospitano dispongano di almeno 100 posti letto. Altrimenti, il loro voto dovrà essere raccolto presso i nosocomi. Anche in questo caso, una filiera da organizzare per tempo, con un impegno logistico per i Comuni. Un labirinto che stride con la solerzia con cui, a gennaio, era stato ideato il sistema per consentire agli onorevoli di partecipare all’elezione del nuovo presidente della Repubblica: i privilegiati avevano avuto il permesso di abbandonare la quarantena e giungere a Roma con un mezzo privato, dove si sarebbero recati nel garage antistante la Camera. Ma loro sono loro…Non si tratta di un intoppo che riguarda un drappello di sfortunati, incapaci di influire sul risultato delle forze politiche in campo. Secondo le stime di Fondazione Gimbe, allo scorso 16 settembre, erano 421.980 gli italiani positivi al coronavirus. Entro ieri, costoro avrebbero dovuto attrezzarsi con la modulistica imposta dalla norma. Quasi mezzo milione di persone, il cui voto potrebbe essere facilmente scoraggiato dalle farraginosità burocratiche. Specie nel caso di chi era già tentato dalla prospettiva di non per niente recarsi alle urne. Senza contare, poi, l’incomprensibile esclusione di chi si ammalerà tra oggi e domenica. Sono infetti di serie B? Le loro prerogative costituzionali dipendono dal periodo d’incubazione di un agente patogeno? Il Viminale replicherebbe che, per espletare le pratiche, non sono sufficienti 24, 48 e magari nemmeno 72 ore. E che è necessario effettuare con scrupolosità le verifiche, per evitare che qualche furbetto, fingendosi contagiato, riesca magari a votare due volte: una al seggio e una a casa. Il problema vero è che, in questo Paese, siamo ancora prigionieri della filiera di Roberto Speranza, l’ultimo mohicano dell’emergenza sanitaria. Il virosamurai che, come Hiroo Onoda, l’irriducibile giapponese rimasto in trincea per 30 anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, continua a ripetere che non bisogna abbassare la guardia, mentre mezzo mondo va dicendo che la pandemia è archiviata. Così, se Paesi come la Gran Bretagna e la Spagna hanno abolito le quarantene, senza che si vedano cadaveri accatastati nelle loro strade, il nostro ministero della Salute, all’opposto, insiste nell’alimentare le stesse psicosi di due anni e mezzo fa. Restando, nondimeno, incapace di arginare la diffusione di Omicron 5, come l’ondata estiva ha dimostrato. È da questo incaponimento, che sorge il dilemma del voto dei positivi. Non era sufficiente organizzare percorsi separati ai seggi? Costringerli a indossare la Ffp2? Igienizzare le matite copiative? O, addirittura, infischiarsene, come s’è sempre fatto, consentendo ai cittadini di votare pure con 39 di febbre? Prima, di fragili da proteggere, non ce n’erano? Se lo scopo è limitare i rischi, l’effetto potenziale risulta controproducente: chi maturasse sintomi adesso, sarà incentivato a evitare l’autodenuncia. Per schivare l’isolamento e per potersi recare alle urne. Non è che tanti bizantinismi sono funzionali alla causa di chi spera di ingrossare le fila del già pingue partito degli astenuti? Da un lato, il fenomeno che, in statistica, è noto come «randomizzazione», dovrebbe far sì che, nel campione dei malcapitati affetti dal Covid, si trovino tanti simpatizzanti di Enrico Letta quanti fan di Giorgia Meloni. Il primo sostiene che quel 40-45% di riottosi vada convinto «a fidarsi del Pd». È noto, tuttavia, che mentre gli elettori progressisti sono diligenti, quasi militarizzati e, in genere, corrono in cabina anche se devono superare qualche avversità, il popolo del centrodestra è volatile, fluido, stufarello. L’astensionismo favorisce i dem. In fondo, questi signori ragionano come Speranza: la pandemia dovrebbe essere il fenomeno in grado di rifondare l’egemonia della sinistra. Il Covid li ha tenuti in sella? Allora, il Covid li può salvare dal tracollo.
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